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JAZZ

 

DUKE ELLINGTON: QUANDO L’ORCHESTRA DIPINGE IL JAZZ

 

di Angela de Nicola

 

Immaginiamo un prima e un dopo. Immaginiamo una tela bianca e poi così, all’improvviso, un primo rapido schizzo di colore. E poi varianti di tonalità di quel colore stesso. E per finire, lasciamo che il nostro occhio percorra sulla trama del lino tutte le gradazioni cromatiche possibili. Lasciamo che le pupille compongano e dopo contemplino un’opera d’arte di forte impatto. Ecco: Duke Ellington sta all’orecchio dell’ascoltatore di Jazz come la tela bianca sta all’occhio del neofita dell’arte … chiunque, anche se non conoscesse nulla di pittura, vedrebbe ad intuito la differenza che passa tra tela nuda e tela lavorata, tra inizio e fine del lavoro, tra prima e dopo. Chiunque, anche un bambino. C’era un prima e c’è un dopo. E Duke Ellington è quel DOPO. Dopo di lui il JAZZ.

Non c’è bisogno di essere esperti di genere per capire che egli è stato una sorta di “rivoluzione copernicana” di questo genere musicale: e così l’idea stessa del Jazz, quella che spesso appare all’immaginario collettivo con la visione mentale dell’orchestra munita anzitutto di pianoforte e fiati, quell’idea e quell’immagine vengono da Duke, dal suo “mood”, dalla sua personalità, dalla sua brillante storia, dalla sua fortunata attività, dalla sua inestimabile professionalità. Basterebbe ascoltare un solo suo pezzo o un solo suo disco per far sbucare fuori da un angolo remoto del nostro cervello il ricordo di ciò che quasi certamente nel corso della vita è passato attraverso le nostre orecchie: da “Caravan” a “Take’A’ Train”, da “Mood Indigo” a “Prelude to a Kiss” … e siamo all’ABC di questo genio immortale, di questo gigante della musica mondiale, di questa specie di “Einstein della Melodia”, così come è stato giustamente definito, artefice di circa tremila lavori, onorato da ben due presidenti degli Stati Uniti, vincitore tra i premi più prestigiosi (dai Grammy al Pulitzer fino alla Legione d’Onore Francese) premiato in tutti i paesi del mondo, suonato ancora oggi in tutte le accademie musicali così come in tutti i Festival Jazz che si rispettino (non ultima l’acclamatissima tournée musicale del maestro Paolo Silvestri con un impareggiabile Fabrizio Bosso alla tromba)… un uomo mite e religiosissimo, con un gran senso del dovere, dotato di una forte dose di autostima, di immense capacità manageriali verso se stesso e verso i suoi “compagni musicali” e che da piccolo sognava di fare nientemeno che il grafico pubblicitario.

E c’è da dire che il “senso cromatico” Edward Kennedy Ellington - classe 1899, nato a Washington da una famiglia di colore della Middle Class - ce l’aveva tutto: la musica, che egli imparò ad apprendere in famiglia con l’uso del pianoforte già in età prescolare, era - credo - per lui assoluto “senso del colore” dal momento in cui, molto probabilmente, suono e costruzione stessa del suono diventavano nella sua mente una più che naturale “associazione coloristica” potendo come immagino “fluire dentro” con la stessa rapidità attraverso cui l’occhio guarda il colore o è colpito dalla luce.La spontaneità -insomma- con cui Ellington compose, lavorò, riadattò musica per circa cinquantatre anni, non può che nascere a mio avviso da questa “sapienza naturale” ed è questa l’idea che da ascoltatrice dei suoi dischi mi sono fatta. L’idea, in altri termini, che la sua orchestra jazz, un fenomeno del tutto nuovo che egli praticamente inventò dal nulla o quasi, “dipingesse suonando”. Ellington non arrivò subito a tali livelli, è chiaro. Come ogni cosa ben fatta, ci lavorò su con tempo ed esperienza. Ma il risultato fu grandioso: l’arrangiatore che dà il mood (il là per intenderci) e gli orchestrali che lo seguono, praticando sfumature di note come di colore, eppure ognuno seguendo la propria personalità, la propria verità musicale, la propria traccia strumentale e la propria capacità tonale chiaramente udibile e al tempo stesso mai scissa dall’interplay.

E’ forse anche per questo che tutto il patrimonio artistico - musicale elligtoniano stenta a farsi definire semplicemente e solo “jazz”: le sue composizioni che storicamente partono dal Ragtime degli anni venti (quel ritmo sincopato, spezzato, impari che prima di ogni altra cosa si lascia apparentare col pop moderno) assimilando sia i movimenti di Louis Armstrong che della Original Dixieland Band di New Orleans, si fermano a cogliere l’intrigo della strada come quello dei Cafès, la realtà delle grandi metropoli urbane e delle sale da ballo, fino a carpire - nei tempi migliori della sua carriera - gli odori e i sapori di molti popoli del Globo (quasi col piglio dello studio etnografico).Si tratta a mio avviso di assolute “metafonie” che passano dalla velocità dello Swing alla spazialità della Musica Classica, dal senso sinfonico (che per sua stessa ammissione Duke catturava dalle sfumature della musica cinematografica) fino alla tipica improvvisazione jazzistica a tutto tondo. Di fronte a questi movimenti da assoluto crossover che uniscono l’improvvisazione “dal basso” alle altezze del pentagramma, gettando di quando in quando anche un occhio al walzer, al foxtrot, alle ballate; di fronte a queste atmosfere generate da un’irripetibilità che è assolutamente “borderline” e per ciò stesso modernissima, non possiamo non accorgerci di tutta la classe di un arrangiatore che amava studiare con precisione i movimenti di ogni singolo componente dell’orchestra, un direttore che nulla lasciava al caso e che ha saputo innalzare al rango di musica di settore quel jazz che con Armstrong veniva ancora definito volgare e di serie B. Ancora oggi in tutto il mondo jazz colpisce e viene studiata la sua affascinante tecnica del “Catching a Tune”, quel “rubare” cioè una melodia rendendola quasi un’ossessione musicale -un ritornello per intenderci- lavorato poi con infiorescenze, con aggiunte, varianti, miriadi di improvvisazioni, quelle che egli stesso amava chiamare “tricks” (scherzi).

