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Relazione all'Assemblea del 25 novembre 2020 |
La Federazione Popolare dei Democratici Cristiani riunita a Roma il 18 novembre 2020 ritiene che i partiti e le associazione che compongono la Federazione dal novembre 2019 hanno con un approfondito dibattito maturato in questi mesi un riferimento a comuni valori e a eguali finalità politiche, e quindi hanno creato le condizioni favorevoli per costituire un soggetto politico nuovo con un’identità precisa che fa riferimento alla democrazia rappresentativa, al popolarismo, al personalismo, all’Umanesimo Integrale, alla Dottrina Sociale della Chiesa e alla Carta Europea dei Diritti Umani.
consapevole che nella lunga fase della ricostruzione democratica del paese dal dopoguerra il centro politico ha garantito la libertà e la “rappresentanza” e ha individuato le strategie per costituire il baricentro democratico del paese e operare per il bene comune consapevole che il centro di cui ha bisogno l’Italia è in ombra e politicamente marginale dagli anni 90, ed è difficile da costituire in un periodo di massima personalizzazione della politica; ritiene che è necessario quindi operare in controtendenza per intercettare una domanda di impegno politico e culturale che pure esiste nel paese e per risvegliare la passione politica che l’individualismo ha mortificato consapevole che con le recenti elezioni regionali si è accentuato l’isolamento dei partiti e si è esaltato un nuovo sovranismo e un più pericoloso populismo in capo ai “governatori“ conferma che un soggetto politico che si vuol definire di “centro” si ispira al “popolarismo“, unica cultura attuale, moderna, rispetto alle altre ideologie che hanno dominato nel 900 ma che si sono estinte o sono state contestate tragicamente; rileva che un’area di Centro per la sua ragione d’essere è alternativa alla destra e alla sinistra e portatrice di una idea e di un progetto per il paese, questo sì capace di sconfiggere l’individualismo e il populismo decide di dar vita ad un soggetto politico nuovo di ispirazione “popolare” collegato strettamente al PPE attende che i partiti e le associazioni che hanno partecipato alla Federazione e che hanno approvato la scelta fatta provvedano a far ratificare la decisione dagli organi competenti in modo da essere presenti con una lista unica alla prossima campagna elettorale.
Prende atto della convocazione del consiglio nazionale da parte dell’UDC per il 10 dicembre p.v. finalizzato a dare avvio alla una nuova fase costituente; decide di partecipare ad una riunione successiva entro la metà di dicembre per definire gli adempimenti necessari a costituire il soggetto politico nuovo con un comitato rappresentativo di tutte le componenti, per rendere concreta e rapida la nuova fase.
On. Giuseppe Gargani
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L’unità europea è invocata come rimedio di ogni male, ma è stata pensata come garanzia di concordia e di progresso. Sarebbe utile capire cosa c’è dietro l’ondata emozionale, se l’Europa unita è una moda o una consapevolezza.
Siamo consapevoli delle grandi opportunità che offre l’Europa, ma anche del grande impegno che richiede? Siamo consapevoli di dover rinunciare a porzioni di sovranità di ciascuno Stato per una più ampia integrazione politica?
Mettere a fuoco i problemi è la premessa per cercare di risolverli.
I vantaggi politici ed economici che vengono dall’Europa unita, se gestiti con attenzione, superano gli svantaggi. E nell’attuale globalizzazione costituiscono una vera necessità; sempre che i popoli seguano la strada della cooperazione, che sappiano esaltare ciò che unisce, senza eliminarne le particolarità.
Tuttavia, se vogliamo costruire un edificio solido, l’entusiasmo non basta.
La domanda è questa: quale Europa vogliamo?
Le regole che dobbiamo stabilire riguardano soprattutto i rapporti sociali e politici. C’è chi pretende di eludere un dibattito sulle idee, e quindi sui valori che fondano le regole, giudicandolo astratto, superfluo, intralcio inutile. Ebbene: E’ una questione astratta capire se è giusto staccare la spina che tiene in vita un malato? È astratto chiedersi se un bambino è un semplice oggetto nel gioco di provette e adozioni, piuttosto che una persona col diritto ad una crescita sana? E’ una questione astratta riflettere sulle conseguenze economiche e sociali che derivano dall’indebolimento di una struttura fondamentale come la famiglia?
Voler eludere questi problemi, che costituiscono la sostanza della nostra quotidianità, è una ipocrisia che maschera la volontà di imporre in modo subdolo un certo modello di comunità. A seconda dei valori che le nuove regole esprimeranno, avremo una comunità che rappresenta davvero un ulteriore progresso sociale; o, al contrario, una realtà instabile, che mina molte conquiste della civiltà occidentale e che alimenta nuovi conflitti.
Forse uno sguardo al passato ci può aiutare. Il nostro continente ha già conosciuto una dimensione unitaria: con l’Impero Romano, con il Sacro Romano Impero cristiano, con la dominazione napoleonica. Ciò che ha reso possibile un edificio comune è stato il sentirsi parte di una comune identità. Il collante è sempre culturale, sorretto da una forza economica. Ciò non significa sovrapposizione di culture, ma riconoscerne la matrice comune, la compatibilità quanto ai valori fondamentali.
Su quali idee possiamo ri-costruire l’Europa oggi?
Certo non possiamo riprendere le forme del passato: lo ius romano, la potestas in temporalibus cristiana, gli immortali principi della rivoluzione francese – forme che non hanno impedito a quegli edifici di crollare. Eppure queste esperienze hanno ancora un nocciolo vitale, perché i valori dei popoli che guidano i cambiamenti sono sempre espressione di una storia. E i valori della tradizione europea hanno fatto dell’Occidente il motore trainante della civiltà mondiale.
Se guardiamo agli elementi vitali dell’eredità classica, conserva ancora oggi un ruolo fondamentale la cultura logico-filosofica, elaborata dallo spirito greco, perché in essa troviamo l’antidoto alle moderne derive relativiste. Così come la cultura giuridica romana garantisce i diritti della persona, affina la convivenza civile e guarda allo ius condendum (ideale di giustizia) oltre che allo ius conditum (il diritto vigente).
Tali elementi dello spirito classico sono stati assorbiti poi dal cristianesimo, che ha modellato la cultura europea sulla base di un organico sistema di valori. Anche il pensiero laico ha fatto propri, secolarizzandoli, principi sorti dalla matrice cristiana: libertà, uguaglianza, razionalità. Principi questi che trovano il loro fondamento e il loro equilibrio nel primato della persona umana, portatore di diritti inalienabili. In tale prospettiva, la libertà è creativa e responsabile e si sviluppa nella sussidiarietà; l’uguaglianza assume il significato di pari dignità, riconoscimento dei meriti, ampiezza di opportunità, garanzia per l’emarginato, completandosi nella solidarietà. La razionalità è ancorata ad un principio di realtà, quindi ad una comprensione dell’uomo nelle sue dimensioni: materiale, morale, spirituale. Finanche l’idea di sviluppo, che ha portato l’Occidente europeo ad essere elemento trainante della civiltà mondiale, è figlia della libertà creativa, nonché della visione giudaico-cristiana della storia: lineare, progressiva, non circolare.
L’attualità di questi elementi è evidente, perché essi consentono di integrare l’Europa con la nazione, con la regione, con la città; e costituisce l’unica via per ricomporre la grandezza culturale maturata dall’Europa.
Sicuro riferimento sono i valori ispirati dal cristianesimo; in quanto fondati sul diritto naturale, possono essere condivisi da chiunque, a prescindere dal credo religioso. Richiamarsi all’ispirazione cristiana non è rifugio per nostalgici, ma è ricerca del più solido terreno d’incontro per ostacolare l’affermarsi della legge del più forte.
Già Papa Giovanni Paolo II chiedeva di inserire nella nuova Costituzione europea un richiamo alle radici cristiane. Ed è l’esigenza rimarcata dal più autorevole filosofo non credente, J.Habermas : <<Prendere coscienza delle nostre radici giudaico-cristiane è ciò che rende possibile l’intesa interculturale… Continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne>>.
Non bisogna dimenticare che anche l’idea di laicità è nata e si è sviluppata nell’Europa cristiana. E’ il Vangelo che per primo distingue Dio e Cesare. E’ Papa Gelasio I che nel V secolo teorizza la distinzione tra potere spirituale e temporale. L’unificazione europea realizzata da Napoleone Bonaparte è stata effimera perché gli immortali principi di libertà, uguaglianza, fratellanza, di ispirazione cristiana, furono secolarizzati e separati da una visione integrale della persona umana, e stravolti all’interno di una violenta battaglia antireligiosa e anticlericale. D’altra parte, nella stessa idea di rivoluzione è contenuto il taglio netto con il passato, la recisone di ogni radice, con un contributo di violenza e nichilismo.
L’idea di poter recidere le proprie radici culturali rivela oggi una nuova pericolosità. Alcuni vogliono sostituire i diritti umani fondamentali con i cosiddetti diritti civili (aborto, manipolazione genetica, equiparazione di aggregazioni varie alla famiglia tradizionale ecc.), così che il diritto si pieghi al servizio delle lobbies più influenti. La libertà di pensiero e di espressione si sta imbrigliando nel politicamente corretto; e chi afferma una prospettiva di verità, viene bollato come intollerante. All’uomo libero di scegliere responsabilmente, si sta sostituendo l’uomo liberato dalla fede, dalla famiglia, dalle responsabilità; in breve, un uomo liberato dalla fatica del vivere.
L’Europa ha paura della propria storia? E’ proprio dalla storia che dobbiamo ripartire per ridare anima al popolo europeo. Dobbiamo ripartire dai padri dell’Europa moderna: Schuman, Adenauer, De Gasperi, che lanciarono un progetto di unione fra i popoli che pareva follia; e che si rivelò invece una coraggiosa profezia, basata su idee chiare e valori forti.
Scrive Hannah Arendt che i tempi bui sono quelli in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più nulla alla politica se non di prestare attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata.
Nello stato di emergenza che stiamo vivendo, è forte l’impressione di assistere ad un oscuramento della dimensione pubblica. A questo tempo storico diamo il nome di crisi. Ma crisi è da intendersi nel duplice senso greco krisis, che rimanda all’idea di scelta, decisione, prefigurando sì un rischio, ma anche una oppurtunità.
Come possiamo trasformare questa oppurtunità in capacità di azione politica? Cominciamo col trasformare il senso comune e col ri-orientare la politica, generando anticorpi contro il dominio incontrastato del modello che fa dell’homo oeconomicus la misura dell’umano, e del singolo il responsabile della propria sopravvivenza. Inoltre, stiamo misurando il peso di politiche che amministrano, distruggono, ma non inventano il futuro; comprimono la sfera dei diritti e delle libertà individuali, percorrendo l’esercizio dell’antidemocrazia, trasformandoci in corpi da bloccare alla frontiera, da isolare su una nave o su un aereo con divieto di sbarco.
Il germe di un nuovo progetto per l’Europa sta nel risveglio del pensiero forte, tradotto in un dibattito pubblico e democratico. L’Europa non è politica, non è economia, non solo. E’ popolo, è anima, è una complessità antropologica e spirituale che riguarda il nostro appartenere ad un popolo, ad una tradizione, ad un modo preciso e fondamentale di orientarsi nel mondo. E’ un fondamento di libertà e di verità.
L’impegno nostro, da credenti, è quello di partecipare e contribuire a discorsi positivi e costruttivi sulle scelte dell’Europa, con linguaggio maturo e coscienza formata. Creiamo alleanze, promuoviamo dialogo, intrecciamo legami, sviluppiamo resilienza.
Ci sono delle parole che nascono nobili ma che, purtroppo, i partiti politici trasformano in settarismi, travisandole. Così popolo diviene polpulismo, nazione si trasforma in nazionalismo e Stato in statalismo: -ismi che travisano alcuni valori fondanti la democrazia in una restrizione di senso e di significato.
Trump e Brexit insieme hanno sostituito l’idea di integrazione europea con quella di disintegrazione, per imporre il principio di sovranità nazionale. A Washington gli equilibri interni all’UE non interessano più; questo vuol dire che vanno ripensati i rapporti tra partner europei. Gli Americani hanno i loro razzi, le navi spaziali, e soprattutto non hanno da difendere una identità etnica e culturale, ma soltanto gli scambi commerciali e la praticabilità protetta di ogni via di scambio, fra cui il Mar del Sud della Cina che la Cina cerca di controllare. E in Italia personaggi ambiziosi ed opachi, leader del pensiero grillino fondato sul naufragio culturale, si crogiolano alla ricerca del successo e….tutto va bene, andrà tutto bene. E non importa se esistono poteri planetari e l’Italia non ne fa parte.
Crolli e frane dissestano un Paese, ma un Paese lo si uccide con la disoccupazione, con la mancanza di sviluppo, con il blocco di ciò che lo rende moderno e civile in quanto a servizi, trasporti, infrasstrutture.
In una Europa che è diventata un menu à la carte per il venir meno della vera politica, che è rivendicazione di un diritto, lotta contro l’ingiustizia, strumento di avanzamento, la democrazia è in apnea.
Agere sequitur esse, dunque se la tutela della vita è elemento centrale, vanno promosse iniziative politiche che possano aiutare la donna e la famiglia; se affermiamo la centralità del lavoro rispetto alla finanza, occorrono norme che consentano di affermare nella quotidianità tale principio; se vogliamo difendere il lavoro, dobbiamo introdurre la civitas come attore del progresso economico, e quindi il lavoratore stesso; se la sicurezza sul lavoro non è una legislazione asincrona, deve essere espressione deella tutela della dignità di chi lavora; e in sanità come si può parlare di cura dell’altro in una organizzazione definita aziendale, perché rispetta una logica economica?
Il nostro lavoro è creare esperienze relazionali e certezze concrete nel flusso continuo di quotidiane contraddizioni. Siamo chiamati, per una nuova Europa, a recuperare il senso genuino di popolo, nazione, stato, attraverso una Cultura attenta a quanto il passato ci ha assegnato come patrimonio di valori, come impegno al vivere quotidiano come testimonianza per le future generazioni.
La Cultura insegna che l’impegno politico autentico impone la battaglia per le proprie idee e i propri valori, incarnati negli ideali civili. E non dobbiamo vincere contro, ma vincere per una Europa che faccia sintesi dei Diritti e dei Doveri dei popoli, senza farsi scivolare addosso la cristianità in cui affonda le radici e della cui linfa ancora si nutre.
Antonia Flaminia Chiari
Centro Studi Leone XIII
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Licenziamenti in vista, o meglio, fine di un progetto di lavoro triennale giunto al termine per 800 operai meglio definiti ex mobilità ed ex reddito minimo di inserimento (rmi), consistente in 85 giornate lavorative e poi, come al solito, nuovi ammortizzatori sociali per persone mandate a casa a far nulla e prendere soldi, cioè quattro stracci, mentre invece c’è tanto lavoro da fare tra le strade della Basilicata che molto spesso si presentano con buche, segnaletica mal tenuta o divelta o inclinata e cunette e scarpate stradali da sistemare. C’è un gran lavoro da fare sulle strade della regione per renderla accogliente, attrattiva in ogni aspetto e meglio disposta a ricevere turismo e trattenere i nostri ragazzi che invece in questi 25 anni di dominio incontrastato della sinistra sono scappati al nord e all’estero. C’è del lavoro da sbrigare, qui, se solo si riescono ad individuare energie capaci di progettare il territorio e poi dirigere i lavori entro tempi certi e stabiliti. Non c’è da mandare a casa gente già sottopagata che invece va riconvertita come maestranze capaci di soluzioni di problemi attraverso corsi formativi e corsi motivazionali. E non c’è neanche gente a cui regalare un’altra manciata di giornate, portarle alla soglia 102 che consentirebbe poi qualche altro spicciolo in più aggiungendo miseria a già tanta miseria. Se il lavoro c’è in Basilicata, e sappiamo tutti che c’è, allora quelle 800 persone vanno non licenziate ma assunte. Proviamo a ragionare su un’assunzione tutto l’anno con 4 ore di lavoro al giorno. Daremmo la possibilità agli operai, divenuti più esperti con eventi formativi, di rientrare nel sistema produttivo della regione con tanto di iniezione di fiducia e di ottimismo, essi avrebbero altra parte della giornata per occuparla in formazione o per sbrigare altre lavori (chi di loro non ha un fazzoletto di terra da coltivare!), solleveremmo l’Inps già gravata di lavoro arretrato oltre che alleggerire gravosi impegni finanziari. Cosa occorre? Cambiamento, volontà di cambiamento, capacità di gestire il cambiamento. Altrimenti, gentili signori che governate la Regione Basilicata, perché vi avremmo votato. Occorrono energie positive capaci di tradurre le volontà politiche espresse in maniera chiara in azioni efficaci per garantire lavoro produttivo entro spesa produttiva attraverso tanti microprogetti di aree territoriali. Basta regalare soldi, miniredditi, cioè miseria in cambio di nulla. Papa Leone XIII, nella sua Rerum Novarum del 1891, parlava di “giusta mercede” per tutti. Assumeteli tutti, e metteteli nelle migliori condizioni di lavoro, di dignità, di produttività.
