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LE MIE RADICI SONO IN MEZZO AL MARE
“UN BIGLIETTO PER L’ISOLA” DI ERMANNO DODARO:
UN VIAGGIO VERSO GLI ORIZZONTI DI UN NUOVO APPARTENERSI
di Angela De Nicola

 

Chi mi conosce sa quanto io ami le isole. Si tratta di mondi a parte. Se vivi su un’isola molto probabilmente sai o hai la percezione di portare avanti un’esistenza che quasi sempre si profila “appena un attimo indietro” rispetto al resto del mondo. Pianeti di mare con il loro sistema autosufficiente, spesso direi quasi autoregolamentato. Perle da scoprire, legami da vivere con la loro illimitata geografia da sogno, geografia che oltrepassa di gran lunga, dentro un incantesimo del quale ancora non si conosce l’esatta alchimia, il limite e il segno finito della loro stessa materia di terra e di mare. Le isole sono richiami fortissimi, piccoli miracoli, custodi di leggende e di storie recenti che diventano poi subito tali. Artefici, sempre e comunque, di complesse nostalgie.

Tutte le volte che mi si presenta l’occasione non esito a visitarne una, e pur nella consapevolezza di un viaggio appena un po' più complesso del solito o nella precisa coscienza di vivere quasi sempre i limiti naturali e i naturali problemi legati alla permanenza su di esse, non posso che sentirmi ogni volta felice di raggiungerle: questi fascinosi lembi di terra hanno insomma il potere di farmi ritornare ogni volta a casa carica di un bagaglio nuovo, un bagaglio del cuore difficilmente distruttibile.
Dalle Tremiti - di cui con Maria Carmela Mugnano ho parlato la volta scorsa - ad una piccola isola della Croazia dal nome multiforme, il passo è veramente breve.

Breve per vicinanza argomentativa ma anche geografica.

E così questo articolo che devo per amicizia ad Ermanno Dodaro, autore (assieme a Tullia Ranieri) di “Un biglietto per l’isola” è altresì una “scusa” e un’occasione per raccontarvi di tutto l’amore che con mio marito e mia figlia da sempre nutro per questi pezzi di mondo staccati dal mondo e ricongiunti al mondo con la forza del sogno.

Quando Ermanno - di cui tempo fa ho recensito sulle stesse pagine di questo blog il lavoro discografico “Avenidamerica” - mi ha invitato a leggere “Un Biglietto per l’isola”, non avrei potuto essere più entusiasta. Il mistero di un’isola fatta romanzo e tutta da leggere, ancora una volta, per me. Mi sono venuti in mente tutti i libri con soggetto “isolano” che avevo consumato fino a quel momento: da Stevenson a Michel Tournier, passando, lo ammetto, finanche per le guide turistiche che qua e là sbucano come “scherzi improvvisati” fuori da scaffali e cassetti della mia libreria domestica. Nel giro di pochi giorni il libro era nelle mie mani ma mi ripromisi di leggerlo in vacanza, proprio davanti al mare. Non era il mare di un’isola quella volta, va bene, ma il clima sarebbe bastato ugualmente a creare l’atmosfera.

Credo che Ermanno Dodaro abbia una visione del concetto fisico ed emozionale di “Isola” almeno un centinaio di volte più forte del mio. Per lui esistono ragioni molto più vaste e profonde rispetto a quelle nate dalla mia testa, ragioni che lo hanno spinto a viaggiare e poi a scrivere un libro che parli appunto di un’isola. Perché, è chiaro, questo libro non parla solamente di una macchia di terra con la sua sbalorditiva geografia. Questo è un libro che, oltre a parlare di un’isola, narra di una storia veramente personale.

Una storia di famiglia.

Se proprio devo creare un po' di suspance, comincerò col dirvi intanto che, conoscendo il dinamismo di Ermanno, ho ritrovato la sua vitalità, il suo modo di essere e la sua schietta simpatia un po' dappertutto in queste pagine di “Un Biglietto per l’Isola”, esattamente come quando ti accorgi che una persona molto versatile, più che monotonamente scrivere di sé e dei suoi, voglia in tutta confidenza, parlare ad un gruppo di cari amici, amici che egli stesso avrà voluto immaginare intorno a sé, magari seduti a un tavolo per un’allegra riunione interrotta qua e là da qualche accenno musicale al basso o alla chitarra, suoi strumenti di vita e di lavoro. Questo il tono del volumetto, un tono confidenziale che Dodaro stesso tiene a non definire “romanzo” ma che nondimeno del romanzo assurge a levatura e a dignità: solo ottantasette pagine, una volata, parole che ben si sono prestate, per queste ragioni, ad un recente adattamento per il teatro.

