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16/02/2021

Tra DAD e DID si esaurisce il dibattito della scuola italiana
di Rosella Tirico

 

Gli aspetti relativi allo sviluppo della Didattica a Distanza e Didattica Digitale integrata emersi prepotentemente con la situazione epidemiologica, pur essendo argomento quotidiano sui media e nelle famiglie italiane non sono, a mio avviso, stati ben inquadrati.
Essi costituiscono la punta di un iceberg di disagio e di trascuratezza pluridecennale e non sono la causa della fragilità dei nostri ragazzi in età scolare ma semmai l’effetto. Infatti le variabili che insistono sull’apprendimento sono sempre complesse e tra loro intrecciate. L’approccio metodologico utilizzato dai docenti e mediato dall’organizzazione scolastica è una di queste ma non l’unica e forse neanche quella fondamentale in questo particolare momento storico.
La maggior parte delle persone non addette ai lavori pensa che la DAD e la DID siano più o meno la stessa cosa, ma approcci e presupposti di partenza, scopi e necessità sono differenti tra queste due modalità. Semplificando molto un discorso che necessiterebbe di approfondimento, basta dire che la DAD è solo ed esclusivamente didattica non in presenza, per tutta la scuola, quindi erogata uniformemente e che può essere sincrona o asincrona. Nell’asincronicità delle lezioni in DAD si possono prevedere la flessibilità dei tempi di fruizione, ma anche la personalizzazione con diversi livelli di difficoltà per la stessa lezione. In questo la DAD, in realtà poco apprezzata, presenta un vantaggio. La DID come lascia intendere l’acronimo è integrata e quindi richiede una didattica mista, in presenza e a distanza per gruppi di alunni fragili, per esempio, o per particolari e temporanee situazioni di sicurezza. Teoricamente però le scuole avrebbero dovuto avere tutte un piano DID a prescindere dal COVID, poiché essa presuppone integrazione ed arricchimento delle metodologie, che potrebbero anche prevedere delle attività laboratoriali esperenziali ed a progetto anche su piattaforme digitali, ed alternando lezioni in presenza con lezioni digitali.
Ma alla fine e per emergenza DAD e DID si sono mescolate nell’immaginario collettivo, basta che si faccia scuola in qualche modo e soprattutto per le famiglie diventa sempre più necessaria la presenza “virtuale”, se non è possibile quella fisica del docente. Ed in questa situazione metodologica che dovrebbe invece veicolare innovazione ed una “paideia” educativa in cui la funzione della scuola come Istituzione si possa smarcare dalla deriva assistenzialistica in cui sta sempre più scivolando, si innestano le variabili della politica e delle famiglie.
Questi due aspetti procedono paralleli perché la politica tasta gli umori delle famiglie per ottenere consenso e piega la propria visione culturale sulla formazione, se mai ne avesse avuta una negli ultimi decenni, per aumentare l’elettorato. Così accade che in Puglia si sta facendo strada la scuola “on demand”. In sintesi per effetto delle ordinanze del “Governatore” si decide di non decidere, lasciando alle famiglie la facoltà di scegliere se mandare i propri figli a scuola, creando incertezza sulla frequenza e problemi organizzativi nelle scuole oltre che difficoltà nel valutare e rilevare casi di dispersione scolastica. Viene da pensare che alla base di questa scelta oltre al fattore politico sussista una profonda ignoranza metodologica tra la DAD e la DID.