Ed era pressappoco così che nasceva il suo personalissimo modo di lavorare, una tecnica che in linea di massima è oggi la regola base di tutti i musicisti jazz: questo “facking”, ovvero questo modo di mascherare o modificare una sequenza ritmica che è la stessa eppure al tempo stesso non lo è mai, quest’arte del mostrare e nascondere sempre una stessa melodia, affascinandoci intorno alle miriadi di possibilità con cui essa può essere cancellata e ridisegnata (basti solo pensare alle decine di varianti con cui “Take ‘A’ Train” è stata ripresentata nei suoi dischi, una più bella dell’altra). In altre parole ancora, credo che Duke Ellington non abbia fatto altro che inventare “l’autocitazione musicale” che del jazz è grossomodo l’essenziale: è lì che si misurano tutte le capacità di un musicista la cui meta mira ad essere quella di una sintesi sempre rincorsa e mai definitivamente raggiunta.

Ma ciò per cui di fatto Ellington passa alla storia del jazz è alla fine quell’immensa capacità istrionica all’interno di un corpo orchestrale tenuto in vita con il medesimo entusiasmo per ben cinque decadi, capacità grazie alla quale l’orchestra ellingtoniana diventerà un vero e proprio mito incrollabile. Varianti strumentali occasionali a parte, possiamo dire che John Anderson/Bubber Miley/Arthur Whetsol (trombone), Sonny Greer/Louis Bellson (batteria), Harry Carney (clarinetto e sax baritono), Johnny Hodges (sax alto), Otto Hardwick/Roland Smith (sax contralto), Barney Bigard (clarinetto e sax tenore), Ellmer Snowden/Fred Guy (banjo, chitarra), Wellman Braud (basso, trombone, tuba), non hanno fatto altro che rappresentare le estensioni armoniche della mente musicale di Duke che è riuscito a portare il suo gruppo non più solo ai livelli di “una band di colore eccellentemente assortita” (così come venne definita dalla rivista “Billboard” negli anni trenta) bensì al rango di un vero e proprio ensemble strumentale “alla maniera dei bianchi” in cui il posto d’onore è senza dubbio dato ai fiati, i quali, man mano che le capacità compositive aumentano, riescono nel corso degli anni, a fare da elegante contrappunto all’incedere del piano di Duke, impattando e sottilizzando la tecnica dell’improvvisazione.E cosa dire quando questa stessa orchestra si incontra, nel corso della sua ascesa, con le migliori personalità del Jazz Americano, da John Coltrane a Coleman Hawkins, dallo stesso Louis Armstrong a Charles Mingus, da Count Basie a Frank Sinatra, passando per la collaborazione con le orchestre sinfoniche di Parigi, di Amburgo, di Stoccolma, della Scala di Milano per finire con gli adattamenti a balletto del coreografo Maurice Béjart? Molto è stato scritto in merito e non è il caso soffermarsene in questa sede, ma tanto basta per capire che Duke Ellington ha significato per il Jazz un punto di rottura assoluto, un gradevole non ritorno, un immenso spartiacque che ha fatto di quel misunderstanding musicale chiamato “giass” un’armonia di anime, di suoni, un’armonia entro cui diversi musicisti si mettono a confronto lavorando su sensazioni ed emozioni, intendendosi e abbracciandosi musicalmente al di là di un pentagramma già scritto, per interiorizzare, unificare, specializzare la materia musicale, rendendole da qui all’eternità luce nuova, freschezza e rivoluzione.

Un’orchestra che dipinge suonando, dicevamo… dunque un’orchestra con tutti i colori del Jazz che è passata dalle feste da ballo in stile pseudo-africano con tanto di balletti in stile jungla, alle acclamatissime tournées mondiali degli anni cinquanta e sessanta, un gruppo di uomini appassionati di musica per i quali i primi incerti passi della combinazione contrappuntistica fra elementi hanno lasciato via via il posto alle sperimentazioni, alle contorsioni, alla versatilità, all’eccellenza e alla professionalità di lavori come “Liberian Suite” (1949), “Ellington Uptown” (1952), “The Afro-Eurasian Eclipse” (1971), “Ellington at Newport” (1956), indimenticato eppure discusso unico “live” della carriera del “Duca”, fino agli abbandoni lirici di pubblicazioni solistiche come “The Pianist” (1974), “Piano in the Background” e “Blues in Orbit” (entrambi del 1960). E così, nonostante naturali momenti di declino, trapassi e defezioni da parte di alcuni fedelissimi, l’orchestra ha attraversato più di mezzo secolo della cultura e della musica del Novecento, rendendosi assoluta protagonista della storia del Jazz e dando al Jazz tutti i colori e tutte le sfumature possibili, tanto che ascoltare un disco di Duke è come guardare dipingere una tela dall’inizio alla fine, dal bianco del silenzio ai colori dell’armonia, dal suono dell’America fino a quello dell’intero mondo e della razza umana.


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