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25/06/2025
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VI VOGLIO RACCONTARE |
di Antonia Flaminia Chiari |
Secondo Hannah Arendt la narrazione <<rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi>>, senza catturarlo nella catena causa-effetto. Non soltanto la comunicazione istantanea per questo nostro tempo, serve anche l’uomo che racconta storie. Le storie possono aiutarci a capire chi siamo, cioè a dare un senso ai frammenti della nostra esistenza.
Perché nel racconto c’è sempre un incontro con l’inatteso. E poi il racconto è per tutti. <<Nessuna vita è così insignificante da non poter essere raccontata>>, scriveva ancora Arendt. Di più: ogni vita è una storia sacra, secondo il teologo Christofer Theobald. Raccontare dà senso significato e direzione alla nostra vita. Siamo le storie che abbiamo ricevuto, che ci hanno dischiuso orizzonti, che un poco alla volta impariamo a scrivere con la nostra stessa vita e a trasmettere ad altri.
Sempre si racconta di qualcuno, per qualcuno, a qualcuno. Come scrive Jean Pierre Sonnet in un bellissimo libro, Generare è narrare, i bambini hanno bisogno di ascoltare dai genitori una storia iniziata prima di loro. Per non sentirsi spaesati, per collocarsi in un mondo più grande di quello che vedono; un mondo che ha un prima e un dopo, che darà senso al loro esserci, che renderà la loro storia l’anello di una catena più lunga e senza fine.
E’ il racconto che ci insegna a vivere. Il racconto è una casa ospitale: fa posto a tutte le generazioni. In fondo, la narrazione è sempre polifonica, perché intreccia le voci e le vicende di tanti; ed è policronica perché abbraccia presente passato e futuro, biografie personali e storia collettiva. Le storie parlano del passato ma sono spalancate sul futuro. Per questo motivo non passano.
Per Walter Benjamin, che scriveva nelle prime decadi del ‘900, <<l’arte di narrare giunge al tramonto>>, incalzata dalla velocità di una informazione frammentata che ci disorienta. E questo porta a un declino di civiltà. Nella società dell’informazione si rischia di diventare grandi consumatori di notizie, ma incapaci di raccontare. L’informazione ha valore solo nell’attimo in cui è nuova. La narrazione invece non si consuma: il suo valore dura e a volte cresce nel tempo. E il tempo stesso diventa umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo, ci ricorda Paul Ricoeur. Ancora Arendt scriveva che è la possibilità di essere narrato che consente all’essere umano di afferrare se stesso sia come unicità, singolarità irripetibile, sia come unità: delle diverse dimensioni che ci costituiscono, della nostra biografia, del nostro destino. Raccontare è ricucire le diverse dimensioni del sé, ma anche intrecciare la propria biografia personale con la Storia. Perché l’unicità non è individualismo esasperato, bensì partecipazione ad un tutto variegato, plurale e collettivo. Raccontare è legare singolare ed universale, per dare senso a ciò che accade. Nel racconto la vita si fa storia e la storia si fa vita.
Raccontare è un gesto che lega e che aiuta a non perdere il filo nelle tante lacerazioni dell’oggi.
Non veniamo dal nulla ma da secoli di storia, quando i padri e le madri raccontavano ai figli le fiabe, le storie dal sapore antico. Perché il grande narratore è quello che affonda le sue radici nel popolo, è un artigiano che lavora una materia particolare: la vita.
Nel libro di Graziella c’è la narrazione di quei valori antichi e di quelle tradizioni che la modernità ha messo sotto il tappeto come inutile spazzatura, roba da rigattiere, in nome di uno sviluppo inarrestabile, dell’uomo autodeterminato che non ha più bisogno di relazioni. Con il risultato che conosciamo: il rischio di privarci della parola, del pensiero, della scrittura, della poesia.
E’, quella di M. Grazia, una storia che ha costruito la civiltà delle passioni umane contro la narrazione moderna dell’eroe che non ha bisogno di chiedere, che si erge vittorioso su un mondo addomesticato, giunto però a pochi passi dal baratro prodotto dalla sua hybris, dalla sua tracotanza.