Pasquale Tucciariello – Centro Studi Leone XIII -
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Quando il 23 novembre del 1980 la terra tremò in Campania e in Basilicata, nessuno poteva immaginare la tragedia che si stava consumando in particolare nelle zone interne lucane e dell’Irpinia. Quasi tremila morti, rovine per decine di migliaia di miliardi di lire, un centinaio di paesi distrutti e circa un milione di senzatetto. Come sempreaccade nella storia dell’umanità, a sopportare il peso devastante di una natura spesso nemica furono i ceti deboli, persone per le quali la vita era già fatta di duro lavoro per la sopravvivenza e che nello spazio di pochi minuti furono sollevate da tale fatica perdendo la vita. La cronaca di un’emergenza inizialmente non avvertita dal Governo nazionale in tutta la sua vastità è nel ricordo di tutti marchiata a fuoco con quel titolo della prima pagina del Mattino di Napoli, Fate Presto.
Il Presidente Sandro Pertini si precipitò in quelle zone creando, perché non dirlo, anche qualche problema ai soccorritori ma testimoniando la vicinanza, sentita ed appassionata, di tutta la politica nazionale e dell’intero Paese al dolore della gente dell’Irpinia, della Basilicata e dell’intera Campania. Mentre la macchina dei soccorritori guidata in maniera impareggiabile dal Commissario Straordinario Giuseppe Zamberletti faceva per intero la sua parte, i partiti a livello nazionale si interrogavano sulla qualità delle risposte da dare a quelle popolazioni. Già c’era stato il terremoto del Friuli per il quale la collaborazione intelligente tra partiti locali e nazionali aveva dato ottimi risultati.
Il problema, infatti, non erano solo le risorse da stanziare, quanto piuttosto quello di ottimizzarne l’utilizzo rilanciando quella cooperazione tra poteri democratici che aveva già dato i suoi frutti positivi in Friuli e in seguito nella Valtellina.
Il terremoto lucano e dell’Irpinia, quattro volte più grande di quello del Friuli, poneva, però, alle classi dirigenti locali e nazionali qualche problema in più rispetto al terremoto del Friuli e di altre zone del Paese. Questa volta non si trattava solo di ricostruire paesi interamente distrutti dal sisma, ma di cogliere l’occasione storica per dare risposte alla questione meridionale in campo da molti decenni. Dalla Basilicata e dalle zone interne della Campania sul terreno dello sviluppo e da Napoli sul terreno della qualità della vita oltre che, naturalmente, su quello economico.
Miseria antica e distruzione sismica, insomma, stavano diventando un intreccio perverso e un nodo scorsoio al collo di quelle popolazioni, che temevano di vedere del tutto disattese quelle speranze coltivate per decenni. Il dibattito politico si infiammò e, per merito essenzialmente della Democrazia Cristiana e del P.C. I., che governava a quel tempo la città di Napoli, fu messa in piedi la famosa legge 219 che conteneva azioni di tre tipi:
a) la ricostruzione delle abitazioni distrutte con il recupero di un rapporto servizi-residenze equilibrato e moderno;
b) gli incentivi finanziari e fiscali per il trasferimento di attività produttive nelle zone interne della Campania ed in Basilicata;
c) un piano di 20 mila alloggi per la città di Napoli afflitta da un indice di affollamento tra i più alti del mondo (10 mila abitanti per Kmq).
Questa triplice azione strutturale era sostenuta da poteri speciali attribuiti ai sindaci e ai presidenti delle giunte regionali e conteneva, sul terreno finanziario, una novità.
La legge indicava alcuni obiettivi (ad esempio 20 mila alloggi) ma, non potendo quantificare in quel momento l’onere finanziario, e non avendo nel bilancio pubblico risorse sufficienti, affidava alle successive finanziarie il compito di stanziare le risorse necessarie anche sulla base di quello che sarebbe stato l’accertamento definitivo dei costi.
Fu così che le forze politiche di maggioranza e di opposizione si obbligarono a finanziare, negli anni successivi, con manovre creative, 1a più grande opera di infrastrutturazione nella Storia dell’Unità d’Italia, di alcune zone del Mezzogiorno. Quella triplice azione avviata nella primavera del 1981 finì, nel corso di un decennio, per far decollare altre iniziative non direttamente collegate al terremoto, ma che furono favorite dalle politiche ricostruttive e di sviluppo attivate in seguito al sisma del 1980.
Ne cito alcune per tutte.
Lo sviluppo dell’area metropolitana di Roma, Milano e Torino era avvenuto, dalla metà degli anni Sessanta in poi, con l’utilizzo delle somme accantonate con riserve tecniche dagli enti previdenziali (lnps, Inail, Enasarco, Enpam e via di questo passo).
L’ammontare annuo complessivo di questi investimenti era tra i 4 e i 5 milamiliardi di vecchie lire. Una cifra enorme che aveva consentito l’espansione urbana delle maggiori città con un buon livello qualitativo.
Quando nel 1988 la Commissione Bilancio preparò un emendamento che obbligava per 5 anni gli enti previdenziali a riservare alle zone della Campania e della Basilicata il 20% dei propri investimenti, le forze politiche furono pronte ad approvarlo. Mille miliardi circa di investimenti immobiliari in quelle due regioni significò molto per lo sviluppo economico e per la vivibilità di quelle popolazioni. Basti pensare che, dalla sera alla mattina, si avviò a Napoli la costruzione dell’attuale centro direzionale che da oltre 15 anni era fermo al palo per mancanza di risorse. Con una domanda pubblica certa, gli imprenditori fecero a gara per costruire ed organizzare, così, un’offerta appetibile.
L’opera di infrastrutturazione della Basilicata avvenuta in quegli anni convinse la Fiat di Cesare Romiti a preparare gli investimenti nel polo automobilistico di Melfi. All’epoca l’On. Cirino Pomicino, che era ministro del Bilancio, stipulò con la Fiat un contratto di programma di ben 3 mila miliardi di lire per l’insediamento di Melfi, più un altro contratto di programma per l’indotto delle piccole e medie imprese. Anche in quell’occasione il consenso delle forze politiche e sociali fu altissimo. Due realizzazioni, il centro direzionale di Napoli e il polo Fiat di Melfi, che nulla avevano a che fare con il sisma del novembre del 1980, erano, comunque, figlie di quella cultura di governo sorta proprio in seguito al terribile terremoto e che aveva fatto propri gli obiettivi di sviluppo economico e di ammodernamento urbano di quelle regioni. Insomma due benefici effetti a distanza di quella saggia decisione assunta dalla D.C. e dal P.C.I., oltre che dalle altre forze politiche minori, all’indomani di quella immane catastrofe.
Negli anni che seguirono ebbi modo di seguire da vicino, nella mia veste di sindaco della città di Potenza, l’intero processo messo in moto dalla legge 219/81 che, però, divenne operativa nel 1984. Negli anni precedenti alla sua entrata in vigore, il Governo nazionale operò con l’ordinanza 80, al fine di agevolare il recupero delle abitazioni leggermente danneggiate. In quegli anni ho visto l’impegno fattivo e concreto delle classi dirigenti locali e dei dirigenti nazionali dei partiti eletti in quelle zone, che diedero vita ad una specie di partito trasversale del terremoto, ma ho visto anche crescere l’astio e la contrapposizione politica nei confronti dei risultati che si stavano ottenendo in tema di infrastrutturazione del territorio e di sviluppo industriale. Purtroppo, alla fine degli anni ‘80 il clima cambiò per questa campagna di odio sostenuta, ironia della sorte, dal giornale di Montanelli e da la Repubblica. Incertezze politiche e pressioni scandalistiche della stampa dettero vita a quella “Commissione Scalfaro”, che fu la culla dell’odio e del livore e che esplose poi con i fatti del ’92-’93 con l’Irpiniagate.
Sotto la spinta di Oscar Luigi Scalfaro, diventato nel ’92 Presidente della Repubblica, la ricostruzione sismica fu processata e dopo 15 anni assolta, ma intanto i sacrifici fatti ed i buoni risultati ottenuti con la ricostruzione vennero vanificati dai giudizi sommari verso la classe politica meridionale, considerata disonesta e incapace.
Naturalmente, come in ogni processo complesso, anche nella ricostruzione vi furono fatti positivi ed episodi negativi, in particolare con l’arrivo degli imprenditori del nord che utilizzarono gli incentivi industriali per, poi, rapidamente scomparire.
Per quanto attiene, invece, la ricostruzione dell’edilizia abitativa va ricordato che si formò nella coscienza civile professionale una “nuova cultura dello sviluppo”: prima del novembre ’80, le iniziative da porre in essere nel campo di una qualsiasi ricostruzione non rientravano di certo nella cultura degli amministratori, dei tecnici, dei cittadini; nessuno aveva sentito parlare in termini appropriati dell’adeguamento antisismico con la stessa disinvoltura con cui, a distanza di tempo, si osa oggi trattare argomenti di natura tecnica legati al recupero del patrimonio abitativo.
Alla luce di quelle esperienze vissute si consolidò una cultura urbanistica che concorse, con il proprio contributo, ad un processo di trasformazione soprattutto dei centri storici di molti comuni. Infatti furono riqualificati, in coerenza con il restauro conservativo, tutti gli elementi architettonici ivi preesistenti come i portali, le murature a faccia vista, le mensole dei balconi e dei vani finestra. Vale per tutti l’esempio della città di Potenza che, ancora oggi, ben rappresenta qualitativamente il lavoro fatto.
Con l’intervento ordinario e straordinario dello Stato furono costruiti migliaia di abitazioni, edifici scolastici di ogni ordine e grado, strade e centri sociali, come pure impianti sportivi e centri sanitari. Un discorso a parte merita l’istituzione della Università degli Studi di Basilicata che rappresenta, senza enfasi e retorica, una conquista sociale di notevole spessore, agognata da decenni dalle generazioni lucane. Relativamente alle disfunzioni nel settore industriale va sottolineato che la politica centrale non è stata all’altezza del compito, nel senso che da Roma vennero quattro o cinque imprese che si divisero la grande torta delle infrastrutture; sempre Roma, poi, deliberatamente escluse le imprese della Basilicata e dell’Irpinia, nonostante un’ordinanza dell’allora ministro Scotti avesse sancito che il cinquanta per cento degli appalti doveva essere destinato alle imprese locali. Le suddette imprese “romane”, ottenuta la concessione al mega-appalto, altro non fecero che cedere i lavori in sub-appalto, questa volta alle imprese di Basilicata e dell’Irpinia, con ribassi fino al 50 per cento. Un affare di proporzioni immense, peraltro “registrato” dalla Commissione Scalfaro. Ma i lucani, e lo ribadiamo con rabbia e dolore, non parteciparono affatto a quella mega-ripartizione. I lucani non hanno gestito nulla, tutto è stato calato dall’alto. Gli imprenditori hanno protestato, denunciato le degenerazioni dei subappalti ma nessuno li ha ascoltati.
C’è stata sicuramente sproporzione tra i finanziamenti pubblici elargiti e i risultati pratici ottenuti in termini di occupazione e produzione, ma se sprechi e scelte discutibili ci sono stati, Roma, centro della politica, ne è stata consapevole, sempre. Gli atti posti in essere sono dipesi da una legislazione di 25 anni che li ha consentiti.
Allora? Speranze tradite? Una ricostruzione che ha fatto più male che bene?
Poco onesto affermarlo. Per meglio capire i meccanismi innescati, nonché le perversioni vere o presunte, è necessario fare una distinzione tra le risorse finanziarie destinate alla ricostruzione del patrimonio abitativo e quelle assegnate alla costruzione delle aree industriali. Nel presente, come in prospettiva storica, è importante che i due flussi finanziari vadano nettamente separati. Nel primo caso i finanziamenti sono arrivati direttamente ai Comuni e agli Enti gestori del patrimonio edilizio pubblico e privato; nel secondo caso direttamente agli industriali, attraverso uffici e procedure gestite direttamente da Roma.
Ma, nonostante le scriteriate assegnazioni finanziarie, le aree industriali sorsero e sono ancora lì. Per fortuna! Tra mille difficoltà, fra tante contraddizioni e qualche errore di valutazione, le aree terremotate hanno cambiato volto. I veri problemi dell’industrializzazione ricominciano oggi, soprattutto con le non decisioni del Governo attuale per ulteriori aiuti alle zone terremotate e alla loro rinascita. Le aree industriali della Basilicata, oggi, sono soltanto dei poli produttivi a metà, alquanto isolati. Mancano ancora strade, interne ed esterne, mancano alberghi, mancano servizi come sportelli bancari e postali, posti di polizia, mancano i trasporti. Questi sono stati e sono i veri problemi di crescita di una industria giovanissima: quello che serve - ripeto - è una attenzione maggiore della classe dirigente, possibilmente del Governo centrale, soprattutto per impedire un freno, uno stop ad una crescita economica e sociale che, qualunque cosa se ne dica, comunque c’è stata. Nel cratere ci sono industrie che rappresentano l’«Azienda-Italia»: qui hanno portato tecnologie, management, strategie ma, anche, poca occupazione; tutte, per funzionare sempre meglio, hanno bisogno di un habitat che non c’è.
Se spesso la modernità passa attraverso la tragedia, in questo Paese, che sa vivere solo con la crisi, la Basilicata e l’Irpinia ne sono state un caso esemplare. Ci voleva un terremoto per farle rifiorire, nonostante le loro irrisolte contraddizioni. Sulla ricostruzione, come già precedentemente accennato, si è abbattuta l’ombra lunga degli scandali e degli sprechi. La Commissione d’Inchiesta parlamentare sulle aree terremotate, presieduta dall’on. Scalfaro, è stata anche a Potenza e ha concluso i suoi lavori dopo 14 mesi di indagini ed approvato tre relazioni che furono successivamente portate in Parlamento. Il lavoro svolto dalla Commissione, comunque, non riuscì a farsi carico della diversità degli interventi previsti da una legge complessa e articolata.
La Commissione non fornì tutti gli elementi richiesti, anzi alimentò il sospetto dell’utilizzo improprio delle risorse finanziarie. Tuttavia è verosimile affermare che in quel periodo la ricostruzione procedeva in maniera diversa da Comune a Comune; in moltissimi Comuni essa era in fase avanzata, mentre in altri si registravano ritardi dovuti a difficoltà di carattere urbanistico o a conflittualità fra condomini o a ritardi nell’elaborazione degli strumenti urbanistici.
Furono stanziati 52 mila miliardi di lire, di cui circa due quinti vennero utilizzati per realizzare i ventimila alloggi di Napoli (dando sollievo ad una penuria abitativa universalmente riconosciuta) e tre quinti per la ricostruzione abitativa nell’intera area della Campania e della Basilicata. Poiché era supposizione comune che l’Irpinia avrebbe ottenuto 64.000 miliardi di lire, l’inchiesta ebbe modo di chiarire ciò: la provincia di Avellino, infatti, ebbe solo 6.549 miliardi. Per gli insediamenti produttivi nelle aree di Avellino, Salerno e Potenza furono stanziati ottomila miliardi di lire. Tutto questo, fortunatamente, è storia passata anche se ha lasciato tante ombre sulla credibilità di una classe dirigente messa alla gogna e strumentalizzata dai giochi nazionali, fatti sulla pelle dei cittadini meridionali.
Ma tornando alle cose più propositive che hanno ispirato questa mia riflessione, va detto che: «la legge 219 del 1981, quella concepita per far tornare alla normalità le zone terremotate, era una buona legge. La sua filosofia prevedeva la riparazione del danno e un limitato intervento finalizzato allo sviluppo produttivo. Il tutto da attuarsi entro tempi certi». Ma la 219 fu stravolta, come già detto, da oltre cinquanta leggi e decreti successivi. E così al posto della ricostruzione di ciò che era andato distrutto si diede il via libera, in molti casi, alla costruzione esagerata, fonte di umane distrazioni. Tuttavia, nel tracciare un quadro conclusivo relativo alla raffigurazione dei fatti e delle azioni conseguenti alla calamità, è giusto affermare che l’inchiesta, così come è presentata dai documenti conclusivi, appariva allora indispensabile. Lo scopo della ricostruzione di eventi tanto controversi, specialmente per il fatto che hanno comportato l’utilizzazione di ingentissimi finanziamenti pubblici, era, ad un tempo, la base epistemologica per l’individuazione delle responsabilità pregresse ed il punto di partenza per aprire in futuro un capitolo nuovo: il solo modo perché da una esperienza negativa potessero nascere regole nuove e più sicure nel governo della spesa pubblica, secondo criteri di trasparenza, collegialità, imparzialità ed efficacia.
In conclusione, mi viene da aggiungere che una delle ragioni di forza di una democrazia avanzata è la sua capacità di autocorrezione dei propri errori. A questo deve provvedere sempre e senza indugi il Parlamento, al cui operato guardiamo con fiducia, alfine di scongiurare il pericolo che, in futuro, possa ripetersi quanto la Commissione Scalfaro ha così “realisticamente” squadernato davanti ai nostri occhi di spettatori o protagonisti di quegli eventi, sui quali, comunque, non abbiamo mai calato il velo ipocrita di una prona assuefazione, quanto, semmai, esercitato una nostra responsabile criticità.
