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13/01/2022

La mia Lucania. LA CASA
di Rosella Tirico

 

      In ognuno di noi c’è una casa dell’infanzia. Può essere la casa degli affetti o quella dei giochi e delle esperienze più impensate e folli, ma anche la casa in cui ci si muoveva liberi da pensieri e particolari regole di comportamento. La casa della nostra infanzia è spesso quella dei nonni, di solito è semplice, priva di sovrastrutture e di congegni difficili da utilizzare, è fatta di scale, porte solide in legno, completata da piccoli antri e cantine, guarnita da tende di fortuna. È un ambiente perduto nella nostra mente e stravolto dal ricordo. Le sue tinte sbiadiscono ogni anno che passa per assumere tutte le sfumature di una foto antica. Ma i rumori e gli odori rimbombano nella nostra mente e si amplificano nelle nostre radici. Il mobile radio Allocchio Bacchini sapeva di confetti e di velo da sposa. Era un odore misto a borotalco e fragranza di dolci dei giorni di festa. Appena arrivavo a casa della nonna mi precipitavo nel portoncino angusto che affiancava la grande porta finestra della cucina per salire di corsa la scala di pietra ed arrivare ad aprire lo sportellino del mobiletto che reggeva la Radio.
Sulla parte frontale si apriva una piccola ribalta da cui si intravedeva in giradischi, mentre alato c’erano due sportellini che corrispondevano perfettamente alla mia altezza e lì aprendoli potevo immergermi in un caleidoscopio di mie immagini che si moltiplicavano nel riflesso degli specchietti che, come un mosaico, scomponevano l’immagine e riflettevano la luce. Inalavo con tutte le mie forze quell’odore che sapeva di passato e di futuro portandomi al di là del tempo, come se avessi già saputo tutto di me stessa nell’intuizione di un odore, come se entrando nei miei geni li stesse già inesorabilmente modificando. Nella stessa sala c’era un tavolo con una tovaglia spessa di copertura tanto da sembrare un tappeto, era posto di fronte alla finestra che si affacciava sulla scuola con le pareti rosse. Ma in mezzo c’era il cortile in cui giocavamo noi bambini come non avremmo mai potuto fare nella casa di città. Nella stanza-sala c’erano anche tre o quattro brande in cui dormivano i miei zii, ma che all’occorrenza potevano ospitare anche noi nipoti, che arrivavamo all’improvviso ed eravamo sempre troppi per quella casa e quindi capitava di dover dormire testa/piedi. Quindi il rituale prevedeva il lavaggio serale, con particolare cura per i piedi, ovviamente ci si lavava in una bacinella in cucina, mentre la nonna assieme a qualche zia preparava la cena. Addormentarsi in quelle condizioni era un’avventura, e quando il nostro compagno di letto non rispondeva più voleva dire che era arrivata l’ora di dormire.
Capitava che il pranzo venisse consumato in un angolo della lunga tavolata di parenti. Il rumore era così tanto che spesso non ci si capiva. La nonna solitamente preparava enormi tegami di maccheroni al sugo, che mettevano a dura prova mezza famiglia, perché un terzo dei commensali non sopportava il formaggio sulla pastasciutta, un terzo non ne poteva sopportare neanche l’odore, mentre un altro terzo impazziva per il formaggio specie se pecorino. Il pane si tagliava ponendoselo sul petto e tirando il coltello fino alla fine della lunga fetta di panella. Di carne se ne vedeva poca ma i peperoni non mancavano mai. Erano spesso cucinati il giorno prima o la mattina presto tanto che tutta la casa sapeva di peperone già appena ci si svegliava e quasi il caffè e latte era aromatizzato ad olio fritto ed odore di uova. Noi bambini per ragioni di spazio potevamo anche allontanarci dalla tavola con il piatto sulle ginocchia emigravamo verso la scala di pietra oltre la porta leggera che divideva la scala dalla grande cucina. Con il piatto sulle ginocchia parlavamo mangiavamo e giocavamo, fino a rinfrescare completamente le nostre schiene. Durante le giornate assolate di agosto era particolarmente piacevole. Ogni tanto dovevamo spostare il piatto per far salire qualcuno al piano di sopra. Erano i nostri zii che guardavamo con la curiosità dei piccoli ed il sentimento di chi osserva un grande. Tra un maccherone e l’altro ci sfidavamo in prove di abilità. Ci piaceva saltare sempre sullo stesso gradino scivoloso alternando la posizione dei piedi, contando il numero dei salti. Oppure facevamo schioccare le strisce delle tende di plastica davanti alla porta finestra della cucina fino a quando il nonno non ci urlava lassate perdè…ca’ mo le rompete. Ed alle nostre rimostranze concludeva: non facite la comedia!

Rosella Tirico

CENTRO STUDI LEONE XIII

 


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