Paesi…borghi arroccati sulle colline, baluardi di pietra che costellano il paesaggio con i loro campanili. Sono belli i paesi per quell’atmosfera di vecchio e di antico che si respira tra i vicoli. Che strano vederli silenziosi e disabitati quando ogni pietra richiama la vita! Accanto ai portoni si vedono sedili di pietra e panchine ante litteram che aspettano che qualcuno si accomodi per iniziare a raccontare. Piccoli spazi in fondo alle scale ricordano le sedie portate fuori per ascoltare la musica o per sentire le chiacchiere delle comari. “Per prendere il fresco”, si diceva una volta. I gatti passeggiano aspettando che la vita ricominci. Qualche cane guaisce nell’ombra e gli alberi sventolano le loro fronde al vento. I paesi sono così. Sono tasselli di una memoria che si portano dietro storie, racconti, piccole tragedie, grandi dolori. Mai dentro le case, sempre fuori in strada, negli spazi collettivi dove si condivideva la vita. Nel bene e nel male. Che strani i paesi, i piccoli borghi disabitati…che strano sentire il vociare metallico che fuoriesce dai televisori accesi…che strano non vedere i bambini giocare… Che belli i paesi che non restano mai muti, si trascinano dietro le voci di tanti, di tutti. I mulinelli del vento mostrano ancora qualche volto, qualche racconto, infinite memorie di pietre e di sassi, di tanti e di tutti.
Le tradizioni sono le nostre radici. Siamo noi, la nostra cultura, la nostra identità, il nostro mondo. E’ una occasione speciale per fermarsi un momento ad esplorare aspetti della vita diversi da quelli della routine quotidiana.
Tramandate da una generazione all’altra, le tradizioni sono una testimonianza viva di una cultura legata alla natura e alle stagioni, ai cicli della vita, ai riti e alla devozione religiosa. Senza voler alimentare nostalgie di un passato ormai trascorso, mi pare che il ricordo della tradizione e di semplici e genuini valori, possa rimanere un elemento vitale per lo sviluppo della nostra società. Quando un paese perde il contatto col suo passato, con le sue radici, quando perde l’orgoglio della sua storia, della sua cultura e della sua lingua, smette di pensare, di creare, e sparisce. Le tradizioni sono un patrimonio morale da trasmettere. Riscoprire il passato e i suoi suoni, giochi e scene di vita quotidiana quasi dimenticata, conoscere le radici e il patrimonio culturale del nostro paese, favorisce il senso di appartenenza e custodisce in noi un mondo che non c’è più: la calma dei tempi andati con i suoi riti, la sua povertà e la sua allegria.
Igor Stravinsky scriveva: <<una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente>>.
Questo libro dimostra l’indispensabile intreccio tra il gesto e la parola; garantisce l’arte del raccontare; rivendica la voce.
Che tipo d’interesse può avere l’uomo moderno verso le tradizioni antiche? Se ciò che non conosciamo ci trasmette paura, ciò che conosciamo è una certezza, è qualcosa che possiamo governare. Quindi, sapere che determinati valori sono immortali, che determinate festività si presenteranno ogni anno, ci fa sentire partecipi di un qualcosa che esiste davvero, o che crediamo esista davvero. Ma quanto viene da un passato secolare, può essere oggi in contrasto con ciò che è scientificamente scoperto e ritenuto moralmente valido. E’ certo che il passato è un bagaglio e non una catena che ci impedisce di imparare domani.
Noi abbiamo una visione errata di cosa significhi interessarsi delle tradizioni popolari. Esse hanno un sostrato culturale molto profondo, spesso relegato in ambito accademico, riservando alla gente l’aspetto più leggero e nascondendo quindi cosa c’è dietro un proverbio o una storia. In realtà queste storie caratterizzano un territorio, dandogli una notevole valenza culturale. E’ necessario riappropriarsi del proprio patrimonio popolare, per sostenere una critica, anche forte, delle linee culturali oggi dominanti.
Sia esso relativo a luoghi, a cultura, a linguaggio, il senso di appartenenza ci consente l’interazione umana, che nella società contemporanea pare essere un’azione legata al passato. Si assiste oggi alla digitalizzazione del dialogo e del senso interiore; e la giovinezza stessa è diventata una categoria sfuggente, artificiosa, virtuale, poiché comprende al suo interno differenze legate al contesto socio-economico e culturale e ai dettami mediatici.
Siamo di fronte ad un nichilismo identitario ed emozionale, in quanto il Web propone modus vivendi impossibili da proiettare in uno spazio reale e di conseguenza esclude, isola, e conduce ad una perdita di senso. Serve dunque un punto a cui fare riferimento: l’appartenenza, cioè la condivisione di cultura e tradizioni e luoghi che possa riportare l’uomo a considerare il rapporto con l’altro come un noi. E un luogo diventa una comunità quando si usa il pronome noi. Ed ecco che il luogo stesso diventa quella componente che può trasmettere cultura, tradizioni ed emozioni, in un ampio respiro antropologico.
Tradizione e memoria sono i due termini che racchiudono l’idea del patrimonio culturale antropologico di una comunità, ossia quel complesso di eredità che hanno caratterizzato nel passato una collettività, diventando di essa l’identità. Il termine “tradizione” deriva dal latino tradere e vuol dire trasmettere oltre, dunque la tradizione è ciò a cui l’uomo tenta di affidare il proprio oltre, in cui cerca di individuare la propria identità facendola così sopravvivere a se stesso.