Firenze 15 ottobre 2019
Gaetano Fierro
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Mentre scrivevo queste righe, mi è saltata in mente una battuta, con cui vorrei aprire il dibattito: all’indomani della notte elettorale americana, il nome del Paese sembra più un passato prossimo: una volta Stati Uniti, oggi più che mai divisi.
Infatti, lo scenario che si delinea è quello di un Paese come gli Stati Uniti decisamente spaccato in due.
Al di là delle battaglie legali che probabilmente animeranno il dibattito statunitense nei prossimi giorni, sembra sempre più realistico che a sedere alla Casa Bianca sarà il 78enne Joe Biden. Cosa significherebbe per noi, questo?
Probabilmente, nonostante alcune boutades e alcune suggestioni pre-voto, le relazioni tra Unione europea e Stati Uniti non cambieranno in modo così drastico. Probabilmente, Biden avrà un approccio meno sensazionalistico o apertamente “rumoroso” nei confronti dell’Unione Europea, ma c’è da sottolineare che, nonostante i modi oserei dire “spettacolari” di Donald Trump, il mancato sostegno all’Unione Europea e i continui richiami sulla NATO si è risolto in molte parole, e poche azioni.
C’è una cosa che mi ha colpito abbastanza, però: in un articolo pubblicato su Foreign Affairs (lascio il link nel gruppo, per chi volesse approfondire), Biden ha illustrato la politica estera della sua presidenza, e l’Europa è citata solo due volte. La prima volta parla dell’Unione europea come di uno dei “più stretti alleati” degli Stati Uniti insieme al Canada. Tuttavia, nel nominarlo una seconda volta, Biden ha ammesso di voler andare oltre il mondo Occidentale, comprendendo quindi l’Europa, e voler volgere il proprio sguardo al di là, verso oriente.
Certo, il Covid ha probabilmente cambiato un po’ le carte in tavola, ma ciò dovrebbe farci pensare: ho come l’impressione che in questi mesi, e soprattutto in queste ultime settimane, noi europei stiamo gettando lo sguardo oltreoceano, quando dovremmo fare quadrato e conoscere meglio noi stessi.
C’è una bella canzone di Daniele Silvestri, probabilmente ispirata alla logica socratica del “conosci te stesso”, nella quale l’autore romano suggerisce che, forse infondo è vero che per essere capaci di vedere cosa siamo serve allontanarsi e guardarsi da lontano.
Infatti, uno degli spunti più interessanti letti in questi anni è quello di un politologo statunitense MORAVCIK, figlio di immigrati ungheresi, ed è uno di quei nomi che tutti gli studenti di Scienze Politiche hanno sentito almeno una volta nella vita.
Ebbene, qualche anno fa, era proprio Moravcik a sottolineare come spesso gli europei si concentrassero in maniera su alcuni aspetti certamente negativi, come la mancanza di una risposta tempestiva nel caso di crisi, come quella economica o quella migratoria, ma che troppo spesso diano per scontato alcune grandi vittorie conquistate e spesso taciute. Guardiamo per un attimo al passato, prima che al futuro: poco più di sessant’anni fa, i leader europei che avrebbero dato i natali alla Comunità Europea si incontrarono per firmare il Trattato di Roma. Era il 1957: neanche dieci anni prima, l’Europa aveva avuto esperienza sul proprio territorio di morte e devastazione, avevano toccato con mano l’odio, il razzismo, la violenza. Eppure, quei grandi statisti, si stringevano la mano per porre fine all’orrore, e costruire insieme un futuro diverso. Tra questi statisti, cito tre nomi: Adenauer, De Gasperi, Schumann. Tre persone accumunate da alcuni caratteri comuni, di cui due mi hanno sempre particolarmente colpito: tutti e tre erano nati e cresciuti in territori di confine e tutti e tre erano accumunati da comuni radici cristiane.
E’ in queste caratteristiche che ritrovo le radici più profonde dell’Unione Europea, le idee che hanno spinto i leader di tre Paesi, fino a qualche anno prima schierati su fronti diversi, ad unirsi per costruire quella frontiera che aveva fornito le basi per aprirsi al mondo, per conoscere l’Altro da Sé, e per considerarlo un fratello. E sono proprio quelle radici cristiane che hanno ispirato la solidarietà rispetto agli egoismi, la voglia di sentirsi comunità rispetto all’individualismo che tanto male aveva prodotto in Europa.
Da queste lezioni dovremmo ripartire: smettere di guardare ad un mondo bipolare e spaccato, recuperare quell’idea di multilateralismo che rende l’Europa – come dice Moravcik “still a superpower” - ancora una superpotenza.
Noi che “siamo stati uniti”, dobbiamo superare le divisioni. Per farlo però, c’è bisogno di credere che questo sia ancora possibile. Perché i sogni sono alimentati dalle persone, e per realizzarli c’è bisogno dell’impegno, giorno dopo giorno, dei suoi protagonisti. E no, i protagonisti non sono soltanto la Commissione Europea o la Banca Centrale: i protagonisti dobbiamo essere noi per primi. Correggere, bacchettare, essere opinione pubblica ed esprimere chiaramente dissenso.
Ma guardiamo anche a noi stessi: c’è anche bisogno di creare consenso. Di credere ancora nel sogno dei suoi padri fondatori, di invertire la rotta. Siamo pronti o preferiamo diventare un’inutile pedina nello scacchiere statunitense? Agli europei l’ardua sentenza. Ma noi giovani ci siamo, in e con l’Europa, e ci saremo. Con un nuovo progetto, con un nuovo programma: gli Stati Uniti d’Europa.
Marta Romano – Centro Studi Leone XIII -
https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2020-01-23/why-america-must-lead-again
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Ho un rapporto un po’ atipico con mia madre: spesso i genitori dei miei amici si lamentano perché i propri figli escono troppo, mentre mia madre mi chiede di uscire più spesso.
Tuttavia, quando sono a casa, in un piccolo paesino della Basilicata chiamato Rionero in Vulture, c’è un problema: non so bene con chi uscire poiché i miei amici, quelli storici, i miei compagni del Liceo, ormai da anni studiano e lavorano fuori. Di tutta una classe, gli amici che sono rimasti qui si contano sulle punta delle dita (di una sola mano).
Ebbene, in realtà questo è soltanto un sintomo di un problema grave e certamente molto più serio dei miei tristi sabato sera. Il problema è che, come si legge dal Rapporto SVIMEZ del 2019, solo nel 2018 sono andati via dalla Basilicata 1.715 giovani tra i 18 e i 30 anni. Il dato, unito a quello dei decessi e dei nati (sempre di meno), determina un calo della popolazione lucana che, secondo le previsioni, nel 2065 porterà la Basilicata ad avere 403.670 abitanti (rispetto agli attuali 562.869).
Leggere questi dati fa male al cuore. Un’emorragia di giovani, spesso altamente qualificati, che abbandonano la propria terra e le proprie famiglie, per trovare fortuna in altre città o in altri Paesi. Di conseguenza, il Mezzogiorno e la Basilicata si troveranno inevitabilmente a vivere una crisi demografica profonda e strutturale. Ci apprestiamo a vivere tutte le tragiche conseguenze e i costi sociali di un drastico e preoccupante ridimensionamento demografico, associato ad un progressivo invecchiamento della popolazione.
Ma non ci si può rassegnare: serve un cambio di rotta urgente. È vero: abbiamo ascoltato questa frase così tante volte che ci sembra invecchiata (male) con noi.
Oggi, però, qualcosa è cambiato. Anzi, qualcosa è cambiato il 21 luglio 2020, quando l’Europa ha raggiunto l’accordo su un fondo che apre la strada all’emissione di debito comune. Quel giorno ha confermato la volontà dell’Europa di lavorare per le prossime generazioni europee, dando vita al programma chiamato “Next Generation EU”.
Mai come in questo caso, la forma deve essere sostanza: questo programma non si chiama Recovery Fund - fondo per la ripresa - ma Next Generation EU. La realtà è che il suo è un focus ben preciso: le prossime generazioni. L’Italia ed il Governo hanno perciò un compito chiaro, ovvero quello di dare forma al futuro e di costruire un Paese a misura di giovani, dando nuova linfa ad un Mezzogiorno che arranca ormai da troppo tempo. Investire in formazione e tecnologia, disegnare nuove politiche redistributive che premino le competenze,cercare soluzioni per fronteggiare la disoccupazione giovanile e il divario generazionale. Mai come ora è diventato imprescindibile ricostruire un dialogo tra generazioni, nella logica di scambio di esperienze e di conoscenze.
Lo stesso rapporto SVIMEZ prospetta che nel 2065 la Basilicata potrebbe essere la regione più anziana d’Italia. Il rischio è che la “Next Generation EU” nasca altrove: i miei amici, i miei coetanei, i nostri figli, costruiranno la propria famiglia lontani dalla terra che li ha visti nascere e che li ha visti crescere pieni di speranze e di sogni.
Alimentare quelle speranze e dare forma a quei sogni dev’essere la sfida di chi vorrà essere ricordato come uno statista e non soltanto un politico. Perché, citando la famosa frase attribuita ad Alcide De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”.
Marta Romano
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Poche battute scritte ieri con lo scopo, avendo fotografato situazioni, di richiamare lavoratori e pubblici poteri al corretto uso di risorse finanziarie specie quando, conti alla mano, viene constatato che in quindici giorni nove persone hanno pulito cunette di una strada ben asfaltata su un tratto di 1050 metri, cioè ogni operaio ha pulito ogni giorno circa sette metri di strada. E naturalmente tanto denunciando anche con lo scopo di indicare possibili metodi di indirizzo e di lavoro nell’utilizzo del danaro che deve servire a dare lavoro e a dare risultati in tempi definiti. E come era largamente prevedibile specie per il giornalista che opera sul campo da quarant’anni, sul web si sono avute voci di plauso da parte di cittadini ai quali proprio non va giù che il danaro pubblico debba venire sperperato e da parte di operai forestali anche di altre aree territoriali della regione che non ci stanno a venire additati, tutti, come incoscienti e fannulloni. Allora, chiarisco ancora una vota. La mia è solo la fotografia e un breve racconto di una situazione che pure non è singola e unica ma non necessariamente può essere trasferita pari pari in altri territori del Potentino o del Materano perché per raccontare bisogna esserci. La mia è anche, come ho già detto, una indicazione di metodo. Sono docente formatore orientatore, lavoro sul campo da oltre 40 anni. C’è una situazione di partenza (piano di forestazione produttiva e pulizia delle pertinenze esterne alla montagna), c’è una prima ipotesi progettuale, c’è un’idea sommaria di stanziamento di risorse finanziarie, c’è un progetto definito delle aree sulle quali intervenire, c’è l’individuazione di operai maestranze mezzi e dirigenti, c’è la spesa complessiva dell’intera operazione, ci sono i tempi entro i quali le opere vanno eseguite ed ultimate, c’è insomma l’investimento e c’è soprattutto il risultato finale. Nel corso delle tappe ci sono verifiche periodiche, ci sono aggiustamenti e ci sono miglioramenti, ci sono rinforzi motivazionali attraverso eventi formativi ove particolarmente occorrono, il tutto entro un piano generale di dignità dell’operazione per le somme di danaro investite, per il rispetto dei lavoratori, per il risultato finale che verrà presentato ai cittadini contribuenti. C’è un metodo scientifico o metodo sperimentale del Galilei che è bene tenere a mente: osservazione del fenomeno, elaborazione dei dati, verifica delle ipotesi, raccolta dei dati, elaborazione dei risultati. Scrive il prof. Antonio Romano socioeconomista ed importante energia del nostro gruppo culturale: “Ogni investimento pubblico e privato deve avere tre dati certi: tempi, controllo, risultati. Non si organizzano spese incontrollate ed incontrollabili, ma investimenti certi che abbiano un efficace ritorno socioeconomico”.
Ieri ho ricevuto, tra le altre, la telefonata molto garbata del dott. Giampiero Vassallo, dirigente territoriale che ha la responsabilità di una trentina di squadre operaie per un breve incontro davanti ad una tazzina di caffè. Incontro molto cordiale, ho conosciuto una persona perbene, ha insistito sui buoni risultati delle opere di forestazione eseguite da bravi ed esperti lavoratori “ … le dico prof. c’è tanta gente che vuole lavorare guadagnandosi la giornata, purtroppo c’è anche tanta gente che vuol portare avanti cattive abitudini e convinzioni accumulate nel corso degli anni, così come ci sono operai che più di tanto non possono fare (…..) Stiamo cercando di cambiare le cose ponendo l’attenzione su lavori che diano risalto alla loro utilità e visibilità come pulizia di cunette e scarpate stradali (…) riceviamo apprezzamento di cittadini e amministrazioni pubbliche (…) stiamo facendo un buon lavoro soprattutto a Monticchio e a san Fele. Il problema di lavoratori fannulloni e menefreghisti esiste ed è anche serio (…) ma le assicuro che non tutto quello che si dice sui lavoratori forestali corrisponde al vero (…) c’è tantissima gente che lavora con dedizione e con passione (…) noi speriamo che con il tempo il bene prevalga sul male”. Non c’è che dire, una bella corrispondenza sul web intercorsa con il dott. Giampiero Vassallo di Tolve, aggiungo una persona di garbo, vanno apprezzate tensione civile e onestà di parola. E ci siamo salutati con un impegno: tempi, controllo settimanale, risultati.
Pasquale Tucciariello – Centro Studi Leone XIII -
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Caro Assessore, da troppi anni, in tempo di lavori di forestazione (che stupidaggine, mandare donne e uomini lungo le strade dei comuni a pulir cunette anziché nei boschi a renderli praticabili ricettivi accoglienti) assistiamo allo scempio che gruppi di nove lavoranti, particolarmente donne, mostrano senza far praticamente nulla, qualche decina di metri al giorno di pulizia assembrate in piedi a cerchio, spettacolo penoso, a dimostrare come la Basilicata e l’Italia scendono sempre più in basso, senza che impennate di orgoglio politico assecondino le ansie di riscatto e di risalita del nostro popolo. E’ proprio così destinato che non debbano esserci controlli sul lavoro e sui tempi? Si possono tenere 9 persone al giorno per due settimane al solo scopo di pulire 600 metri di strada asfaltata e poi continuare a pagarle con ammortizzatori sociali nei mesi invernali tenendole a casa? Ma vi rendete conto anche voi, amministratori di centrodestra della Regione Basilicata, che vi abbiamo votato perché si voltasse pagina attraverso cambiamenti nell’indirizzo della politica regionale? E’ tutto come prima, esimio assessore Rosa. Noi non diciamo che debbano essere mandate a casa. Noi proponiamo forme di controllo rigoroso che restituiscano dignità per le istituzioni e per loro stesse medesime.
Proposta (ma verificatene possibilità e fattibilità): assumete tutte quelle persone impegnando le stesse somme di denaro, tra retribuzioni e disoccupazioni, e assegnate a gruppi di due le strade tra boschi e dintorni e tra paese e paese, ognuno con le responsabilità di carichi di lavoro a fronte di carichi economici per l’ente pubblico. Comunque fate qualcosa, ed evitateci questi spettacoli indecenti. Grazie.
Ottobre 2020
Pasquale Tucciariello - Centro Studi Leone XIII -
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Parlare di Robert Schumann, famoso politico franco-tedesco, è parlare di Europa fra due guerre mondiali: l'Europa di Pio XII e della sua diplomazia, l'Europa delle generazioni scolpite dalla ferocia dei totalitarismi. Nei vent'anni tra le due guerre (1918-1938), l'Europa ha conosciuto la logica del riarmo come strumento per uscire dalla crisi economica, ed ha assistito al tragico sviluppo dei nazionalismi. Protagonisti gli Stati, ma spesso anche le culture e le ideologie che di sono proposte come identità armate in lotta. E nessuna politica è stata in grado di evitare il conflitto.
Schumann, uomo di confine, negoziatore dei maggiori trattati quali il Consiglio d'Europa, il Patto Atlantico e la CECA, con una proposta nota come "Dichiarazione di Schumann", gettò le basi della Unione Europea. Primo presidente del Parlamento Europeo, fu nominato Padre dell'Europa.
Uomo che univa una intensa vita interiore con una grande riservatezza, un acuto senso politico con una inflessibile integrità morale, può essere, per coloro che di dedicano alla politica, un esempio di coerenza umana e cristiana.
Schumann, aderente al Partito Democratico Popolare animato da don Luigi Sturzo, appoggia l'idea di uno Stato che sappia stimolare la responsabilità, la partecipazione e la solidarietà dei corpi sociali. È avversario delle dittature totalitarie sia perché ritiene la libertà della persona un valore insopprimibile, sia perché è dotato di grande realismo che lo porta a diffidare di ogni utopia astratta. Egli è convinto che l'identità dell'uomo si arricchisce col senso di appartenenza alla comunità in cui vive (famiglia, scuola, lavoro, regione, nazione ecc.); che realtà diverse possono convivere secondo il principio di sussidiarietà (eredità di Pio XI); che il cristianesimo è sorgente dei valori che animano la democrazia. Una società a misura d'uomo è una società costruita secondo un progetto di umanesimo integrale ( come sosteneva Maritain). Da qui la forza e la praticabilità del disegno dell'Europa Unita.
