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JAZZ

 

IL JAZZ, PASSIONE DI MOLTI…

di Angela de Nicola

 

“Pochi capivano il jazz…”

A sentire cantare Paolo Conte nel refrain di uno dei suoi brani più famosi, sarei pronta a cambiare immediatamente titolo, mettere punto e andare a capo. Non è facile parlare di Jazz, questo è certo. Molto facile è ascoltarlo, facilissimo innamorarsene.

Perché, al contrario di quanto si potrebbe pensare, il Jazz è davvero una passione di molti, un fenomeno fin’anche “democratico” e, stando a quello che succede oggi, dai tratti addirittura “low cost” visto il pubblico sempre più numeroso ed entusiasta che popola le diverse manifestazioni anche qui al sud, soprattutto nel periodo estivo. Tuttavia, l’idea che ancora oggi molti hanno del Jazz, un’idea dura a morire, è quella di un genere musicale quantomeno inavvicinabile, dall’ascolto ostico, difficile, ed in più con addosso quella contraddizione tipica che fa di esso un sottoprodotto della musica classica. Ma se si tiene conto del fatto che oggi finalmente esso è entrato di diritto tra le materie di studio del Conservatorio, allora qualcosa proprio non torna. E così, tolto di mezzo ogni dubbio tra denominazione di “colto” o “popolare”, il Jazz -che oggi rende onore all’improvvisazione facendola diventare addirittura materia di studio - può essere  definito senza ombra di dubbio un più che perfetto esempio di contaminazione musicale, artistica e culturale, insomma uno dei pochi esempi di “arte colta dai tratti popolari”. Ma di quale Jazz si deve parlare o quanti tipi di Jazz esistano, Dio solo lo sa. E allora rispondere alla fatidica domanda “cosa sia veramente il Jazz” è cosa difficile se non addirittura ardua. Aggirare la domanda diventa in questo caso lecito ed è infondo un po’ come rispondere ad essa. Personalmente, non parteggio tout court con i cosiddetti “puristi assoluti”, con coloro i quali diffidano a priori dall’”easy listening” e dalla “commercializzazione acuta” che a partire dai primi anni novanta ha preso piede piede in numerosi fenomeni modani, con coloro che – detto in altre parole- escluderebbero drasticamente fuori dall’olimpo della purezza sonora fenomeni ricchi e sorprendenti come quelli del Lounge, del Chillout, dell’Ambient, del cosiddetto “Jazzy”, della ricerca. E così, da profana qual sono, approfittando col lasciarmi altrettanto volentieri alle spalle i vari dibattiti degli addetti ai lavori circa la possibile coesistenza e convivenza di due tipi di Jazz (quello appunto classico/accademico e quello “contaminato”, figlio della grande rivoluzione Motown, della grande svolta “Acid/Fusion” anni settanta che strizza piacevolmente l’occhio alla World Music) resto ferma su un’unica grande convinzione: la forza di questo genere musicale risiede principalmente nella grande carica che esso porta con sé. Il Jazz è un afflato viscerale, in bilico tra spiritualità e primordialità, capace di trascinare prima l’orecchio e poi l’anima verso due grandi concetti: la LIBERTA’ (in quanto storicamente esso nasce come canto di liberazione a scandire le ore tristi e buie di  lavoro manuale degli afroamericani nelle piantagioni di cotone della Louisiana , le cosiddette“blue hours”, da qui la sua base vocale del che è appunto “blues”) e soprattutto il concetto di ARMONIA, quella creatività cioè che viene dall’anima, dal “soul” da quando, in altri termini, il genere si è gradatamente affermato nelle prime classiche “jazz band” di tre , quattro fino ad arrivare a nove o dieci elementi ad imitazione della musica da ascolto ma anche da ballo nell’America dello swing anni Cinquanta. Senza contare l’assenza di limiti che il genere ha dimostrato di avere dopo la metà secolo scorso, allorché ha appunto avuto da un lato la capacità di rinascere dalle sue stesse ceneri esplodendo nel non catalogabile universo poetico della Fusion, per poi sbarcare dall’altro lato lungo le coste del Sudamerica ed abbracciarne la cultura locale, trasformandosi così nel grande fenomeno della Bossanova.

E allora, a pensarci bene, forse alla luce di una tale riflessione sembra quasi che il refrain di cui sopra assuma un’aria mezzo ironica:  altrochè se pochi capiscono il Jazz … a conti fatti, questa musica, risultato di un continuum culturale  tra vari popoli, sembra quasi voler abbracciare il mondo intero , da Louis Armstrong che la coltivò come forte piantagione in America, a Benny Goodman che l’apparentò alle orchestre classiche europee, fino a modellarsi in mani a mio avviso tanto geniali quanto poeticamente diverse e trasversali le une dalle altre come quelle di un Gary Peacock, di un Paul Motian, di un Arvo Part, di un Lester Bowie, di un Jaco Pastorius, fino ad arrivare in mondi tanto distanti come quelli abitati da un Vinicius de Moraes o da un Antonio Carlos Jobim, riconosciuti ai giorni nostri come vere istituzioni della cultura brasiliana. E così oggi mettersi all’ascolto di un brano jazz può significare rischiare di avere a che fare con oltre un secolo di storia della musica: quando si scopre un brano ben fatto e si aprono bene le orecchie non è difficile sentirci dentro tutta la storia, tutto il respiro e tutta l’ispirazione di uomini e di donne maestri di un genere da sempre in bilico tra tecnica ed improvvisazione, tra istinto ed armonia, tra caos e silenzio; quel jazz osannato nelle strade quanto declassato e poi promosso nelle accademie, che da sempre fa discutere ma che – soprattutto – giorno dopo giorno non smette di  sorprendere.


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