L’altro temine, “memoria” ha a che fare col ricordo e indica la capacità di conservare traccia di informazioni relative ad eventi, immagini, sensazioni; ma è anche ogni scritto a cui sia affidato il compito di perpetuare una tradizione.
Le tradizioni mettono in evidenza la cultura di un popolo; la sua capacità di dare risposta ai mutamenti. Le tradizioni sono le nostre radici. Siamo noi, la nostra identità, il nostro mondo. Un popolo senza tradizioni è un castello di sabbia destinato ad essere spazzato via da un’ ondata di mare, da una folata di vento. E non può ergersi verso il futuro perché il suo equilibrio è instabile.
Don Giussani affermava che la dignità di una cultura è la libertà di valorizzare la propria tradizione. Raccontare la memoria viaggiando nei ricordi. Che cos’è una tradizione? Forse il non dimenticare. Ma il ricordo si perde nel tempo che incita e trasforma. Allora la tradizione è un ricordo che entra nella memoria per abilitarla. E’ una memoria nel tempo. Si tra-manda tra generazioni di epoche e di civiltà e riporta sulla scena ciò che si è vissuto. E’ la memoria di una civiltà che segnala una precisa identità. Le feste i giochi la piazza il vicinato le processioni i cortei i riti, per raccontare ed ascoltare. Tradizione è un rito che si ripete nel quotidiano dei popoli.
Da Erodoto a Pavese <<un paese vuol dire non essere soli>>.
Nei nostri sguardi minimi sulla quotidianità, intenti a cercare di penetrare la superficie delle cose, ci accorgiamo che sta mutando il nostro sguardo sul “chi siamo”. Nella conoscenza e nelle nostre relazioni, alla costanza, alla continuità, alla durata subentra l’istantaneità, la discontinuità, la precarietà: la frammentazione; questo perché si è interrotta la linearità tra passato presente e futuro.
<<Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro>>, così lo scrittore cileno Luois Sepùlveda sottolineava lo stretto legame che esiste tra il passato custodito dalla memoria, la comprensione del presente e quindi la costruzione del futuro. In un mondo sempre più accelerato, con una memoria sempre più a breve termine, riscoprire questo principio risulta decisivo.
Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costruire un irriducibile elemento di identità. Si alimentano di spessore; pretendono il percorso mentale di una loro continua riconquista. I paesi abbandonati sono il luogo di una poetica della memoria; non è vero che i paesi spopolati non hanno un senso, o mai ne hanno avuto. C’è un senso in questi luoghi. Un senso per sentirli. Un senso per capirli. Un senso per percorrerli, che è quello del partire e del tornare.
Scrivere un libro per rievocare un paese, significa descrivere un contesto antico e renderlo vivo, per esprimere emozioni e stati d’animo. E antico è il ricordo di una comunità che rimanda alle forme aggregative che appaiono riconoscibili ai membri di una società in cui gli usi e le tradizioni definiscono una propria forma identitaria.
C’è tutto l’orgoglio e la volontà di difendere e tramandare storie, mestieri, usanze, tradizioni di Ruvo del Monte. Il volumetto raccoglie testimonianze di persone ritenute portatrici di memorie interessanti per ricostruire la storia del paese. E’ come trasmettere un canto che viene dal passato, che racconta la storia personale e collettiva di un paese che sa di essere parte di un mondo più grande e spesso sofferente, che chiede a tutti una compassionevole memoria.
Ruvo diventa luogo di memoria che contiene simboli, eventi, figure, miti e riti collettivi. Un luogo ci appare come un contenitore di passato che attraverso la memoria arriva fino a noi, agendo sul nostro presente. Perciò i luoghi della memoria sono un potenziale valore formativo e orientativo, generatori di identità che ci inducono a considerare il presente come terreno di dialogo e di confronto.
Il valore dei ricordi è il presente del passato, l’esistenza, preziosa, che rimane per sempre.
I racconti si distendono nella quiete dei ricordi e nel lento vortice del pensiero, del tempo e dello spazio, di tutta la comunità ruvese.
Si respira lo spirito, la voglia di divertirsi, l’ansia della scoperta, la marachella dietro l’angolo, i sogni di una disarmante leggerezza giovanile.
Questo libro racconta una libertà gustosa, rubata tra le pieghe di un mondo genuino in cui era facile trovare la meraviglia delle piccole cose. Un mondo perduto che restituisce al lettore un sorriso e un battito di cuore.
Antonia Flaminia Chiari
Centro Studi Leone XIII
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