Schumann, rispettoso dell'uomo fedele ad una vocazione intima che gli dava il senso della vita, riponeva fiducia in valori saldi: integrità, coerenza, competenza, fede cristiana.
Riflettere su Schumann ci permette di coltivare le radici della nostra coscienza storica, alimentando il dialogo attraverso cui ogni generazione dovrebbe trasmettere a quella successiva i valori e le tradizioni che ha maturato.
l'Europa nata dalle macerie di quel mondo, questa Europa che oggi vorremmo vedere soggetto attivo nella scena internazionale, protagonista dello sviluppo interno, motore di un impegno di ricerca dal quale i temi etici e politici non siano per nulla marginali o meno decisivi per il suo futuro di quelli delle scienze, ha il dovere di riscoprire la sua anima, come diceva
Schumann, e di incarnare e rinnovare i valori che ne hanno definito l'identità.
Nina Chiari
Centro Studi Leone XIII
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Il Parco del Vulture, istituito con legge regionale nel novembre 2017, ha lo scopo di conservare e di tutelare il patrimonio boschivo ed ambientale in genere in ogni sua componente e di promuovere e sviluppare attività economiche compatibili con il territorio. E tutto questo ridotto in estrema sintesi (la legge è spiegata in circa 40 pagine) favorisce uno straordinario volano di sviluppo culturale e socioeconomico in generale. In pratica, nel Vulture c’è lavoro per tutti perché ci sono le condizioni per invertire la tendenza in atto che impoverisce il territorio e favorisce emarginazione ed emigrazione. E quindi siamo in presenza di due opposti: a) alti indici di disoccupazione, di impoverimento delle attività economiche, di emigrazione giovanile ed intellettuale; b) straordinarie possibilità di sviluppo culturale, sociale ed economico attraverso un uso sostenibile del territorio e delle sue vocazioni. Vien da ricordare, a questo punto, che in regione vi sono due eccezionali situazioni particolarmente emergenti rispetto alle altre: abbiamo il petrolio, bacino che assicura il 60 per cento del greggio in Italia e abbiamo la Fiat, azienda tecnologicamente avanzata tra le prime in Europa. Con queste due situazioni fuori dal comune che garantiscono straordinarie ricchezze per l’intera regione, negli ultimi 25 anni la classe politica regionale di sinistra ci ha trascinati così in basso, evidentemente per incapacità di gestione delle risorse del territorio.
In questi giorni si sta discutendo sui nomi di chi dirigerà il cantiere del Vulture, cioè il Parco, che è praticamente un cantiere giacché la legge istitutiva del Parco è stata approvata con gli scopi or ora evidenziati. E ci sono i nomi di 5 sindaci che della zona. Il presidente Bardi, che noi lo scorso anno abbiamo votato perché avviasse un radicale cambiamento, dovrà scegliere tra questi. Sì perché loro, i nove sindaci del Parco, si sono riuniti ed hanno convenuto che loro stessi medesimi hanno tutte le carte in regola per aprire il cantiere Parco e dirigerlo per portarlo, in un tempo ragionevolmente definito, nelle condizioni di assicurare benessere ambientale e benessere economico. Sono sindaci di comuni qui intorno, non è difficile allora verificare ciò che sono stati in grado di produrre all’interno del territorio comunale. Basta una ricognizione veloce veloce. Osserviamo, tuttavia, che sarà un gran bene se si precisasse che il Parco dovrà diventare: 1) luogo di spesa per circa 300 mila euro l’anno e fare qualcosina qua e là, e allora va bene anche il primo cittadino del più piccolo comune della zona; 2) luogo di sviluppo sostenibile per capacità attrattive e centralità di interessi economici dell’area, e allora ci vuole un manager creativo dalle elevate capacità culturali ed imprenditoriali che nel giro di qualche anno non solo pareggia il conto delle spese investite ma capace di essere soggetto di altri investimenti e più che modello, paradigma. Si può fare. Noi ne discuteremo in un incontro pubblico a breve con i nostri esperti e proveremo a dare soluzioni possibili. Leggi regionali sbagliate in tutto o in parte si cambiano. Il presidente Bardi ne avrà tutta intera la responsabilità delle decisioni.
Pasquale Tucciariello Centro Studi Leone XIII
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1. Sono tempi duri, tempi difficili da vivere interpretare e vivere in tempo di pandemia per un virus invisibile che magari si avvicina ma ti allontana da vite di relazioni con l’altro e con le altre espressioni del mondo. Il fatto che tu non puoi più stringere una mano, anzi starne lontano disumanizza, allontana relazioni e ti sconcerta, certo finisci per allontanarti da ciò che hai trovato di bene nel mondo e magari ti avvicini al suo opposto, la negazione del bene. E’ un rischio reale. Il bene, si sa, più lo pratichi e più te ne innamori. Sì perché il bene è un richiamo, e se lo chiami e ti chiama entri in relazione e diventa compagno di vita, è condizione di vita. A ben pensarci avviene così per i beni di qualunque natura, anche il denaro è un bene, serve a fare delle cose senza il quale non le puoi fare, e anche in questo caso il bene è un richiamo, e se lo chiami e ti chiama entri in relazione e diventa compagno di vita, anzi è condizione di vita. Dipende. Dai due ambiti e dall’esercizio di queste due nature del bene conosci la persona, nel senso che il denaro può essere un bene se si rivolge a favore non solo di se stesso ma anche degli altri, ma diventa il suo opposto se chiamandolo opprimi e sacrifichi un altro bene che è la persona che te lo procura. In questo caso il bene però diventa altro, diventa male. Anche la parola presa in sé è bene; parola è una forma di comunicazione, è rapporto, è relazione. Quando la parola si fa relazione diventa bene. Manca la parola manca la relazione manca il bene. Parola relazione bene e il conto torna. I pedagogisti chiamano questa forma di comunicazione intersoggettiva relazione orizzontale, io-tu e il trattino sta per relazione che unisce l’io e il tu.
2. Gli analisti della condizione sociale del nostro tempo in atto ritengono che il Covid 19 abbia allontanato all’uso della parola e all’uso della relazione. Il distanziamento sociale (stupidi legislatori così hanno definito la necessità di preservare dal contagio attraverso condizioni di prudenza sociale o prudenza sanitaria o avvertenze sanitarie, modi diversi di poter chiamare la nostra risposta al virus) per la sua stessa natura di ordine e di distanza allontana parola-relazione-bene rimandando al mero messaggio, nient’altro che messaggio freddo e calcolato, ogni rapporto tra persone e tra persone e pubblici poteri. Neanche la scuola come luogo di impegno di studio di analisi di istruzione di formazione di educazione di orientamento ha potuto ottenere i termini di “parola relazione bene” stupidamente sacrificati al “distanziamento sociale” a causa di direzioni politico-governative lasciate in mani inesperte, impreparate e malamente adeguate per ruoli fondamentali di gestione della vita del popolo e dello stesso stato. Allontanare la persona dalla persona ha comportato e comporta tutt’ora – e non l’hanno ancora capito quei testoni che ci governano – una direzione opposta al buon uso della politica come corretta gestione dello stato. E dove va l’uso della politica se non dove tira il vento, proprio come il presidente del consiglio Conte che va dove tira il vento. L’uso della politica va verso l’antipolitica, proprio ciò che serve a chi governa per allungare le mani persino sull’umanità come valore della persona e sulle sue stesse ragioni di ente esistente. Eppure l’esistenza è valore, è la stessa cifra della trascendenza, l’esistenza è valore quando consenti all’individuo di presentarsi a dignità di persona. Il distanziamento sociale non lo consente, meglio “prudenza sociale” o “avvertenze sanitarie”, è più umano, possono essere indicati i termini ed i significati più corretti. Se solo quei testoni che dirigono la politica governativa si consigliassero con gli umanisti!
Pasquale Tucciariello
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La speranza è sempre possibile. Lo ha affermato il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, presentando la Lettera "Samaritanus bonus" che prende posizione contro eutanasia, suicidio assistito e disposizioni sul fine-vita. Non sono i progressi delle tecnologie biomediche a qualificare il senso e il valore della vita umana, ma piuttosto la sofferenza che continua a generare domande inesauribili sul senso del vivere.
È questa un'ora tormentata eppure fervida, nella quale il rapporto tra fede e ragione, tra scienza e religione, invade la vita stessa delle persone, fin nella interiorità più riposta dove campeggiano le domande ultime e le responsabilità dirimenti del nascere e del morire.
Il documento rappresenta una sfida dell'etica alla politica, e può essere letto come un percorso di ricomposizione di un pensiero e di una visione comune. Nasce da qui la sollecitazione ai cattolici di un impegno politico.
Chiunque sostenga la promozione e la difesa della libertà, della democrazia, della giustizia, non può prescindere dal riconoscimento del pieno rispetto della dignità della vita.
La distinzione forzosa dell'etica e del sociale, indotta da un sistema politico ossificato, ha condannato la presa in carico da parte dei cattolici di questi valori dimidiati, ad una inefficace postura ideologica, quasi fossero paletti infissi a segnalare un campo che nessuno ha avuto il coraggio di dissodare.
Noi non ne avvertiamo il rumore di fondo, eppure il mancato rispetto della vita e della dignità della persona rappresentano una sorta di fiume carsico che via via corrode lo stesso fondamento della libertà. Un motivo in più per accettare la scommessa che accompagna il progetto di un nuovo partito di ispirazione cristiana.
NinaChiari
Centro Studi Leone XIII
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In Augusto del Noce, la tradizione è ciò che si trasmette e ciò che si consegna; la tradizione è un valore quando è il valore a fondare la tradizione. Trasmettere pratiche di messe nere o malcostumi di vita sono trasmissioni ma non valori, valore è ciò che produce bene e allontana dal male. Esistono valori assoluti e soprastorici che meritano di essere consegnati, esiste un ordine immutabile che neanche Dio più muove perché lui lo ha voluto così.
Il dialogo con le filosofie materialiste e atee è non solo impossibile ma persino nocivo. Il marxismo è riuscito a condurre il pensiero verso l’ateismo che corrode l’epoca moderna e contemporanea negando l’esistenza di Dio e lo stesso desiderio di trascendenza che invece sono sostanze spirituali e intellettuali. L’ateismo è la nuova religione che ha la pretesa di sostituirsi alla religione tradizionale e come delizie della vita assicura benessere, qualità della vita e felicità possibili in presenza di radicali cambiamenti nei costumi di vita e di società. Impossibile anzi dannoso un incontro e una conciliazione tra ateismo e cristianesimo. Il cattomunismo è non solo culturalmente inutile ma dannoso.
Augusto del Noce fu profeta inascoltato, anche lui. Ma quando mai i profeti sono stati ascoltati. De Noce fu profeta, anche quando indicava, in un nuovo percorso di ricerca poco conosciuto, nuovi autori da riscoprire, come Malebranche e Vico, come Rosmini e Gioberti, genuinità del pensiero di ispirazione cattolica. Può essere questa la risposta efficace contro la secolarizzazione della società contemporanea, figlia dell’incontro tra ateismo comunista e ideologia borghese e liberal finanziaria e capitalistica. E’ stata questa la strada che ha permesso di annientare – il percorso è già molto in avanti - la verità della religione cristiana e sostituirla con la visione nichilistica della vita. E diciamola tutta finalmente. Delle due l’una: o visione nichilistica della vita (e abbracci visioni politiche e culturali post marxiste e finanz-capitalismo), o visione cristiana della vita. In questo caso l’approdo culturale-politico è già indicato: rilettura di genuinità pedagogiche, sociologiche, teologiche e filosofiche da un lato, al fianco di queste lavorare con intensità per la formazione di un’area politica comune ed unita in questo progetto. Ed è ciò che sta facendo il Centro Studi Leone XIII che condivido con adulti e con tantissimi giovani.
Pasquale Tucciariello
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Si discute di trasversalità sin dai primi anni di questo secolo, per il raggiungimento del successo formativo e per cercare di centrare il senso degli apprendimenti del terzo millennio, non perdendo di vista l’insegnamento di E. Morin per cui è necessario “apprendere a vivere” in una società complessa e globale, “interconnettendo il soggetto che apprende con i processi di conoscenza”. 1 Questo processo che può sembrare complicato in realtà è un principio di consapevolezza educativa che mira a rendere il discente partecipe ed attivo nell’apprendimento e quindi privilegia la didattica laboratoriale, la meta cognizione e la collaborazione. Tutto ciò richiede l’utilizzo di metodologie meno trasmissive, la necessità di contestualizzare e monitorare i processi di apprendimento, una maggiore attenzione alla personalizzazione ed all’inclusione con approcci diversificati in relazione ai ruoli docenti/discenti, alle tecniche di insegnamento ed alla valutazione. Tuttavia nonostante di questi argomenti si parli da più di venti anni, non si è potuto realizzare nulla di sistemico nella scuola italiana, che come istituzione ha assunto un andamento di “crescita” altalenante, utilizzando le diverse innovazioni come tele di Penelope, pronte ad essere disfatte e rimaneggiate a seconda delle opportunità politiche e delle visioni illuminanti, se non accecanti, dei diversi ministri della Pubblica Istruzione.
Non si è potuto creare nulla di sistemico, anche perché, nel frattempo, i finanziamenti erogati dall’Europa, finalizzati a raggiungere i traguardi stabiliti in educazione dal Consiglio Europeo; ispirati ai nobili propositi dei diversi e “colorati” libri redatti dalla Commissione; nel rispetto delle diverse Agende adottate dagli Stati membri per la crescita e lo sviluppo sostenibile; lanciavano le scuole in una sfrenata progettualità che potesse giustificarne la propria autonomia e competitività. E come in tutti i progetti la pianificazione finanziaria ha preso il sopravvento sulla pianificazione pedagogica e sulla necessità di selezionare in modo coerente obiettivi e finalità in base alle necessità dei contesti. I progetti europei nonostante avessero lo scopo di superare la sperequazione degli esiti di apprendimento tra le varie zone dell’Europa, nella maggior parte dei casi non hanno raggiunto questo obiettivo per una serie di variabili e di condizionamenti professionali e genitoriali che necessiterebbero di una lunga disamina.
Le procedure per le attività negoziali e per l’individuazione degli esperti, strettamente vincolanti e dettate da normative nazionali ed internazioni, hanno sacrificato il rapporto diretto che la scuola poteva instaurare con esperti conosciuti e di fiducia, per garantire piuttosto rotazione, trasparenza, competenza professionale certificata, a volte, purtroppo, a scapito della capacità umana e pedagogica e metodologica indispensabile nell’insegnamento. I progetti europei FESR ed FSE, pur avendo l’obiettivo di creare ambienti di apprendimento e di superare in percentuale le carenze in alcune discipline fondamentali, spesso non hanno risolto tali problemi in quanto nel loro sviluppo per i FESR non erano previsti interventi edilizi significativi e pertanto si sono installati dispositivi digitali e nuovi arredi in ambienti spesso obsoleti se non fatiscenti; per i FSE le ore a disposizione previste per un modulo progettuale (in media 30) non sono sufficienti per ottenere una reale ricaduta positiva se successivamente gli stessi percorsi non vengono riesaminati, analizzati e riproposti e se nel frattempo i cosiddetti esperti continuano ad erogare le conoscenze senza verificare la rielaborazione da parte degli alunni attraverso l’applicazione di abilità specifiche e senza esplicitare le metodologie utilizzate. Basterebbe esaminare le rendicontazioni dei moduli presenti sulle piattaforme on line predisposte per rilevare la povertà descrittiva dei percorsi progettuali in riferimento alla descrizione metodologica.
La scuola italiana ha così perso sia l’occasione di ricostruire le scuole in modo moderno ed appropriato, sfruttando i finanziamenti per ripensare edifici con spazi flessibili, ecocompatibili, ed in sicurezza, sia l’occasione di ripensare la didattica creando protocolli condivisi sulla base di riflessioni pedagogiche. Infatti una diversa impostazione politica nell’uso dei fondi europei nel passato, ed ora purtroppo nell’uso del MES, avrebbe potuto pianificare la ricostruzione degli edifici scolastici in un accordo di collaborazione tra Stato e Regioni, anziché riversare sulle scuole autonome finanziamenti frammentari e vincolanti. Negli ultimi anni una miriade di progetti finanziatia livello europeo, nazionale e locale, ispirati ad obiettivi che non sempre scaturivano da bisogni concreti o prioritari della istituzione scolastica, hanno messo a repentaglio tempi e modalità dell’apprendere, distogliendo i docenti da una progettualità coerente e mirata. 1 E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, MILANO, RAFFAELLO CORTINA, 2001 Conseguentemente le successive rendicontazioni, continue e pressanti, relative agli stessi progetti, hanno tolto energie professionali alle segreterie scolastiche ed ai dirigenti. Nel frattempo Linee guida emanate dal Ministero, relative ad alcune emergenze importanti, come l’inclusione, l’orientamento, il cyber bullismo, l’educazione civica e la didattica digitale, si sono susseguite stratificandosi, pervadendo le discipline, già messe in crisi dal concetto di competenza che richiede un uso trasversale di conoscenze ed abilità.