Fin qui l’aura e il prospetto di queste pagine.

Il contenuto però, quello è un’altra cosa. Sul contenuto desidero andarci piano. Parlarne con doverosa delicatezza, direi quasi con religioso rispetto. Al tempo stesso però mi piace il modo con cui Ermanno ami quasi “scherzare” sull’ enorme responsabilità di un argomento tanto unico quanto affettivamente complesso come le radici, l’identità familiare; tantopiù se queste passano attraverso quel “setaccio grigio” che è la Guerra. Perché “Un biglietto per l’Isola” parla (e il cerchio si chiude sui tre indizi fondamentali) della famiglia di Ermanno e di come essa abbia attraversato, su un’isola che pochi conoscono, il dramma della guerra. Anzi a dirla tutta e bene, il dramma di “una doppia guerra”. Con il conseguente dramma di un esilio. Anzi di un doppio esilio.

Un classico “romanzo familiare”?

Non proprio
Questa dovrebbe essere una sinossi” scrive Dodaro, “ma il condizionale è d’obbligo perché credo non lo sia. Forse dovrebbe essere considerata un diario di viaggio, ma a guardare bene, i diari procedono in ordine cronologico, cosa che questo scritto non fa.
Il libro è bizzarro, salta di palo in frasca, zompa, ride, piange. Si avvolge su sé stesso, cerca parafrasi, si avvita in argomentazioni e argomenta motivazioni, inciampa e cade, sussurra e si contorce, dà l’addio definitivo e bussa alla porta del cuore dopo tre secondi. E’ finito nel cestino tante di quelle volte che contarle è impossibile. […]
Non è facile catalogarlo, dargli un codice, mettergli un’etichetta, affibbiargli una qualifica.
Vorrei che vi leggeste dentro la storia di una famiglia, una storia raccontata attraverso un viaggio reale e onirico ma mai cronologico, un viaggio dalle tappe strane ed inconsuete e mai preordinate se non dal fato.
 Il punto di partenza è un’isola dell’attuale Croazia, Lastovo, ma la stessa isola ha anche un nome italiano, Lagosta.”

Lagosta, Lastovo, Angusta Insula, Ladeston.
L’isola, confida Ermanno al lettore, a dispetto dei suoi molteplici nomi: “non sono nemmeno sicuro che esista”.

Un puntino sulle carte nautiche che, via catamarano, dalle Isole Tremiti, lo scrittore, che è anche uno dei maggiori protagonisti della storia, raggiunge in una sera di fine Luglio del 2004.
Un puntino sulle carte nautiche. Che per i più non ha nessun evidente significato (di questo egli stesso ne è consapevole). Ma che sarà il punto di partenza per rompere l’afasia e tornare a parlare di un pezzo di storia personale importante, un necessario ricongiungimento con i legami di sangue, il quale trasformerà una enigmatica, muta fotografia, nell’inizio di un vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo a scorrere i fotogrammi ancora vivi nella storia di un nucleo familiare.

