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01/03/2021

Biotecnologia Bioetica e il nostro tempo per pensare

 

In questo tempo di pandemia facciamo monologhi davanti ai computer, violando quelle relazioni spazio-temporali che sono costitutivi dei rapporti fra le persone. Oggi la tecnologia modifica totalmente il nostro modello di relazione: porta con sé molti vantaggi ma anche molte trasformazioni sulle quali non sempre riflettiamo.

La tecnologia non è semplicemente uno strumento. D’altronde qualsiasi strumento non è neutro e porta con sé una finalità (per es: un coltello per il pane e un pugnale hanno in sé finalità diverse). La tecnologia è in realtà un ambiente nel quale noi viviamo ed è molto difficile percepire la problematicità di un ambiente. La bioetica ci aiuta a riflettere in maniera critica sulla civiltà tecnologica. Noi viviamo all’interno di un contesto in cui la tecnologia è la nostra modalità di auto-rappresentazione. Quando dobbiamo pensare all’efficienza dell’uomo, la prima cosa che ci viene in mente è l’efficienza della macchina. E le macchine, inventate anche per spiegare l’umano, paradossalmente sono diventate il nostro modello. Un filosofo coreano parla della società della prestazione nella quale il modello macchina diventa il modello della efficienza, della efficacia e della relazionalità.

Oggi per parlare di bioetica bisogna capire che le tematiche da essa affrontate non si presentano più come problematiche. Nel 1978 la nascita di Louise Brown, la prima bambina provetta, segna una grande trasformazione antropologica perché introduce la procreazione medicalmente assistita, dove “procreazione” evoca uno sfondo religioso, “medicalmente” evoca il medico come il buon selvaggio di Rousseau, colui che migliora la vita, “assistita” evoca un’azione di aiuto. Dunque una tecnica che permette la generazione dell’essere umano nelle sue fasi iniziali fuori dal corpo materno. La fecondazione in vitro è quotidiana, come quotidiani sono i dibattiti che ne conseguono, ma tutto passa attraverso una questione banale: un uomo e una donna decidono di delegare alla tecnica un atto molto personale e unico, cioè la generazione umana. Significa introdurre una prospettiva politica sull’origine dell’uomo. Perché il generato in vitro, nello stato embrionale, è una soggettività custodita da una serie di regole sociali, da un sistema che non è più relazionale uomo-donna. Se ci soffermassimo sulle fasi di questa tecnica, ci renderemmo conto che la potenza della tecnica non sta nella tecnica, ma nel desiderio che in qualche modo la utilizza.

La tecnologia è un ambiente e porta con sé la normalizzazione e la banalizzazione. Normalizzazione è il considerare tutto quello che noi facciamo come non eccezionale e la cui domanda ricorrente è “ma che male c’è?”. Ed è questo l’elemento della banalizzazione, perché prima di riflettere sul “che male c’è”, si chiede come cambia il nostro modo di rappresentare il rapporto con gli altri, come cambia il nostro modo di pensare l’umanità. La tecnologia introduce per la prima volta una variazione radicale nel modo di rappresentare l’uomo, andando a cogliere l’elemento che ci unifica come esseri umani: appartenere alla categoria dell’“essere figli” come coestensivo a tutta la vita umana, ci connota e ci rimanda ad una cosa decisiva. Essere figlio è segno della relazionalità. Non tutti siamo padri, non tutti siamo madri; tutti siamo figli e l’essere figlio porta con sé un compito di responsabilità. Hans Jonas, riprendendo Arendt, metteva in luce come nell’atto della generazione c’è il fondamento esistenziale e antropologico della responsabilità.

Questo discorso, che andrebbe arricchito, ci porta a ragionare su un altro aspetto: tutta questa enfasi sull’uomo, sul bambino, sembra perdere di normatività, di capacità di regolare gli atti, quando interviene la tecnica che annulla ogni riflessione e ci proietta sull’unica cosa che è in grado di darci: il risultato. Quando discutiamo di fecondazione in vitro, se ci muoviamo sul tema del risultato, il risultato sembra giustificare il mezzo. La famosa frase che il fine giustifica i mezzi è interessante per una doppia lettura: da una parte il fine sublima i mezzi (l’importante è essere riusciti ad ottenere quel risultato); dall’altra, un fine buono è in grado di giustificare, di dare ragione, di spiegare solo mezzi che sono buoni, adeguati a quel fine.

Gran parte della riflessione bioetica sull’inizio vita, che comincia col desiderio della maternità e della paternità, e poi si dilata all’interno del contesto culturale-antropologico-sociale, deve tenere conto di un altro elemento decisivo: la tecnologia funziona grazie all’economia. Si tratta di capire che ci sono dei nessi ai quali noi partecipiamo anche se non lo vogliamo; quindi proprio perché la tecnologia è il contesto nel quale viviamo, la possibilità di prendere le distanze critiche e vedere quali sono i beni in gioco, è sempre più scarsa.

Possiamo dire che la grande trasformazione che viene introdotta dalla fecondazione in vitro non è soltanto morale (nel senso di mos, moris,costume), ma una trasformazione nel modo di rappresentare l’essere umano. Ciò che ha una ricaduta sul fine vita: la tecnologia non è più in grado di darci il senso del tempo e ci impedisce di avere la pazienza del tempo.
Riflettiamo su che cosa vuol dire non avere il senso del tempo quando si tratta di pensare da una parte alla generazione umana e dall’altra al fine vita, ai tempi lunghi della malattia, della non-efficienza, delle relazioni che non sono all’altezza dei tempi in cui siamo.

Noi oggi non dobbiamo né condannare né assolvere la tecnologia. Noi abbiamo bisogno di tornare a pensare e avere un tempo per pensare. La bioetica ci ha permesso di tornare a pensare al tempo in cui siamo, di tornare ad essere protagonisti delle nostre riflessioni. Perché l’elemento su cui dobbiamo riflettere sono le grandi trasformazioni dell’esperienza che riusciamo a percepire solo quando sappiamo prendere le distanze dall’esperienza stessa.

Mi pare più che mai opportuna una frase di Fichte nella Lettera a Jacobi:
<<Abbiamo incominciato a filosofare per orgoglio ………. abbiamo visto la nostra nudità e da allora siamo necessitati a filosofare per la nostra salvezza>>.

Nina Chiari
Centro Studi Leone XIII


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