Le discipline, così come erano concepite ed insegnate nel passato non garantiscano al soggetto che apprende la sicurezza della conoscenza, ma soprattutto una formazione adatta ad affrontare il mondo che è in continuo divenire così sembra che diventi più importante “apprendere ad apprendere”, piuttosto che l’apprendere qualcosa. Negli ultimi anni si è sempre più considerato che nell’apprendere fosse più funzionale far cogliere subito nessi e connessioni tra le discipline, come se fosse necessario creare un’unitarietà tra i loro punti di vista sul mondo (Frabboni). Questa unitarietà ha fatto soffermare l’attenzione della progettazione sulla scoperta dei nessi tra i saperi, a volte individuati in modo consapevole e creativo, rimaneggiando le aree2 di apprendimento, riformulando gli obiettivi e riesaminando i concetti di trasversalità, multidisciplinarietà ed interdisciplinarietà alla ricerca di una continua integrazione tra le discipline. Superato il Documento dei Saggi del 1997 in cui si auspicava un insegnamento basato sui saperi essenziali, superata la riforma Moratti che di obiettivi invece ne presentava troppi, le Indicazioni Nazionali hanno declinato per ogni disciplina una serie di Traguardi, ed obiettivi che però non sono ancora stati metabolizzati dai collegi e che rischiano di disperdersi nelle trascrizioni all’interno dei Registri elettronici e nelle reinterpretazioni progettuali. Obiettivi di cui è sempre più tecnico e complesso il processo di valutazione per le necessità di personalizzazione in relazione alle difficoltà di apprendimento e di integrazione, per il proliferare della normativa, per l’impostazione differente tra i vari ordini di scuola. Valutazione che si articola in iniziale, periodica, finale, formativa, sommativa, certificativa nella cornice generale di livelli, indicatori e descrittori di livello e nella continua diatriba tra valutazione in decimi e valutazione con giudizi. 3 Nella molteplicità della trasversalità, della progettualità e delle valutazioni si sono perse così delle occasioni per rifondare la scuola italiana.
Prof.ssa Rosella Tirico Dirigente scolastico
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A questo nostro incontro sulla “politica” dovrebbero presiedere affabilità, schiettezza, lealtà, misura, costanza e generosità: almeno alcune di quelle piccole virtù che garantiscono una vita quotidiana solidale e operosa.
In diverso grado siamo cattolici, perciò sensibili alla questione politica, alcuni da molto tempo, altri sotto la pressione della crisi culturale, economica e politica che travaglia il Paese.
L’incertezza e la complessità dei giorni costituiscono per noi un segno dei tempi e una sfida da raccogliere e volgere a progetti di comune speranza.
Ci riferiamo prima di tutto al Vangelo, poi alle mediazioni della Dottrina sociale della Chiesa e alla Costituzione della Repubblica.
Il Vangelo non è un programma politico, ma luce che dall’alto incrocia e illumina le luci dal basso dell’analisi della realtà.
Le ispirazioni provenienti dal Vangelo e l’autonomia tecnica della politica, serbando intatte le proprie frontiere, sono per l’ordine della giustizia e della fraternità, della collaborazione e dell’unità.
Pare, a noi, che il magistero politico di don Luigi Sturzo, aggiornato, possa essere una profezia più efficace che nel passato.
Don Sturzo, precedendo pensatori laici ha teorizzato che la politica non può non fondarsi su valori trascendenti di origine religiosa.
Simili basi ideali non consentono a nessuna fede di perseguire una potestas mondana e a nessuna politica di farne un instrumentum regni.
Di conseguenza come don Luigi Sturzo operiamo perché sia evitata ogni forma di confessionalismo religioso e ci opponiamo a ogni tentativo di strumentalizzazione politica della religione.
Egualmente respingiamo la rescissione secolaristica della politica dalle radici ideali della religione.
È un dovere conoscere la storia della presenza cattolica in politica.
Tale storia registra discese in campo riuscite, fallimenti, presenze, ritiri, diaspora, dimissioni di coraggio, insignificanza e delega.
Riconosciamo che, divisi per anni fra cultura della mediazione e cultura della presenza, i cattolici hanno forse perduto il fuoco della profezia politica.
Non dimentichiamo la forza e il tormento testimoniali di politici cattolici quali furono De Gasperi, La Pira, Dossetti, Moro e Zaccagnini.
Una lente d’ingrandimento, ovviamente, va applicata alla storia dei politici cattolici anche lucani.
La concezione politica del popolarismo sturziano ci sembra adatta alla nostra stagione perché fondata su valori assoluti, sintesi di umanesimo e cristianesimo e, tuttavia, laica, aconfessionale, aperta agli uomini “liberi e forti” di ogni cultura positiva, e protesa a riforme concrete e graduali, e con la bussola centrata sul bene comune nell’accezione più autentica.
Più di altre visioni politiche il popolarismo sturziano ci sembra corrispondere alle attese di una società poliedrica e pluralistica in cui l’unità comprende rispettosamente le diversità.
Abita nel popolarismo sturziano la “grammatica etica” (Giovanni Paolo II) che, inscritta nella coscienza di ogni uomo, afferma il primato e la dignità della persona, la solidarietà, la sussidiarietà e il bene comune.
Il bene comune non è la somma dei beni posseduti dalle persone, ma l’insieme delle condizioni di vita che permettono lo sviluppo integrale sia delle persone sia della società, visto che gli individui sono ontologicamente esseri-in-relazione.
Il bene comune, non coincidendo con il mero benessere materiale, si allarga a beni essenziali come l’arte, la cultura, l’educazione, le dimensioni della spiritualità ecc. Per compendiare: mira alla maggiore “fioritura umana” (Amartya Sen).
Per bene comune intendiamo il bene comune possibile, attuabile solo attraverso dialogo e approssimazioni graduali alla mèta, perché ogni processo ha bisogno di tempi medio-lunghi.
Attenzione: i richiamati valori assoluti, basi della buona politica, devono accettare di riconoscere il consenso democratico e di operarvi come seme e lievito.
Nel confronto democratico la concezione politica del cattolico può essere sovrastata dalla forza numerica di altra visione su questioni di particolare delicatezza soprattutto etica. Fatta salva la conquista dell’obiezione di coscienza, si valuterà se scendere o no a patti col male minore per evitare il peggio, non rinunciando mai ai tentativi di rimediarvi col giusto.
Il popolarismo condivide solo un’assonanza onomastica col populismo che ne è il preciso contrario. Il popolarismo è l’antidoto più potente contro il populismo.
Il popolo chiamato in causa dal populismo non è l’intero popolo. L’omogeneità del popolo non è olistica: mai tale da escludere la sussistenza di minoranze che sono chiamate, come la maggioranza, a costruire il bene comune secondo regole che valgono per tutti.
Non sottovalutiamo il pericolo che il leader populista finisca per considerarsi l’unico rappresentante del popolo. Certo personalismo può essere tentato dall’esercizio dittatoriale del potere politico. Il leader populista, privilegiando il rapporto diretto con una parte maggioritaria del popolo, inclina a spregiare le istituzioni e la mediazione politica proprie della democrazia rappresentativa e delle sue regole.
Constatiamo che ogni populismo diffonde un imbarbarimento culturale di comportamenti e di parole.
La buona politica mentre affronta i problemi generali, non perde di vista le ricadute locali. Bisogna evitare da una parte un’astratta visione generalista della politica e dall’altra la gretta chiusura del localismo e del provincialismo.
È sempre tempo di res novae (Leone XIII). Ecco la necessità di un continuo riformismo. L’analisi della società e della sua economia deve essere assunta da una sintesi politica che stringa il principio di solidarietà e il principio di sussidiarietà.
La solidarietà non si riduce alla compassione e all’assistenzialismo, ma cura di rimuovere le disuguaglianze e le povertà. La solidarietà non sorge dalla “pietà”, ma dal “diritto”.
La sussidiarietà impone allo Stato di riconoscere, tutelare, coordinare e, se fosse il caso, limitare l’azione dei corpi vitali della società civile.
Centralizzazione e burocratizzazione ostacolano o addirittura annullano il principio di sussidiarietà.
L’affermazione del digitale può esaltare la sussidiarietà, ma può favorire anche la disintermediazione appunto delle realtà intermedie e la proliferazione di contrapposizioni superficiali.
Papa Francesco insiste sull’essenziale “cultura dell’incontro in una pluriforme armonia”. Perciò la buona politica invoca la partecipazione più estesa, attiva e responsabile dei cittadini all’azione politica.
Rifiutiamo il sovranismo: il sacrosanto principio di sovranità deve anche saper autolimitarsi per garantire l’unità ideale, economica e politica della nostra Europa.
Meridionali, dobbiamo vigilare perché i nostri valori specifici, per esempio la famiglia, il rispetto dell’autorità, la fedeltà all’amicizia e la pietà popolare non vengano abusati da nessuna malavita.
Dobbiamo temere che la nostra terra con i Mezzogiorni fratelli sia abbandonata alla deriva rispetto al Paese.
Non possiamo non pungolare i politici in azione, laici o cattolici che siano, perché si sottopongano a un regolare esame di coscienza e siano fattivi nel servizio. Ammettiamo pure che possano incappare in incertezze e in errori. Non ne tolleriamo l’opacità, l’interesse privato e l’ossessione elettorale.
La preoccupante complessità dei problemi esige che chi scende in politica si fornisca di una competenza adeguata e pratichi una formazione costante.
Hic et nunc, come ritrovarsi in molti e con molti homines bonae voluntatis a rinnovare una presenza in politica, tenendo conto anche di ogni valida esperienza che si delinei a livello nazionale? Quali i problemi per i quali mobilitarci? Quali la strategia più proficua e i compiti da svolgere senza procrastinazioni?
La nostra Regione, le nostre città non possono essere solo teatro ospitale di recite altrui ma devono essere laboratorio politico per il cambiamento, lo sviluppo e il bene generale cui hanno diritto.
Saverio Acito, Coordinatore provinciale Matera
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Ciao Giù, il libro voluto e progettato da Adele Terzano, e mirabilmente realizzato per i Cantieri Creativi con l’importante contributo artistico ed editoriale di Antonietta Aida Caruso, non è solo un vivo affresco di profonde testimonianze e poesie nel nome e nel ricordo di Giulio Rivera, il giovane Agente di Pubblica Sicurezza di Guglionesi morto tragicamente, come tutti i membri della scorta di Aldo Moro, nell’agguato di via Fani il 16 marzo 1978. Ciao Giù è uno scrigno prezioso in cui il dolore per una breve e luminosa vita, che non poteva e non doveva avere compimento nel sacrificio, viene sublimato e addolcito da alti vertici di Poesia, e diventa quella nobile Memoria che è il senso e la traccia del libro. Una Memoria che, riprendendo il termine espresso dal Sindaco di Guglionesi Mario Belotti nella sua Presentazione, va “riattualizzata” perché c’è bisogno, oggi più che mai, di riscoprire quel legame tra il presente e il passato richiamato dalla prof.ssa Anna Paola Tantucci, Presidente dell' Ecole Instrument de Paix Italia.
Ma poiché il futuro diventerà il presente per chi verrà dopo, non possiamo che sperare che il ricordo di vite così crudelmente spezzate, riesca sempre a riattualizzare i nomi e le storie di Giulio Rivera e dei suoi compagni di scorta, nomi che dovrebbero essere scolpiti nella memoria storica e collettiva del nostro Paese affinché diventino un puntello della vita e delle conquiste democratiche di un popolo, un esempio nella coscienza delle nuove generazioni.
Una Memoria che, col suo senso profondo di vite donate, immolate al dovere e al sacrificio, torni puntualmente a interrogarci su chi siamo, sui valori civili e morali che ci hanno generato e di cui ci siamo nutriti, a polarizzarci sulla strada che stiamo percorrendo e sulla direzione scelta.
Sono coetanea di Giulio Rivera e frequentavo a Roma l’Università La Sapienza in quei tragici anni di cui affiorano dolorosi ricordi, come i resoconti quotidiani di radio e televisione dell’agguato di via Fani con quei cinque nomi che lasciavano attonita e incredula la gente, come se una forza scellerata sembrava essere arrivata a portarsi via, insieme a quelle vite, la legalità, i principi dello Stato, qualcosa che si pensava inimmaginabile… O come il ricordo di quel 9 maggio in cui migliaia di persone, e io fra esse, si riversarono al Centro di Roma nella zona di Via delle Botteghe Oscure, di cui Via Caetani è una traversa, non appena quelle stesse emittenti fecero rimbalzare la notizia del ritrovamento del corpo di Moro in una Renault rossa.
Non dimenticherò mai il profondo smarrimento negli occhi di tanta gente mentre gli sguardi si facevano largo nella marea umana per fissare increduli quella macchina parcheggiata sul fondo della strada…
Non ho conosciuto Giulio Rivera ma conosco la sua storia, simile a quella di tanti giovani della nostra terra. Conosco quella valigia piena di sogni di un ragazzo che cammina spedito per le strade del suo paese, diretto a quella corriera, a quel treno che lo porteranno verso un futuro migliore… Immagino nella mia mente quel sorriso che era il suo emblema, riconosciuto da tutti quelli che gli stavano intorno, un'impronta indelebile sul volto sereno che ancor oggi nelle foto sembra esprimere un carattere solare e l' inossidabile fiducia nei giorni e nel tempo che verrà. Un sorriso che non si incrinava neanche davanti alla consapevolezza, in quegli anni di piombo, del rischio e della pericolosità dell’incarico per il quale lui, così giovane, era stato addestrato e poi scelto per valore e professionalità…
Ma in quel 16 marzo il calice che Don Nicola Mattia nella sua preghiera aveva chiesto a Dio Padre di allontanare da Guglionesi, si fermò qui invece per un’ imperscrutabile volontà divina, e Giulio Rivera, tre giorni dopo, ritornò al suo paese in una bara, accolto da tutti i guglionesani e circondato dagli onori istituzionali e dai gonfaloni di tutto il Molise.
Vorrei soffermarmi sulla figura di Esperina, la mater dolorosa di Giulio, una donna a cui hanno ucciso il figlio di ventiquattro anni, il ragazzo responsabile e maturo che aveva fatto l'operaio in fabbrica e poi aveva scelto con passione l'arruolamento in Polizia. Giulio aveva trovato la sua strada e, probabilmente, in quel piccolo mondo rurale era diventato l'orgoglio di due genitori contadini che si affaticavano senza sosta col desiderio e la speranza di dare ai figli un avvenire.
Il dolore di una madre che sopravvive al proprio figlio è inestinguibile, è l’atroce e quotidiana domanda rivolta al cielo sul destino della sofferenza più innaturale che possa esistere … Ma la vita di Giulio era stata recisa nel fiore degli anni non da un triste destino ma dagli uomini che si trovavano dietro le sbarre di quell'aula bunker del Foro Italico dove si svolgeva il processo Moro. E il dolore di Esperina, lì presente, sapeva quindi chi interrogare quando lei volle accostarsi a quella gabbia e guardare negli occhi silenziosamente uno ad uno coloro che avevano trucidato suo figlio a colpi di arma da fuoco in un agguato programmato.
Non ci furono risposte a quello sguardo… salvo forse quelle che può udire solo il cuore di una madre.
Ciao Giù.
Maria Carmela Mugnano
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È questa una sera speciale: celebriamo i Primi Vespri dell'Assunzione della Beata Vergine Maria o, secondo gli ortodossi, Dormizione della Madre di Dio. I libri liturgici bizantini inquadrano il transito e la glorificazione della Vergine nel mistero pasquale di Cristo stesso. La festa è preceduta dalla " piccola quaresima della Madre di Dio", un periodo di preghiera e di digiuno che inizia il primo agosto e in queste due settimane, di sera, si celebra l’ufficiatura della Paràklisis (supplica, invocazione, consolazione).
Nella versione arcaica risale al IX secolo.
Ognuno dei tropari delle odi inizia con l'invocazione: "Santissima Madre di Dio, salvaci!". Noi, insieme alla Vergine, ricordiamo un gigante della famiglia francescana e mariana, una figura eminente del cristianesimo e della cultura del Novecento, martire della carità:
San Massimiliano Maria Kolbe.
Nato in Polonia l’otto gennaio 1894 da Maria Dabrovska e Giulio Kolbe e battezzato lo stesso giorno col nome di Raimondo, san Massimiliano si erge quale colonna del Novecento, monito per un secolo pesante, tragico sotto molti aspetti. Passerà alla storia come secolo del sangue e della morte, degli orrori del nazismo e dello stalinismo, della secolarizzazione, dei falsi bisogni,
del pensiero negativo, del nichilismo, della perdita del senso, dell’indicibile, dell’ermeneutica del sospetto, della crisi, del decostruzionismo, della trasgressione.
