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SCRIVONO DI LUI...

 

Il brigante ed il ribelle. In margine a: “Una messa per Carmine” di Pasquale Tucciariello.(1)


“E voi non chiamateli briganti. Ribelli. Fu ribellione non brigantinaggio.”
(Pasquale Tucciariello.)

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Introdurre alla lettura de “Una messa per Carmine”, l’ultimo libro di Pasquale Tucciariello, è per me, ad un tempo, un grande piacere e un compito arduo, al quale non so se sarò capace di corrispondere, facendo velo alla obiettività che lo sguardo critico presuppone e impone, la inevitabile parzialità di chi, da un quarto di secolo, è legato al suo autore da una sincera e fraterna amicizia. Mi si perdonerà, dunque, se
mi concederò, di seguito, una breve digressione intesa a gettar luce sul senso di questa, per me, preziosa amicizia. Ovviamente, con questa parentesi biografico-autobiografica, non intendo in alcun modo far scivolare in secondo piano, magari per ossequio ad un bieco narcisismo venato di sentimentalismo, il libro di Pasquale. Anzi è appunto per gettar luce su un tema del libro, che mi sta particolarmente a cuore e che più sento vicino alla mia sensibilità, che mi avventuro in questo detour privato.  
Conobbi Pasquale agli inizi degli anni Novanta: io, giovane laureato in filosofia, ateo e comunista, e lui, di qualche anno maggiore di me, giornalista impegnato, credente e democristiano. Nessuno, probabilmente, in quegli anni in cui ancora vive erano le contrapposizioni ideologiche e sincere e appassionate le appartenenze, avrebbe scommesso sulla durata e sulla sincera e fraterna lealtà di questa amicizia. Nessuno tranne, forse, noi. Dico “forse” perché se il cuore mai dubitò della tenuta di questo legame; la ragione non sapeva (almeno per quanto mi riguarda) comprendere quali segrete affinità ci tenessero insieme, ostinatamente tesi a coltivare, appunto, un’amicizia che non si risolveva semplicemente in amabile convivialità, ma che trovava il suo compimento in collaborazioni sempre fruttuose e appassionate. Tirare in ballo, per individuare le ragioni del nostro sodalizio, la solfa, oggi a la page, della apologia della differenza e del pluralismo, mi sembra irrispettoso nei confronti dei valori cui sempre, entrambi, siamo rimasti fedeli, sia pure nella forma di una fedeltà sempre attenta ai mutamenti di clima culturale e politico e sempre più addolorata dalle piaghe che la storia recente impietosamente apriva nella nostra carne.
No, non sono state le differenze (che ovviamente abbiamo sempre rispettato l’uno nell’altro) a legarci, ma qualcosa di “comune”: una consonanza, una condivisione che, a dispetto del rigore, spesso un po’ troppo ideologico dei nostri orizzonti culturali di riferimento, ci ha fatto camminare sempre sulla stessa strada e nella medesima direzione.
Ebbene, proprio la lettura di Una messa per Carmine mi ha chiarito, oggi, a distanza di un quarto di secolo, e come mai avrebbe potuto fare una semplice chiacchierata, le ragioni del nostro convergere nella medesima direzione, nonostante le differenze che sempre abbiamo custodito quali garanti della nostra identità. Di questa comunanza di intenti, di questa condivisione di orizzonti, spero di poter rendere conto di seguito, analizzando, dal mio punto di vista, quello filosofico, un passaggio essenziale del testo di Pasquale a cui alludo con il titolo della mia comunicazione.

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“Non chiamateli briganti. Ribelli. Fu ribellione non brigantinaggio.” Questo passaggio (che ritorna ossessivamente nel testo a marcare la centralità del tema a cui rinvia) necessita di una chiarificazione preliminare; tanto più che in esso è custodito, a mio parere, il senso dell’intero racconto.
Degli aspetti più propriamente letterari non dirò nulla, convinto che “altri canterà con miglior plettro”. Prenderò le mosse, invece, dalla questione filosofica che questo passaggio (e, credo, l’intero racconto) sottende. Cominciamo da una sottolineatura di carattere etimologico. Il termine brigante è participio del verbo brigare e allude all’attaccar briga, al far parte di una brigata militare, all’esercitare violenza. Il termine ribelle, invece, discende dal latino rebellem che letteralmente significa “chi ricomincia (re) la guerra (bellum)”. La ribellione indica dunque la resistenza di chi non si arrende alla sconfitta e torna “ad impugnar l’arme”.
Ciò detto torniamo al testo. La questione che ci interessa  è quella dell’identità di Carmine Crocco: ribelle o brigante?  Pasquale non ha dubbi (Carmine fu un ribelle) e io non ho nessuna intenzione di dargli torto. Non mi soffermerò pertanto sulla questione, certo di grande momento, relativa alla valutazione storiografica dell’operato di quelli che furono, dal potere costituito allora vigente e da tanta storiografia asservita ai luoghi comuni, definiti briganti. Tale questione è trattata magistralmente da Pasquale nel suo libro ed io non intendo aggiungere nulla a ciò che è stato così ben detto. Partirò dunque più da lontano. Partirò dal tentativo di chiarire in termini teorici il significato di questa dicotomia. La differenza tra ribelle e brigante, così come emerge anche solo a livello linguistico, è una differenza di valore che cade entro il confine dell’etica e può essere così specificata: tanto il ribelle quanto il brigante fanno esercizio della violenza: ma se il secondo usa la violenza per avidità e cupidigia, incurante delle vittime del suo depredare e uccidere; il primo usa la violenza solo perché costretto a rispondere alla violenza e assegna al suo operato un significato etico. Il ribelle si difende: difende la sua famiglia, la sua casa, la sua terra, la sua dignità e non può farlo se non facendo ricorso alla violenza. Il brigante è insomma un criminale che ingiustamente fa ricorso alla violenza; il ribelle è un uomo che giustamente si ribella alla prevaricazione, ripagando l’oppressore con la stessa moneta.
E qui si pone una prima questione: è lecito, dal punto di vista etico,(2) l’uso della violenza per replicare alla violenza? E, ancora più in generale: è giusto, quali che siano, per così dire, le attenuanti di carattere morale, rispondere alla violenza con la violenza? O vi è nell’esercizio della violenza, indipendentemente dalle sue motivazioni, la radice della riproduzione di se medesima, sì che si può dire che violenza giusta in senso stretto non può darsi? È questa la tesi di Girard che, rifacendosi al dettato evangelico, mette in luce come l’unica risposta adeguata alla violenza sia quella della non resistenza al male praticata dal Cristo. Qualsiasi risposta violenta alla violenza resterebbe infatti impigliata in quel circolo vizioso da cui la violenza ha origine e che può essere spezzato solo da un uomo che «non dovesse nulla alla violenza, non pensasse secondo le sue norme e fosse capace di dirle il fatto suo rimanendo del tutto estraneo ad essa».(3) Va da sé, e Girard lo riconosce, che «il sorgere di un essere simile, in un mondo completamente retto dalla violenza […] è impossibile»; sì che «o ci si oppone violentemente alla violenza e automaticamente si fa il suo gioco, oppure non ci si oppone, ed essa ti tappa subito la bocca.»(4)
Abbandono le affascinanti riflessioni di Girard che non posso, per ovvie ragioni, approfondire in questa sede(5) e cedo la parola a Georg Buchner, poeta e rivoluzionario tedesco dell’Ottocento, che in una lettera alla famiglia del 1833 (Carmine Crocco aveva tre anni) scrive:

Si rimprovera ai giovani l’uso della violenza. Ma non ci troviamo forse in una eterna situazione di violenza? Poiché siamo nati e cresciuti in carcere, non ci accorgiamo più di stare in galera, con mani e piedi incatenati e un bavaglio sulla bocca. Cos’è che chiamate una situazione legale? Una legge che fa della gran massa dei cittadini bestie da soma per soddisfare i bisogni snaturati di una minoranza insignificante e corrotta? Questa legge, sostenuta da una rude forza militare e dalla stupida furbizia dei suoi agenti, questa legge è una eterna, brutale violenza, arrecata al diritto e alla sana ragione e io la combatterò con la bocca e con le mani dovunque potrò.(6)

Il giovane Georg (morirà di febbre tifoidea a soli ventitré anni) assume un atteggiamento analogo a quello del giovane Carmine: riconosce la violenza, nonostante essa celi il suo volto dietro il paravento della legalità e al riparo della falsa sacralità delle istituzioni; ne individua i moventi reali – la brama di potere, la cupidigia di ricchezza – ; ne coglie le nefaste conseguenze – la produzione di diseguaglianze che mortificano l’umanità dell’uomo, violandone (legalmente) i diritti – e giustamente si ribella.
Giustamente, perché non c’è in questo mondo altro modo di reagire e di resistere alla violenza che quello di imbracciare, metaforicamente, la carabina e darsi alla macchia. Questo io leggo nel racconto di Pasquale: un’ansia di giustizia, di uguaglianza, di libertà; una volontà ostinata di resistenza al male che ci circonda; il riferimento ad un universo di valori che rimanda a quell’orizzonte comune a cui entrambi, a dispetto delle differenze “ideologiche”, apparteniamo. Un orizzonte entro il quale comunismo e cristianesimo possono finalmente incontrarsi, ora, che gli incrociati veti ideologici sono caduti nel dimenticatoio, riposti senza cura nei ripostigli della storia, per essere sostituiti dal vano cicalare di politici mediatizzati, con scarsa familiarità con la lingua italiana e nessuna dimestichezza con una qualsiasi forma di fare politico ispirato ad uno straccio di ideale.
Beninteso, né io né Pasquale intendiamo invitare il lettore di queste pagine ad imbracciare carabine; ne ci sogniamo, persone miti quali siamo, di inneggiare ad una qualche forma di lotta armata, in nome della legittimità dell’uso giusto della violenza. Ma non riesco a leggere il libro di Pasquale prescindendo da questo riferimento alla necessità della resistenza e all’urgenza di una ripresa dell’impegno etico e politico forte. Così come non riesco a leggerlo senza assegnargli un preciso riferimento alla attualità. Io penso che la ribellione di Carmine Crocco, così come è stata raccontata e “celebrata” da Pasquale, stia lì, come un monito, ad incitarci a non arrenderci all’inerzia di un presente senza futuro e immemore del passato. Perché la passività, l’inerzia, l’accidia sono, forse, in questo tempo di resa incondizionata alle “ragioni” del più forte, la forma peggiore, benché meno visibile, di violenza.  

 

 

1 Il testo che qui pubblichiamo riproduce, con qualche correzione di carattere formala ma senza alcuna variazione di contenuto, il testo letto nel corso della presentazione del libro di Pasquale Tucciariello “Una messa per Carmine”, tenutasi a Potenza il 20 Maggio del 2017.

(2) Etico, si badi bene, non giuridico. Dal punto di vista giuridico, infatti, il ribelle è comunque un fuori legge (la violenza contro cui si ribella gode, infatti, della legittimazione delle leggi giuridiche).

(3) R. Girard, Delle cose nascoste  sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano, 1985, p. 278.

(4) Ibid.

(5) Tanto più che, dal mio punto di vista, il discorso di Girard si avvita su stesso concludendo in una aporia dalla quale non può in alcun modo uscire.

(6) G. Buchner, Opere, Mondadori, Milano, 1999, p. 345.

 

 

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