Questa scelta politica mette in risalto anche il problema di una fragilità sempre più evidente all’interno delle famiglie, causata da quel fenomeno che alcuni hanno definito “adultescenza”. Genitori fragili generano figli fragili, la scarsa capacità di resilienza all’interno dei nuclei familiari, la rincorsa all’avere piuttosto che all’essere, la necessità quindi di apparire per affermare pseudo identità omologate dai media, produce incapacità in molti genitori di accompagnare la crescita dei propri figli, scaricando sulla scuola situazioni di insuccesso o fragilità relazionali tra pari che inevitabilmente si manifestano. Mamme adultescenti, infatti, cercano sempre più nella scuola del primo ciclo il soddisfacimento dei bisogni primari legati “all’allevamento” dei figli piuttosto che alla loro formazione, ed ascoltano con diffidenza dai docenti e dai dirigenti gli aspetti legati ai processi di apprendimento ed allo sviluppo delle competenze, alla crescita della motivazione interiore,  per poi improvvisamente chiedere, nel secondo ciclo, la realizzazione di competenze sociali e professionali per immettere i propri figli sul mercato del lavoro o consentire il raggiungimento del successo sociale.
Il problema educativo è emerso prepotente negli ultimi anni ed ora di fronte alla pandemia assume le dimensioni di un’emergenza, analogamente come quella delle strutture sanitare fino ad oggi trascurate e oggetto di una politica clientelare. Ma la scuola pur essendo meno coinvolta in una politica clientelare risente dell’altalenarsi delle decisioni educative che la sbattono tra esigenze selettive e certificative ed esigente egalitarie ed inclusive. E nello stesso tempo risente della scarsità di risorse e di interventi strutturali che la rifondino nei contesti e negli ambienti educativi che non possono solo essere realizzati con le mani nude e la buona volontà del personale scolastico e dei dirigenti, in quanto forma e sostanza sono intrinsecamente connesse in ogni aspetto della vita umana.
Certamente una maggiore attenzione alla formazione del personale docente e non, una maggiore selezione sarebbero auspicali e contribuirebbero a creare generazioni meno fragili, a motivare maggiormente gli alunni.
Docenti metodologicamente forti diminuirebbero il senso di disorientamento in cui si trovano i ragazzi tra DID e DAD e al di là del modo in cui si effettua la lezione, se a distanza, in presenza o mista, al di là delle connessioni, ciò che dovrebbe sempre fare la differenza è la personalità del docente come leader e come persona autorevole e non autoritaria o peggio frustrata ed incapace. Perché in questa situazione di fragilità emotivo- relazionale si sente sempre più la necessità di approcci comunicativi-ermeneutici che pur basandosi sulle conoscenze tecnologiche valorizzino l’interazione e la relazione.
I giovani, infatti, vivono sempre maggiormente isolati, nella piazza virtuale delle loro camerette. Si vive il paradosso della continua presenza a distanza con tutto e tutti. Questo rischia di produrre una percezione differente del tempo e della realtà, in cui il pensato, l’immaginario ed il reale si possono confondere. In cui il digitale nei suoi procedimenti viene dato per scontato ma di esso non si ha piena consapevolezza. Anche questo ovviamente influisce sui processi di apprendimento. La digital generation vive le emozioni ma non i sentimenti, la digital generation non ha radici ,vive in un mondo che c’è quando si accende il computer, finisce quando lo si spegne. Il giovane digitale presenta attenzione selettiva, è impoverito nelle capacità mnemoniche, presenta un linguaggio scarno e si impoverisce nella relazione interpersonale.
Questa esperienza storica che siamo tutti costretti a vivere ci dovrebbe condurre sulla strada del rifondare l’istruzione pubblica in Italia, liberandola dalle sovrastrutture ideologiche e demagogiche, ma soprattutto da una iperproduzione di documenti e monitoraggi, ripensando curricoli chiari e snelli, senza perdersi nei rifacimenti delle tante e diverse modalità di valutazione, ma guardando in faccia la realtà che reclama sempre più personale formato, classi meno numerose, ambienti salubri e costruiti per essere degni di portare il nome di una scuola che non solo è in Europa ma è in seno ad una Nazione con una storia millenaria. Forse in questo modo i nostri ragazzi saranno un po’ meno sperduti ed un po’ meno sprovveduti di fronte alle tante difficoltà della vita che in ogni epoca storica tante generazioni hanno dovuto affrontare.

Rosella Tirico

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