Parole come: eccentrico, alienazione, angoscia, disincanto, pesante leggerezza dell’essere, perdita dell’autenticità, sottrazione del fondamento, pensiero debole hanno imperversato e ancora imperversano provocando guasti sociali e conseguenze ancora da verificare. Un puro di cuore, intanto, inizia il suo cammino di carità, e subito si manifestano in lui segni prodigiosi: è Massimiliano Maria. A dieci anni, in chiesa, mentre pregava, la visione della Vergine che gli porge due corone di rose: una bianca, la purezza, l’altra rossa, il martirio, corone che egli accetta pronunciando implicitamente il suo "Eccomi", offrendosi tutto intero, pronunciando il " Totus tuus", aprendo le braccia alla Croce. Inizia la via dell’evangelo che culminerà nell’offerta di sé al mondo e al cielo, fino al martirio, trionfo del bene sul male.
Uomo per gli altri. La formazione.
A 13 anni entra in convento; a 16 è novizio e assume il nome di Massimiliano Maria; a 18 anni va a Roma per studiare filosofia nell’Università Gregoriana e a 20 anni professa solennemente i voti. Solo venti giorni prima il padre era stato fucilato dai russi. Il 16 ottobre del 1917, a 23 anni, sempre a Roma, con sei fratelli del Collegio Serafico Internazionale fonda la " Milizia dell’Immacolata", eretta poi a " Pia Unione " nel 1922, il cui fine è "procurare la conversione dei peccatori, degli eretici, scismatici, infedeli, specialmente dei massoni, e la santificazione di se stessi e di tutti sotto il patrocinio della Beata Vergine Maria Immacolata e mediatrice, come si legge negli statuti.
Diventa profeta e apostolo della "Cavalleria francescana e mariana". Dopo un anno è ordinato sacerdote poi, finita la formazione, torna in Polonia. A Cracovia insegna nel seminario dell’O.F.M. Conv. ma si ammala gravemente di tubercolosi : ha 26 anni. Non si arrende, si cura e dopo due anni pubblica, a Cracovia, in 5000 copie, il primo numero della rivista " Rycerz Niepokalanej" (Il Cavaliere dell’Immacolata"), organo della Milizia dell’Immacolata. Insieme costituiranno le fondamenta delle future "Città dell'Immacolata".
Lavora febbrilmente mirando alla costruzione di un convento-tipografia. Compra un terreno nei pressi di Varsavia, a Teresin, non lontano dalla posta e dalla ferrovia e il 7 dicembre del 1927, Vespri dell’Immacolata Concezione, inaugura il convento diventandone Superiore. I monaci sono 20, ma più di mille vi lavorano. Il sogno della fondazione di un luogo di preghiera e centro editoriale è diventato realtà. La rivista, intanto, giunge ad una tiratura di 750.000 copie sparse in tutto il mondo. È nata la prima " Città dell’Immacolata ".
La missione.
È il 1930 quando padre Kolbe inizia la sua vita di missionario. Con quattro fratelli, tra cui fra Zeno, detto " apostolo del vento" per velocità e infaticabilità, parte per l’Estremo Oriente. A Nagasaki fonda un convento, il "Giardino dell’Immacolata", cioè seconda " Città dell'Immacolata "e una rivista mariana in lingua giapponese. Ma, instancabile nella sua azione apostolica, dopo due anni parte per l’India, la terra ove l’evangelizzazione ebbe inizio con Francesco Saverio, poi torna in Europa. Tra il 1932 e il 1936 si sposta ancora in Giappone dove fonda un seminario minore, quindi torna definitivamente in Polonia. Sei gli anni di attività nella terra dei ciliegi. Tenacia e coraggio lo contraddistinguono.
Chi oggi si reca in Giappone nei luoghi kolbiani troverà moderne costruzioni ove tutto è gelosamente e perfettamente conservato; sull’altare della nuova grande Chiesa, l'unica reliquia del Santo: una ciocca di capelli tra fiori profumati e, su quello che fu il suo tavolo di lavoro, due rose: una bianca e una rossa a ricordo del profetico sogno dei suoi dieci anni. Ma ecco l'anno fatidico, il 1939, quando la polizia tedesca si presenta nella " Città dell'Immacolata" arrestando lui e cinquanta amici e fratelli internandoli tutti nel campo di concentramento di Amtitz, presso Guben. Era la prima deportazione che durò tre mesi, terminati i quali fu permesso a tutti di tornare a Niepokalonòw. La " Città dell'Immacolata" fu allora aperta ai malati e agli sfollati di guerra; padre Massimiliano riesce finanche a far uscire un numero della rivista dove appare il suo ultimo editoriale dal quale estrapoliamo uno stupendo e significativo passo:
"Nessuno al mondo può cambiare la verità.
Benché non tutti amino la verità, tuttavia
soltanto essa può essere la base di una felicita duratura.
La verità è unica, la verità è potente, la verità è la felicità".
Alla ricerca della verità un'altra "pura di spirito", Edith Stein, dedicherà la sua esistenza, mutandola totalmente e sbocciando in Cristo, verità vera, fino al martirio, lasciando alla storia opere immortali, indicazioni totali ed assolute. Il modello, per entrambi, è Cristo, la Croce, la Madre delle madri.
Massimiliano Kolbe, numero 16.670
Il 17 febbraio 1941 l’epilogo drammatico: padre Kolbe viene arrestato dalla Gestapo con altri quattro fratelli anziani; il 28 maggio arriva ad Auschwitz col numero di matricola 16.670 e assegnato al blocco 17 dei lavori forzati. Il grande " tessitore del dialogo", il pacifista convinto, il grande intellettuale è solo un numero, Un numero e nient' altro. Tutto precipita. A fine lugIio un detenuto del blocco 14 A evade; scatta la decimazione: dieci vita per una. La condanna è morte per fame. Tra i dieci, un padre di famiglia che non vede moglie e figli da due anni, Franciszek Gajowniczek, sergente polacco. Padre Kolbe si fa avanti e si offre in cambio del sergente. All’ufficiale che gli chiede: "Chi sei?" stupendamente risponde: "Sono un sacerdote cattolico". Riflettete. "Sono un sacerdote cattolico". Quale risposta più grande?
Viene sepolto vivo nel blocco sotterraneo n. 13.
Il 14 agosto 1941, dopo tre settimane di digiuno durante le quali sei dei dieci reclusi erano morti, viene ucciso con " una iniezione di acido muriatico al braccio sinistro", braccio che da sé aveva offerto al carnefice.
Morì pregando, come è stato testimoniato dal segretario del capo tedesco Brunone Borgowiecz:
"il suo volto rimase sereno e bello, raggiante" egli disse.
Era il Vespro della Dormizione o Assunzione di Maria. Il giorno seguente, sempre nel segno della Madre di Dio, cui aveva dedicato la vita, la sua salma viene bruciata nei forni crematori del campo di Auschwitz. Una ciocca di capelli è salva. Visse anni 47 e giorni 218.
Dal bunker della morte, in quei giorni orrendi, si udirono canti. Un anno dopo, il 9 agosto, Teresa Benedetta della Croce, cioè Edith Stein, la più grande filosofa del Novecento, subisce la medesima sorte. Due apostoli, due colonne del Novecento non distrutte, perché fino al cielo sale la loro grandezza, il loro celeste intelletto, in quanto soprannaturalmente essi conobbero. Paolo VI, nel 1969, dichiara padre Massimiliano 'Venerabile', "victima caritatis"; nel 1971 lo proclama 'Beato'. Sarà Giovanni Paolo II, il papa polacco, il pellegrino di Dio che, il 10 ottobre del 1982, lo proclama 'Santo e martire per la carità', "Patrono del nostro difficile secolo". Sedici anni dopo sarà la volta di Edith Stein: è l’11 del 1998.
Edith è dichiarata Santa e compatrona d' Europa con Santa Brigida e Santa Caterina da Siena.
Sono un sacerdote cattolico
Vi assicuro, carissimi, che non è stato facile per me parlare questa sera; più volte la commozione mi ha sopraffatta o mi sono sentita sconvolta dall’orrore della storia. Che dire di coloro che, con "un unico paio di scarpe", come Zeno, come p. Kolbe, come Pietro, "il Principe del coro principesco dei discepoli del Signore" (G. Palmas, Alla monaca Xene), Angeli di Dio in terra, percorsero il mondo evangelizzando. Vite donate, offerte; vite di divine testimonianze, amanti della vita. Non a caso p. Kolbe è intercessore degli sterili, cioè pane di vita.
Esempi che travalicano il tempo: proiettandolo nell’eternità lo annientano. Uomini e donne di pace,
'intelletto di Cristo' (1 Cor 2, 16), simbolo di valori universali, creature edificanti perché, quando la follia omicida demolisce la vita, loro, attraverso l'immolazione, in comunione con Cristo, hanno capacità di riedificarla. Ed ecco che il Novecento, il secolo tragico, s' illumina di speranza e d'amore consentendoci di credere ancora nella vita, di avanzare co Cristo, unica Verità.
Sì, fu parola e canto ad Auschwitz, non morte. Ed è parola e canto giacché ancora, da quel sangue, fiorisce la Bellezza, l'ecumenismo, il canto. Ascoltiamo:
I SANTI MARTIRI DI AUSCHWITZ
Si videro brandelli di carne nella notte,
mute membra uscire dalla terra
brulicare nel silenzio.
E Angeli si videro, con le coppe,
versare mirra e sandalo.
Presso la Porta, Maria con gli Apostoli,
e un martire venuto da lontano.
Transitavano beati sul Monte
fra trepide stelle, sulla Via Lattea.
La Porta si spalancò
e il popolo di Dio invase la Cella.
Un canto si levò nella notte,
alto, solenne, tra le pietre:
"Padre nostro che sei nei cieli
sia fatta la tua volontà".
Sulla soglia un folle
domava il lupo affamato.
Cristina di Lagopesole
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Che rumore fa la legge sulla omotransfobia? ZAN! Il buon senso richiederebbe di legiferare il meno possibile su questioni etiche, che sono per loro natura affidate in prima istanza alla coscienza e alla responsabilità di ognuno. Così come lo esigerebbe il buon senso politico, almeno in una situazione di emergenza come la nostra attuale, in cui i fattori di divisione andrebbero congelati. Ma il buon senso in Italia manca. Ed ecco la legge Scalfarotto è un tipico caso di sofisma: dice di combattere la discriminazione contro gli omosessuali, ma in modo subdolo finisce per perpetrarla. Non esistono solamente gli eterosessuali è vero, ma nemmeno solamente le lesbiche, i gay, i bi e i transessuali del famoso acronimo LGBT. La legge poi assegna al gruppo diritti e tutele a tavolino, e prevede persino procedimenti giudiziari e pratiche amministrative. La legge sulla omofobia vuole, con la forza del diritto, imporre una mentalità. Le mentalità, invece, devono essere molteplici e conquistarsi un proprio spazio in un libero campo di discussione.
La nostra Costituzione stabilisce già il divieto di discriminazione fondata su condizioni personali; e il diritto penale punisce chiunque provochi lesioni alla dignità e alla libertà dell'essere umano, a prescindere dagli orientamenti culturali. L'omotransfobia ci pone davanti ad una discriminazione al contrario: non può manifestare il suo pensiero chi considera un valore la eterosessualità affettiva, basilare per la società, perché orientata alla generazione.
Inoltre, si parla di reati connessi al dire più che al fare. Perciò, punire chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione, significa utilizzare concetti indeterminati. E ancora, una cosa è credere di essere stati oggetto di maltrattamento, un'altra è esserlo stati veramente. La legge che tiene conto del primo punto, di quali riscontri oggettivi si fonda?
Noi cattolici promuoviamo il diritto ad una diversità e libertà di pensiero. E non possiamo mettere a tacere questa verità antropologica solo perché non collima col pensiero del mondo. Non possiamo accettare che una legge, perseguendo un obiettivo ideologico, metta a rischio la possibilità di annunciare con libertà la verità dell'uomo, sia pur con l'obiettivo di prevenire forme di discriminazione contro le quali è sufficiente applicare le disposizioni in vigore, unitamente ad una prevenzione non penale ma educativa, per scongiurare l'offesa alla persona, chiunque essa sia.
Nina Chiari
Centro Studi Leone XIII
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Care amiche, cari amici,
abbiamo prodotto un grande lavoro finora in Basilicata, uno sforzo notevole per costruire qualcosa di importante a vantaggio nostro e delle comunità nelle quali operiamo. E comunque è ancora poco. Il poco che abbiamo fatto e il molto che ci resta da fare sono una tendenza che ci accompagna e proprio non ci vuole lasciare: fare qualcosa di bene e di giusto, di stabile, di duraturo, non a vantaggio nostro direttamente ma a vantaggio di tutti. Perché costruire un partito di cattolici, con precisi progetti di vita e di società, non è solo necessario ma urgente. Qual è la tendenza del movimento cattolico in Italia e nel mondo? Proviamo a dirla in battute spicciole: fare il bene perché la bellezza risiede nel bene, operare per la giustizia perché è la via per arrivare al bene, produrre il bene perché la produzione consente una distribuzione giusta ed equa; in termini economici e di salario, è “la giusta mercede”, come scriveva Leone XIII.
Ora, noi pensiamo che il bene e il giusto rientrino nei progetti di vita che accompagnano la nostra filosofia di vita, la nostra visione del mondo. Perciò dobbiamo farlo questo partito di cattolici, è urgente. Sono stati perduti 27 anni da quando lo scudo crociato si è lasciato dissolvere perché quanti ne avevano la responsabilità di gestione si erano progressivamente indeboliti, in essi si erano rafforzate volontà e lotta di potere dei singoli proprio mentre il tutto, il partito, si sfaldava, più nessuno lo pensava come bene superiore rispetto ai beni inferiori che erano quelli relativi ai percorsi di potere personali. E invece i beni inferiori, i beni dei privati, possono sacrificarsi all’altare dei beni superiori (misura, forma e ordine indicati in sant’Agostino), beni comuni, perché da essi possiamo attingere e prendere: se manca la fonte, dove attingere acqua? Visione vetero o neo-comunista dell’economia? Sciocchezze. La fortuna storica della Dc, o una delle sue fortune, forse risiede nella nozione di interclassismo, cioè provare a tenere insieme non solo le anime differenti per sensibilità politiche, ma anche i ceti sociali, il ricco e il povero, il contadino con l’artigiano e il commerciante, borghesia e popolo insomma ma nelle questioni decisive la Dc sapeva da che parte andare. De Gasperi in soli due anni ha scritto e fatto approvare la riforma agraria: ha tolto una quantità di terreni ai latifondisti che avevano accumulato ricchezze per eredità familiari, condizioni storiche favorevoli, sfruttamento del lavoro (pensiamo alla mezzadria e al lavoro minorile) e li ha distribuiti ai poveri che hanno cominciato a vivere del proprio migliorandoli e sviluppandoli. In De Gasperi risiedevano il bene e il giusto, perché De Gasperi si era nutrito di principi etici e di valori forti: il pensiero cristiano che rende uomini e donne liberi.
Cosa dobbiamo fare noi oggi.
E’ sorta questa aggregazione straordinaria, la Federazione, un’idea lanciata dall’on. Publio Fiori circa 10 anni fa quando abbiamo fondato a Roma “Rinascita Popolare” (almeno io l’ho sentita pronunciata da lui la prima volta). E la Federazione Popolare dei Democratici Cristiani, costituita nell’ottobre scorso a Roma, è la nostra risposta alle domande più urgenti che salgono dalla società e dalle persone pensose dei destini comuni. Abbiamo dato tutti noi (Fiori, Cesa, Rotondi, Alessi, Grassi, Tassone e molti altri ancora e tra essi io stesso in rappresentanza del Centro Studi Leone XIII) all’on. Giuseppe Gargani, anche per autorevolezza, il compito di coordinare questo nostro movimento e condurlo progressivamente a partito. E’ stato l’on. Gargani a chiamarmi il 6 dicembre scorso, vigilia dei miei 70 anni, ed assegnarmi il coordinamento provvisorio della Federazione in Basilicata.
Cosa significa questa idea di Federazione costituita davanti al notaio.
Che in un tempo ragionevolmente breve tutte le nostre sigle si sciolgono, tutti avviamo il tesseramento, celebriamo i congressi sulla base di temi e di progetti che poi si dovranno rendere possibili entro tempi certi, eleggiamo i dirigenti di partito ai vari livelli, cominciamo a stabilire programmi strategie percorsi. E’ attraverso il tesseramento che potrà essere definita l’identità politica di ciascuno di noi.
Negli ultimi cinque/sei mesi, con il prof. don Cesare Mariano, abbiamo aperto un gruppo whatsapp per individuare e riunire persone su scala regionale (ora circa 100 amici ed amiche), cominciare a parlarci anche se in forma virtuale, in qualche modo individuare e definire aspetti di vita e problemi, più propriamente concreti per lo sviluppo della società e dell’economia e più propriamente etici indicandoli come non negoziabili. Cinque/sei mesi di lavoro anche durissimo, componendo anche un altro elenco più territoriale e più numeroso di amiche ed amici che preferisco tenere ancora riservato (“a pensar male è peccato ma qualche volta ci si azzecca”, usava dire il vecchio Andreotti). Un lavoro di individuazione e raccolta di amiche ed amici così animati che però ora deve avere un termine.