La storia di Nicola Romita, il nonno di Ermanno, è storia così tanto singolare che nemmeno la seconda e terza generazione dei Lagostani è riuscita a dimenticare. E non è riuscita a cancellarla la guerra che da Mussolini a Tito ha smorzato le voci e i suoni di quest’isola, diluendone colori e richiami: un mondo che - sebbene non potrà più tornare fisicamente - rivivrà però con la forza del ricordo. La piazza della Radio, la scritta cancellata dei Grandi Magazzini Lagostani fondati nell’isola da nonno Nicola, le stradine che dal porto immerso in un verde accecante dalla bellezza sovrumana, si inerpicano su fino al borgo antico oggi ormai quasi del tutto disabitato … ma soprattutto una foto, quella foto da cui la ricerca di Ermanno è partita, l’immagine che, piena di forza comunicativa, ritrae Nicola da giovane, un uomo colmo di vita e di speranze nel pieno della sua esistenza familiare e sociale sull’isola: un uomo nuovo, diseredato ma rifatto da sé, fuggito con coraggio e determinazione da Bari, dalle regole paterne e dal retaggio della sua benestante famiglia di origine, avendo sposato con la forza di un amore supremo ed intramontabile una donna che per la famiglia non era quella giusta ma che da lui era stata messa innanzi ad ogni regola o imposizione “di casato” di dote, di eredità. Ermanno, che non ha mai conosciuto Nicola, non può resistere al richiamo di quella vita così singolare, così diversa, non può non fantasticare su quello sguardo così unico e penetrante: quell’anima e quel sangue richiamano per forza di cose un ricongiungimento sia storico che famigliare. Già da troppo tempo quell’appuntamento è stato rimandato: è ormai ora di partire per Lastovo come fece il nonno un giorno tanto lontano per rifarsi una vita. E’ tempo di ricongiungersi, di sapere, di riscoprire e di riguardare, giacchè è proprio lo sguardo di Nicola che posandosi su quello di Ermanno dall’angolo di quella vecchia foto, invita il nipote ad intraprendere “il viaggio”. Entrambi sembrano osservarsi dalle profondità di un secolo all’altro: “Vieni, ti aspetto”. E’ un’irresistibile richiamo: “Andiamo”.

Non svelerò, non sarebbe giusto, altri particolari di questa bellissima storia, scritta con limpidezza di cuore, scioltezza argomentativa e così piena di passaggi pittoreschi, intimi, freschi, emozionali come solo un nipote avrebbe potuto fare nei confronti non solo di un nonno ma di tutti gli altri membri della propria famiglia. E non c’è nessun tono celebrativo in queste pagine, ma una verità che si evidenzia da sola. Si tratta di una storia che appare ed è in definitiva specchio uguale e diverso di tante altre storie famigliari e comunitarie travolte dall’uragano della Seconda Guerra Mondiale. Quanti equilibri sono stati sconvolti, quante possibilità di vivere sono state smorzate, quante esistenze deviate per sempre: noi non lo sapremo mai davvero e questo perché non tutti, dai resoconti orali, hanno voluto poi raccontare, documentare, dare vita e corpo, lasciare in eredità attraverso libri o scritti di varia natura.

Se Ermanno non avesse deciso di ripercorrere la strada fisica dei fondali rocciosi di Lagosta, delle sue case sbrecciate e del cimitero che guarda al mare per poi percorrere quella a ritroso nel fondo del suo cuore, forse Nicola Romita sarebbe rimasto per sempre fermo lì, lo sguardo pietrificato sul bordo della scogliera del porticciolo, la canna da pesca in mano e l’ombra come un miraggio di chi gli fu strappato alla vita. Se non lo avesse fatto, forse zia Pina sarebbe rimasta bloccata nel paesello, cacciata fuori dalla sua scuola - per ordine del tribunale del popolo “liberato” da Tito - a pulire gabinetti, “le mani rosse e spellate” ma la testa in paradiso a sognare e risognare i tuffi e il verde del mare da cui nessuno aveva il potere di distoglierla. E l’esodo dei Romita, via da quell’isola così come dalla Dalmazia insieme a tutti gli altri italiani per ordine del “Generale” sarebbe rimasto un ennesimo film muto da guardare, fotogrammi senza alcun commento, come in una lontana e sbiadita controluce, uno scatto fotografico consegnato alla storia senza la dovuta didascalia.

“Sai” dice zia Dina ad Ermanno davanti a quella che un tempo sull’isola era la casa di famiglia “Tu guardi questa casa e la vedi in rovina, noti le crepe sui muri, le erbacce continuano a crescere negli interstizi del portico. Per te è la visione reale di una cosa, ma per me è differente. Io la vedo ancora con lo sguardo di una volta, sento i passi di chi l’ha vissuta e amata e sono felice.”

Il segreto della vita risiede sempre nella forza di uno sguardo che va oltre lo sguardo, proprio come quello di zia Dina sopra quella casa sbrecciata e solo apparentemente senza calore.