Noi sappiamo che oggi, questo periodo, non è indicato come tempo favorevole per fare assemblee, sia per questioni sanitarie, sia per stagione di vacanze dopo lunghi periodi di chiusura. Ma dobbiamo cominciare a capire se gli elenchi virtuali possono diventare reali ed in che misura. Dobbiamo cominciare a guardarci in volto e capire quanto siamo disposti a sacrificare del tempo per realizzare un progetto di vita e di società, quanto siamo disposti a rendere un fatto l’assunto ecclesiale teorico secondo cui la “politica è forma di carità umana”. Certo molti amici hanno prenotato, sono al mare, hanno altri impegni. Ma noi che siamo qui dobbiamo chiarire ancora meglio e ancora meglio precisare.
L’iniziativa di oggi è stata preparata ed organizzata dal Centro Studi Leone XIII, struttura associativa sorta da circa quindici anni anche con lo scopo di favorire ampie aggregazioni cristiane sul piano culturale in vista della formazione del partito dei cattolici, oramai divenuto urgente in questo grande deserto di idee e di progetti, un deserto entro il quale annaspano partiti senz’anima, gruppi cosiddetti politici sorti da manifestazioni di piazza privi di progettualità, rivendicazionismi anticristiani nel falso nome della libertà di corpo e di genere, un guazzabuglio di tesi avanzate da gente senza costrutto e senza pensiero.
E’ tempo che il pensiero cristiano, già forte di suo per storie millenarie, riprenda a tessere un nuovo corso di storia. Sarà storia di identità, di appartenenza, di sicure idealità e progettazioni mirate a fare dell’Italia e dell’Europa un unico grande popolo unito, solidale, amante non dei mercati finanziari che hanno prodotto il male, ma amante del bene, il bene comune, che il pensiero della Chiesa interpreta come il segno di una nuova età per la persona, per la famiglia, attraverso nuove sfide economiche. Economia civile, meglio disposta a favorire il bene.
Il tesseramento sarà l’inizio di un nuovo percorso. Dobbiamo avviarlo subito, dobbiamo avviarlo prima, dobbiamo avviarlo bene. Ma il tesseramento significa rinuncia al proprio orticello, in verità molto molto magro. Tante sigle nella Federazione, mi pare oggi una settantina (tra queste il Leone XIII), che prese singolarmente fanno lo zero virgola, ma tutte insieme fanno una cifra, forse anche due. “Solo se siamo uniti siamo forti, se siamo forti siamo liberi di agire”, l’assioma di De Gasperi. Il nostro pensiero è già forte, dobbiamo solo manifestarlo. Se lo manifestiamo insieme e realizziamo un fatto siamo un gruppo libero. E da chi?
Siamo stati, in questi 25 anni di assenza ingiustificata della Dc come partito dei cattolici, sotto una cappa crescente di capitalismo finanziario incurante dei destini della persona. L’Italia ha ceduto spesso sovranità politica, perle e beni economici per renderli privati in assenza di capacità di gestione. La nostra forza economica si è lentamente indebolita per scarsa capacità competitiva poiché siamo stati scaraventati nei mercati economici e finanziari selvaggi senza regole. Abbiamo dato forza ad una Europa senza definizione e senz’anima dunque un’Europa ingiusta tale che oggi noi stessi europeisti facciamo fatica a farla digerire ai nostri stessi amici. Abbiamo rinunciato a definirla nelle sue radici storiche, abbiamo avuto paura di dirci cristiani. Ci aveva avvertiti papa Ratsinger. Se l’avessimo detto e scritto, avremmo dovuto comportarci per conseguenza. Invece l’Europa oggi è crogiolo di popoli sì, ma di interessi, spesso contrastanti, anzi la povertà di uno stato membro è ricchezza per un altro stato membro, grandi interessi finanziari disinteressati al popolo. Che fare, lasciare l’Europa?
Nossignori, l’Europa è un bene grande, è una storia unica, in Europa le radici cristiane sono solide, basti pensare a quante bandiere di stati europei hanno la croce come simbolo. Il tema Europa va riscritto nella sua forma più autentica. I trattati vanno riscritti. Occorre in Italia una forte presenza, un forte partito di cattolici. Noi li riscriveremo quei trattati. E daremo lezioni efficaci a questi partiti che in 27anni hanno abbandonato il popolo e si sono consegnati ai mercati finanziari. Noi riscriveremo i trattati. Con un segno distintivo come il nostro, si vince.
Ciò che noi faremo ora in Basilicata, dopo la pausa estiva, dovrà essere discusso, costruito, pianificato. E occorrerà il contributo di tutti. Saremo nei territori, a Matera, nel Lagonegrese, in Val d’Agri, a Potenza. Incontri territoriali per spiegare cosa vogliamo fare, e intanto cominciare a formare la nuova classe dirigente. Perché noi, a partire dalla mia generazione, possiamo per ora fare da battistrada, ma poi accompagneremo, formeremo, faremo gli operai, come dice l’amico Dario De Luca, sindaco di Potenza fino allo scorso anno.
E ci troverete, e ci vedrete, col notaio Zotta, con l’ing. Acito, con il dott. Perri, con il dott. De Trana, con gli on. Lamorte e Molinari, a Rionero con Giulio Paolino, noi e tanti altri a coltivare un terreno che poi quelli più giovani ne raccoglieranno i frutti.
Questo nostro movimento in Basilicata l’abbiamo pensato in questa fase libero, molto libero, con molta autonomia. Ogni comune dove si vota può – a mio parere dovrebbe – presentare lista col nostro simbolo, approvato in sede di Federazione, Scudo Crociato e la scritta Unione Democratici Cristiani. E a Matera, gli amici in piena autonomia sono liberi di scegliere alleati, centrosinistra o centrodestra, ho dato ampie rassicurazioni all’amico Saverio che non ci saranno interferenze.
La nostra idea è che interferenze non ci saranno mai, né dal nazionale, né dal regionale, né dal provinciale. L’autonomia di scelte e di decisioni sarà garantita. Tra l’altro, in questa fase, pare inopportuno che il coordinamento nazionale intervenga nelle regioni per non pregiudicare successive intese o definire strategie politiche nazionali. La nostra posizione è chiara, e lo ribadirà il nostro coordinatore nazionale: non abbiamo scelte di campo preconfezionate, né con la sinistra e né con la destra, formazioni che oggi più che mai sono alternative alla nostra visione della politica e della società in genere. Ma stabilire alleanze, definendo gli ambiti strettamente vincolanti legati alla nostra formazione e al nostro progetto di vita, sarà imperativo categorico per tutti. Vi sono questioni fondamentali che per noi non sono negoziabili.
Cosa possiamo chiedere agli amici che sono con noi o a noi si avvicinano per condividere un percorso. Se ancora non ci fossero le condizioni poste dal coordinamento della Federazione, noi proporremo comunque un tesseramento per quest’anno, ognuno di noi la tessera della Federazione, fermandoci agli aspetti congressuali solo nel territorio regionale. Un augurio: l’amico Peppino Gargani convinca i più riottosi a lasciare i propri simboli e tutti insieme, uniti, finalmente uniti, costruiamo il nostro partito. Abbiamo fatto grandi passi in avanti, ce n’è un altro solamente. Il Partito unico dei cattolici, chiamando tutte le altre sigle ancora sparse, Rete Bianca ancora in formazione e Solidarietà Popolare del mio amico Giuseppe Morelli di Roma, questa in verità già pronta e già meglio definita. Un grande sforzo di unità. Divisi siamo deboli, uniti siamo forti. Con una matrice fondamentale, sia chiama etica di vita. “L'etica equivale alla metafisica, perché l'unica filosofia possibile, l'unica possibile conoscenza, è quella dei princìpi primi dell'agire morale” (Emmanuel Lévinas, 1906-1995).
Pasquale Tucciariello
Rionero, 18 luglio 2020
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Una proposta la nostra, un’idea che possa ribadire, in un nuovo contesto storico, in forme nuove, la sua autenticità. Noi cattolici scommettiamo sulla continuità di una cultura, di un progetto, sull’originalità e sulla forza di un albero che va certamente rinnovato, ma che ha ben salde le radici. Nella discontinuità di fasi temporali che, da don Sturzo a De Gasperi a Moro, segnano l’esperienza dei cattolici democratici, attraverso una vicenda complessa, limitata severamente ma esaltante laddove si sono poste le basi della democrazia e della libertà degli Italiani, persiste un nucleo di valori che fonda ed esige la continuità di una esperienza straordinariamente ricca nella sua dimensione popolare. Questa idea, che ci viene da don Sturzo, conserva ancora oggi una vitalità inesausta se risponde a questo contesto storico, ne esprime e ne sostiene la domanda impellente. Questa idea, visione, interpretazione del mondo che indirizza i progetti e le azioni della politica, è capace ancora di offrire risorse morali, intellettuali e politiche insospettate ed avanzate.
L’idea di don Sturzo è l’ideale, cioè un’aspirazione carica di valori, un orizzonte che va oltre l’istante; è ciò che sostiene un impegno caricandolo di senso per chi vi aderisce e lo assume in prima persona.
L’idea ha senso in tanto e in quanto si misura con il divenire quotidiano, con ciò che segna la vita delle persone, di ciascuno e della comunità.
Costruire una nuova fase dei cattolici democratici significa rendere concreta la concezione dell’uomo, della vita, della storia, e prima ancora sottrarre la politica alle grinfie del relativismo per assicurarle un fondamento stabile e sicuro, che conferisca al sistema politico, impegnato nella corsa al compromesso, una struttura in grado di esprimere quella dialettica oggi sopraffatta da un contenzioso politico infingardo e privo di cultura.
In un tempo di crisi politica come quello che il nostro Paese attraversa, diventa attuale la proposta di autonomia di don Luigi Sturzo, per intraprendere un percorso che dia attenzione alle autonomie locali. Per Sturzo si trattava di risanare l’ambiente amministrativo, migliorare i servizi pubblici, costituire il Comune centro della vita sociale democratica della cittadinanza, sollevare le sorti delle classi lavoratrici. Così l’ente comunale, libero dal controllo della macchina burocratica statale, poteva divenire incentivo alla crescita di una classe dirigente autonoma e impegnata tanto in politica quanto nelle imprese economiche e sociali. Il Comune si presenta così come il migliore distributore delle energie dello Stato.
In realtà l’obiettivo di Sturzo era quello di avvicinare il cattolicesimo italiano dell’epoca alla questioni sociali e politiche, sulla scia della Rerum Novarum di Leone XIII che aveva aperto una stagione di riflessione e di impegno nei territori, che condusse la Chiesa all’apertura verso le questioni sociali moderne. In una situazione nella quale il non expedit impediva ai cattolici di intervenire direttamente nelle vicende politiche dello stato unitario, don Sturzo preparò il terreno per la nascita di un progetto politico cristianamente ispirato che prese il nome di Partito Popolare. Partito fondato per avanzare un programma basato sui valori democratici in grado di tradurre nella società, ormai plurale, le peculiarità sociali del messaggio cristiano.
Nella nostra epoca occorrono politiche capaci di valorizzare le peculiarità dello scenario globale.
Sotto la spinta di quella che negli anni ’60 è stata chiamata “rivoluzione sessuale” – e che dagli Stati Uniti è stata esportata in tutto il mondo attraverso la globalizzazione culturale – i valori che i cristiani hanno sempre ritenuto intoccabili sono stati rivoluzionati, capovolti, in particolare quelli legati alla famiglia e alla riproduzione, alla vita e alla morte.
L’impegno dei cattolici urge sul fronte etico ed economico sociale, quindi in politica.
Penso alle questioni di fine vita, con l’aggravio delle condizioni drammatiche vissute là dove vi sono malati terminali o inguaribili. Penso alle questioni della scuola e dell’educazione dei figli, tema che chiama in causa la famiglia e l’intero sistema educativo. Il lockdown pare aver relegato la scuola al ruolo di un servizio pubblico accessorio, un bene non essenziale e quasi rimandabile sine die. Si è vissuto alla giornata, guidati dall’effimero slogan dell’andrà tutto bene, sperando in una sorta di magia che riportasse a posto ogni cosa. La scuola ha bisogno di risorse economiche, e prima ancora di un riconoscimento sociale. Bisogna allora aprire la strada alle autonomie regionali e non a decreti nazionali che non possono avere uguale attuazione in ciascun territorio, laddove urge alleanza educativa tra scuola e territorio.
Penso al gender e alla legge sull’omofobia. Legge sull’omofobia che non ha nulla a che vedere con la rivendicazione dei diritti sociali che rappresentano il cardine della famiglia. Famiglia che si andrà a scomporre e a ricomporre abbandonando l’intreccio fra la relazione sponsale e quella genitoriale; si può essere genitori mediante l’uso di tecnologie riproduttive, fino al ricorso alla maternità surrogata. Si parla di surriscaldamento del pianeta, e mai di surriscaldamento della famiglia che, stravolgendo la natura umana delle relazioni nel passaggio da natura a cultura, porta a distruggere le basi di una intera civiltà.
Penso alla necessità di dare un senso alla vita, alla persona, alle relazioni pubbliche e private. Penso alla libertà, diritto dovere e valore, di cui ci stanno privando coloro che assumono responsabilità pubbliche restando però in relazione con un soggetto che mantiene le fila del nostro destino, del nostro “umano”, tra le proprie mani.
Nel pensiero cristiano la libertà è uno spazio interiore da costruire, nutrire, coltivare, preservare, e nel quale ospitare l’autonomia critica e la responsabilità personale di ciascuno. Sta qui la radice e il motore della trasformazione. E’ questa la condizione sine qua non perché una società sia governabile. Perciò, credo fermamente che i cattolici debbano edificare un punto d’incontro da cui partire per approfondire i contenuti di un’azione pre-politica di formazione, in modo da essere coesi dalla forza dei valori non negoziabili. L’obiettivo è pensare ad un cittadino nuovo, ad un uomo che lavora che costruisce che intraprende. Perché il mondo cattolico non è tra i benpensanti di circoli di vip o di snob, ma nelle esigenze di questo mondo.
E’ diagnosi condivisa che siamo minati dalla dissoluzione del legame sociale, siamo governati dalla religione del denaro. La promessa al popolo è sempre felicità e godimento, la realtà è la semina mortifera di smarrimento, rassegnazione, aggressività, solitudine. Una semina che grava minacciosa sulle incolpevoli generazioni appena arrivate.
La buona politica sturziana era volta al bene comune, che garantisce il benessere per l’altro e per noi stessi, praticando quella che oggi chiamiamo economia civile.
Essa si basa su alcuni punti fondamentali:
- Costruire relazioni fondate su fiducia, cooperazione e reciprocità, in modo da generare quel plusvalore che nasce dal lavorare insieme di gruppi o di persone.
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Favorire la nascita e accompagnare imprese generative, capaci di coniugare creazione di valore economico e di impatto sociale e ambientale positivo.
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Valorizzare e organizzare le risorse umane a disposizione.
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Comprendere che non dobbiamo sperare che arrivi il governo giusto per cambiare il mondo. Il mondo lo cambiamo noi insieme a politici lungimiranti e ad imprese responsabili.
Noi cattolici dobbiamo lavorare per realizzare questo cambiamento, cercando buone pratiche e promuovendo momenti di incontro tra persona generative nel nostro territorio, e rafforzando reti che diano valore e visibilità alle iniziative locali.
L’economia civile è quella che fa sentire inclusi tutti quanti e che parte dai bisogni concreti e quotidiani, li condivide e porta a soluzioni che migliorano le vite di tutti i partecipanti all’azione – i famosi cittadini attivi – e di cui beneficia una intera comunità.
Nella vita di tutti i giorni l’economia civile si realizza attraverso la divisione e condivisione del lavoro, con la specializzazione delle mansioni produttive in base alle caratteristiche di ciascun individuo, e che porta a scambi commerciali interni al sistema, basati su quanto realmente serve e su quanto una comunità è realmente in grado di produrre. E’ questo il concetto sul quale si basa lo sviluppo economico sostenibile, che abbiamo il dovere di rendere forte nel suo messaggio di garanzia per il futuro delle nuove generazioni.
L’economia civile soffre per mancanza di pensiero, di coscienza civica e di virtù civile.
Ricordiamo che per gli umanisti la sola vera virtù è la virtù civile, la sola vita veramente umana è la vita activa. L’economia civile di Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, Vico, Genovesi, Smith, ha continuato a scorrere, come un fiume carsico, nel sottosuolo delle dottrine economiche ufficiali; in alcuni momenti è riemersa, alimentando il pensiero di economisti come Marshall; ma l’economia civile, quella che tende le mani a giustizia e solidarietà, deve ancora essere scritta.