E’ uno sguardo “ricreatore” che risponde a comandi ed istinti ben precisi, che ignora gli scherzi e le angherie della storia, le bieche vicende ed i più bassi sentimenti degli uomini. Quello sguardo ricreatore ha saputo scavalcare ogni barriera temporale, ridonando una forza e un vigore talmente potenti che né la guerra, né la morte, né la disperazione, né le traversie potranno ormai più distruggere. E’ un “saper vedere” che è un “saper amare”; è in definitiva uno sguardo che vince sempre e che sempre spera. Ed è uno sguardo che, credo, zia Dina sia riuscita a comunicare interamente al nipote. E che mamma Tilde aveva già passato a suo figlio “con il latte” e “attraverso le canzoni di culla” cantate in quella antica misteriosa lingua appena al di là del nostro Adriatico. E così Ermanno che ha saputo nutrire pian piano quello sguardo, non ha fatto altro che alimentare un desiderio a mio avviso molto più forte della semplice curiosità familiare, poiché la forza di un ricongiungimento, anche se solo simbolico, anche se solo guidato da un abbraccio che dopo tanti anni non potrà che essere solo per metà reale, ha dato però ugualmente vita alla “registrazione di qualcosa” che non è solo e semplicemente una “nota” ed un “appunto sulla famiglia” ma è bensì un prodotto artistico passibile di diventare “di tutti”, ovvero di chiunque avrà la bontà e la volontà di leggere ed apprezzare.

E se è vero, così come scrive Ermanno, che per la famiglia Romita “… da quel momento Lastovo-Lagosta affonda nella memoria […] ed il tempo inesorabile ne ricopre persino il mare” è ancor più vero che per la legge della vita e dell’amore, nessuna innocente, pura e bella storia di famiglia può consumarsi eternamente al fuoco dell’oblio, perché come fenice dalla cenere e per una strana ma incontrovertibile legge del desiderio e del destino, essa ritornerà a rivivere.
Per ogni fuga c’è sempre un ritorno, per ogni partire un ritornare, per ogni desiderio un solo sublime attimo:“un momento che” scrive - anzi confida - Ermanno “non potrei spiegarvi, neanche se volessi”.

Non si può spiegare perché succedano le guerre. Neanche se uno volesse. O perchè poi sopravviva l’amore. Neanche se uno lo volesse. O perchè la musica accada - neanche se uno lo volesse- o perché sopraggiunga la morte, o perché un bel giorno si compiano le rivoluzioni. Possiamo però, se vogliamo, innamorarci di un’isola, scrivere un libro, metterci a contare le onde del mare. O sapere che il tempo e lo spazio sono infondo faccende della nostra testa, poichè chi scompare può vivere con noi ogni giorno e, infondo, un’isola che pochi conoscono può racchiudere per te l’intero paradigma e significato dell’esistenza.
Ermanno, sai, credo che forse presto andremo a Lastovo, e da lì, se ancora le vendono, ti manderemo una cartolina.
Ma la più bella l’hai già mandata tu a tutti noi quando hai deciso che avresti fatto il tuo viaggio.

ANGELA DE NICOLA
(Centro Studi Leone XIII)

 

 NOTA: Ringrazio Ermanno Dodaro per l’amicizia e per la rinnovata fiducia riposta nei confronti del mio lavoro.
Questa mia recensione arriva in realtà ad un bivio temporale decisivo l’opera. “Un biglietto per l’Isola” infatti è attualmente in fase di ampliamento e sta per varcare le soglie di una distribuzione editoriale classica, di tipo professionale, a livello nazionale.
Per gli amici del Centro Studi e per tutti i lettori del nostro blog, l’anteprima dunque di una bella notizia legata al libro, il quale lasciando la sua attuale veste di pubblicazione, darà vita, sotto un nuovo titolo, ad una rinnovata versione editoriale nella primavera del 2020. La nuova edizione che vedrà un numero maggiore di capitoli rispetto a quella attuale, godrà - si auspica- di una fruibilità certamente più ampia, così come tale lavoro merita.
Un po' di pazienza ed i colori delle parole e del mare, i sapori della Storia mischiati a un lessico famigliare, la musica dei ricordi vicini e lontani, il velluto seppiato di una vecchia foto che rimescola la sabbia dell’esistenza saranno nuovamente disponibili alle menti dei lettori.
Seguiranno dunque presto in questa sede indicazioni e notizie, per chi fosse interessato, su come acquistare la versione definitiva del libro di Ermanno Dodaro.