Noi possiamo farlo, guardando ai Lander della Germania. I lander hanno permesso lo sviluppo di una forte identità regionale come qualcosa che si costruisce nel tempo, sulla base della volontà di condivisione di determinati principi. Il federalismo tedesco riesce a salvaguardare la diversità regionale e facilita l’identificazione del cittadino nelle singole regioni con l’amministrazione politica e la configurazione del suo ambiente. Fondamento del federalismo è il principio di sussidiarietà, in una scala che parte dal singolo e arriva allo Stato federale, passando per il quartiere e per la città, e prosegue nell’Unione Europea e le Nazioni Unite. I lander sono autonomi nell’amministrazione, ciò che è espressione della libertà dei cittadini. Nel diritto di amministrazione autonoma rientra il trasporto pubblico locale, la costruzione di strade comunali, il rifornimento di energia elettrica, acqua e gas, lo smaltimento delle acque di scarico e la pianificazione urbanistica. Vi sono comprese la costruzione e la manutenzione di edifici scolastici, teatri e musei, ospedali, centri sportivi e piscine. Ovviamente spetta ai Comuni il gettito delle imposte locali.
Noi abbiamo sempre più ricchezza, ma siamo sempre meno felici, proprio come tanti Re Mida che muoiono di una fame che l’oro non può saziare. In buona sostanza, utilità e felicità non sono la medesima cosa, perché la prima è la proprietà della relazione tra uomo e cose, la felicità invece è la proprietà della relazione tra persona e persona. La produzione e il consumo sono certamente necessari. Ma le società di oggi non sono sufficientemente avanzate, perché non consentono, nei fatti, una vera libertà di scelta, la quale non è semplicemente la scelta all’interno di un menu preconfezionato, ma è, in primo luogo, la scelta dello stesso menu. Sta in questo il senso ultimo della proposta dell’economia civile.
La situazione attuale è complessa e profonda. Bisogna tornare alle spinte, ai fermenti, ai movimenti che si sono accesi e intrecciati attorno a don Sturzo. Qua e là si è ripreso il tema del movimento politico dei cattolici come fiume carsico che scompare e ricompare poi più a valle. Il fiume carsico è riemerso, inquinato da anni di divisione e di diaspora, ma le sue acque, abbondanti e ricche, vanno depurate e rese potabili e idonee a fertilizzare la terra con una coraggiosa rilettura dei principi della Dottrina sociale della Chiesa, declinati alla luce delle esigenze di oggi e soprattutto di domani. Declinati in una più ampia visione del bene comune da costruire e da raggiungere.
E’ dal basso, dai territori, dalle regioni, dai comuni, dai problemi concreti che dobbiamo riprendere il cammino.
Manca una visione di lungo periodo. Seneca nelle Lettere a Lucilio scrive:<<Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare>>. La storia è un grande fiume, che oggi sta percorrendo un’ansa a gomito e il suo corso sembra tornare indietro. E così i naviganti che lo percorrono con la loro zattera vedono il sole tramontare alle loro spalle, e sono presi da timore. Dove li sta portando la corrente? Ogni fiume va verso il mare, e i naviganti non possono distogliere lo sguardo dai grandi maestri e padri fondatori di un pensiero forte cristianamente ispirato, per comprendere che il nuovo che avanza è diverso dal vecchio già vissuto, ma hanno un unico denominatore comune: la grande tradizione del cattolicesimo politico italiano, che non è lievito insipido posto sulla massa, ma lampada posta sul moggio della storia.
La società italiana ed europea vuole sì continuità fedele, ma esige anche progetti politici coraggiosi e lungimiranti, capaci di confrontarsi con il mondo globalizzato. Un progetto politico innervato in un partito conforme ai principi della Dottrina Sociale della Chiesa, declinato alla luce del nuovo che emerge e avanza.
I movimenti di rinascita sono sempre partiti da piccoli gruppi o da grandi solitari. Solo l’inerzia può portare il mondo attuale alle ultime conseguenze della sua demenza.
Primo Levi ebbe a chiedere:<<Se non ora, quando?>> E’ questa l’ora. In pochi o in molti, insieme andiamo avanti con la nostra zattera, con entusiasmo con passione con coraggio, e seguendo la rotta segnata da don Sturzo ma con uno sguardo nuovo sulla storia e sul mondo, torniamo ad essere popolari. E il sole tramonterà di fronte a noi.
Nina Chiari
Centro Studi Leone XIII
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L’esperienza della malattia, del dolore, della sofferenza, è sempre un momento puramente individuale, costituito di paure, dubbi, aspettative, domande anche mute perché ingombranti, che i protocolli scientifici, nonostante gli straordinari traguardi raggiunti dalla medicina, non riescono totalmente a soddisfare. La narrazione dell’esperienza di malattia, che comprende la relazione tra medico e paziente, si può e si deve affiancare ai dati oggettivi della patologia, in una visione integrata e non di certo alternativa. È infatti nello sviluppo della capacità narrativa, che risiede la possibilità di incontro, di condivisione, di partecipazione, e quindi di reciproco aiuto. Si tratta di storie che parlano essenzialmente di persone malate, e non meramente di pazienti o ammalati; di anime, di coscienze e non di corpi lesionati; storie attraverso le quali riflettere sul significato di salute, malattia e cura, per comprenderne il senso autentico. La biologia richiede la complementarietà perfezionante della biografia; le cause naturali della malattia si intrecciano con i loro significati personali, i risvolti sociali, le scelte organizzative e le politiche sanitarie. Un ruolo fondamentale rivestono anche le condizioni ambientali, culturali e socio-economiche, per cui, se a livello individuale si richiede un crescente impegno delle persone nelle scelte di cura, a livello collettivo è necessario che in tutte le decisioni politiche, vi sia una rigorosa attenzione alle conseguenze sulla salute. In questo contesto, l’obiettivo essenziale della medicina narrativa, è quello di rendere di qualità il rapporto tra medici e pazienti, ed anche rispetto all’organizzazione sanitaria. La sanità, ormai da molti anni, sembra essersi orientata più alla spending review che a nuove frontiere di cura. La crisi economica, la corsa ai tagli di spesa, la progressiva erosione della nostra idea di welfare e quindi conseguentemente di società, ci hanno lasciato in mezzo ad un guado, che ora sentiamo l’urgenza di delimitare.
Oggi, infatti, di medicina narrativa si parla sempre di più. Questa novità si sta trasformando in una risorsa, una necessità, la chiave di volta; uno strumento per fare diagnosi più accurate proprio dando voce alla singola soggettività sofferente, per lasciare spazio appunto alla biografia oltre che alla biologia, una nuova filosofia di cura, un porto dove indirizzare una sanità che, costando molto di più di quanta salute produca, sta andando alla deriva. È necessario quindi tornare all’essere umano, alle sue parole, alla persona malata prima che alla malattia; bisogna uscire da quel meccanismo perverso che si affida molto alla TAC e poco o niente all’ascolto. Solo una parte minoritaria del nostro essere in salute oppure malati dipende infatti dal patrimonio genetico e dal complesso dei sevizi sanitari, mentre la maggior parte della torta, dipende dall’ambiente in cui viviamo, inteso come luogo fisico ma anche se non soprattutto come sistema di relazioni, di condizioni morali, psichiche, culturali, socio-economiche. Ha senso concentrare le risorse sulla fetta più piccola, dimenticando se non aggravando quella più grande? Un medico autentico dovrebbe saper ascoltare, integrare, relativizzare, sentire con il cuore e comprendere con la mente, essere in grado di stare in relazione costante con il contesto in cui agisce, e, quando necessario, mostrarsi anche un filosofo ed un poeta. È una navigazione meravigliosa il cammino che attende il medico persona e non meramente il medico scienziato, lieve e profonda, con approdi inaspettati, dove ci si sorprende spesso a sostare in quella baia finale in cui non c’è più distinzione tra medico e paziente, fra chi ha la conoscenza e chi la subisce, ed in cui si può scoprire che nel viaggio della cura, il timone lo abbiamo in mano noi stessi in quanto persone. Storie di persone che soffrono quindi, non di pazienti, di casi clinici, come sono soliti incasellare i medici nella letteratura scientifica, per accrescere e diffondere il sapere clinico; ma soprattutto vicende umane e sociali.
Ogni storia è un sedimento di competenze mediche, di preferenze e scelte personali, di intrecci quanto intricati talvolta, di relazioni familiari, di impatto con l’organizzazione sociale dei sevizi sanitari, di idealità etiche e condizionamenti mercantili. Nella narrazione si fondono pertanto il sapere della mente, quello che cresce con la lunga pratica del rigore scientifico così come è promosso dalla medicina che pretende di basarsi sull’evidence ovvero sulle prove di efficacia, ed il sapere del cuore. Freddo il primo, caldo e coinvolgente il secondo. Ed è proprio la narrazione, tra i due saperi, a fare da ponte. Si sposano così la medicina che conta e quella che racconta, la medicina con le più rigorose esigenze di scientificità e quella che si fregia della qualifica di narrativa. Un lungo cammino ha presupposto questo modo nuovo ma autentico di concepire la medicina. Sotto i nostri occhi ha avuto luogo non solo un progresso strepitoso dell’arte medica da un punto di vista delle conoscenze scientifiche e delle acquisizioni tecnologiche, ma anche uno stravolgimento delle regole del gioco alle quali si attenevano sia i curanti che i pazienti che ricorrevano ai loro servizi. I tre giocatori, medici, pazienti, amministratori della sanità, hanno rimescolato le carte del potere: il paternalismo assoluto del medico (l’unico che sa e che decide cosa fare per il bene del malato, a cominciare da quello che questi deve o non deve sapere) ha dovuto riconoscere i diritti della persona (niente su di me senza di me); il soggetto malato ha potuto così uscire da una condizione di minorità che giustificava quasi una regressione infantilizzante, per assumere un ruolo attivo, carico di responsabilità (empowerment del paziente); l’aziendalizzazione delle strutture sanitarie ha aperto un capitolo nuovo, nel quale l’organizzazione dei servizi si è dovuta confrontare con esigenze di giustizia sociale, efficienza ed economicità. Alla fine di questo percorso, i medici hanno riconosciuto che una medicina propriamente tale, si deve misurare con le seguenti tre esigenze: fare le cose giuste (quelle che procurano un beneficio dimostrato al paziente), nel modo giusto (trattandolo da adulto e rispettando le sue scelte), con giustizia (evitando le discriminazioni e rispondendo al bisogno di tutti quelli che hanno diritto nell’ambito dei Livelli Essenziali di Assistenza). Tre criteri per sapere se quello che si fa risponde o meno alla natura propria di una buona medicina, tre criteri che devono essere contemporaneamente presenti nell’orizzonte del medico che si sintonizza con l’etica del nostro tempo, e che manifestano la complessità delle decisioni nella medicina contemporanea. Il diritto della persona malata alla piena e corretta informazione sulla diagnosi e sulle possibili terapie, il tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e quindi alla relazione considerata come tempo di cura, pongono così in discussione una medicina limitata al fare il bene del malato, indifferentemente dalla posizione che il paziente assume nel rapporto di cura. Si tratta di un cambiamento radicale ormai in atto nella pratica medica; non è un’aspirazione irrealistica, ma proprio quell’unica etica medica su misura della cultura dei nostri giorni. L’agire professionale quotidiano, non dovrebbe mai distogliere dal riflettere sul significato profondo dell’essere medico, del fare il medico; si diventa medico non solo perché si ottiene una laurea, ma anche e soprattutto grazie al rapporto con le tante persone e le loro storie che via via si incontrano.
È fondamentale ripercorrere il senso di una professione che in questi anni sta attraversando un intimo cambiamento, nell’unico modo in cui è possibile attraversare questa trasformazione interna, cioè cercando di capire il significato che ha quell’esperienza irripetibile che è la relazione e l’incontro con l’altro; un altro che esprime una domanda di cura nei modi più diversi, che il medico per necessità deve classificare ma della cui unicità non dovrebbe mai dimenticarsi. La medicina basata sulla narrazione, riportando al centro il paziente in quanto persona e la sua storia, permette al medico anche di riflettere sul proprio sé, sul proprio viaggio nella professione, e di ripensare anche il rapporto con i colleghi e gli altri operatori sanitari, nonché con il pubblico e la società più generale di cui riconquistare quella fiducia oggi sempre più in crisi. Alla parte di verità che si basa sui dati empirici, il linguaggio aggiunge una prospettiva diversa, utile per la comprensione; il contributo principale di una storia è quello di indurci a pensare in modo differente, e solo pensando che qualcosa possa essere fatta anche diversamente, è possibile cambiare il modo in cui le cose accadono. Di fatto una storia può aprire ciò che la cultura dominante chiude, una storia permette, consente e non impone, non obbliga. Le parole assumono dunque un’importanza strategica, in un mondo, quale quello della medicina e della sanità, dove nell’interruzione qual è la malattia, che si accentua con il passaggio dal fuori (la città, la propria abitazione, il lavoro) al dentro (l’ospedale), proprio la parola può offrire gli elementi di continuità fra la vita prima della malattia e la vita nella malattia. Così, anche la sanità comprende sé stessa come un mondo di segni, di significati, e quindi di parole da ascoltare ed interpretare, con responsabilità, perché spesso non sono sempre utilizzate con competenza ed adeguatezza rispetto ad un contesto così delicato come quello sanitario. Se i medici devono stare tantissime ore chiusi sui libri a studiare ogni forma di disease, di malattia intesa come patologia oggettiva, devono altresì essere capaci di prestare molta attenzione alla illness, cioè alla malattia vissuta soggettivamente come infermità, ed anche alla sickness, quindi ai riflessi sociali della malattia, ai risvolti che questa implica nelle varie relazioni tra il paziente ed il suo mondo. D’altra parte, come possiamo continuare a pensare ed a praticare la medicina, la più umana delle scienze, secondo fredde modalità tecniche e per questo sempre più lontane dall’uomo? Come possiamo immaginare che la salute consista soltanto nell’avere i parametri di laboratorio all’interno dei limiti della norma, e che guarire da una malattia significhi meramente riparare un danno biologico, senza farsi carico di quello esistenziale? Come possiamo non riconoscere la sostanza doppia, anfibia degli esseri umani, non solo natura, corpo come insieme di organi ed apparati ma anche cultura, storia, vissuto, caratteristiche uniche per ognuno, difficilmente spiegabili e comprensibili con le sole scienze empiriche? Non bisognerebbe mai rinunciare ad esercitare il pensiero critico, a mantenere sempre aperta quella forma mentis, quell’atteggiamento culturale che con rigore metodologico non esclude nessuna ipotesi. Nella ricerca del sapere è necessario sempre evitare di essere guidati ed ostacolati da qualunque tipo di fede, compresa quella che sostituisce all’assoluto delle religioni quello della scienza. È indispensabile considerare sempre il dubbio come un fedele compagno di viaggio, unica energia propulsiva per muoversi verso la conoscenza. Durante gli studi, il futuro medico legge ed impara tante nozioni di biochimica, biologia, fisiologia, anatomia, patologia, ma dovrebbe sempre cercare di vedere l’ammalato non solo come oggetto di indagini tecniche e tecnologiche, ma anche e soprattutto come soggetto di esperienze. Ecco quindi perché, come si accennava precedentemente, la biologia richiede sempre il contrappunto della biografia; le cause naturali della malattia si intrecciano con i loro significati. Dopo aver declinato le varie accezioni del termine malattia nella lingua inglese, è opportuno a tal proposito richiamare Jaspers e la sua idea di vedere il corpo fisico (Korper) come indissolubilmente legato al corpo vivente (Leib).
Il medico dovrebbe trovare il tempo, tra un testo scientifico e l’altro, di leggere non solo quanto questo grande filosofo ha scritto in tema di filosofia della medicina tra spiegazione causale e comprensione dei significati, ma di accostarsi anche ad un altro grande pensatore tedesco del secolo appena finito, Gadamer, che ricorda come la medicina sia un pensare che non è mai del tutto indipendente dal fare. Jaspers, psichiatra e filosofo, già negli anni cinquanta del novecento, quando certamente l’impatto della tecnica non era neanche lontanamente paragonabile a quello odierno, ci metteva già in guardia sulla progressiva riduzione della dimensione relazionale della medicina, sempre più sovrastata dal progresso tecnico. Gadamer, a sua volta, ha attraversato tutto il ventesimo secolo considerando l’ermeneutica, la terra di confine tra verità e interpretazione, fra conoscenza e pregiudizio, il punto nodale della propria ricerca filosofica, approfondendo in modo particolare la riflessione sulla scienza moderna e la sua pretesa di universale ed assoluta oggettività. La salute, per Gadamer, non è precisamente un sentirsi ma un esserci, un essere al mondo, un essere insieme agli altri uomini occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita. Rita Charon, fondatrice della medicina narrativa, spiega che la conoscenza di tipo non narrativo cerca di illuminare l’universale trascendendo il particolare. Il sapere narrativo, esaminando da vicino singoli esseri umani alle prese con le proprie condizioni di vita, cerca di illuminare gli universali della condizione umana attraverso la comprensione del particolare. La Charon, autrice e direttrice del programma di medicina narrativa della Columbia University di New York, riconosciuta come la massima esperta mondiale in questo settore, afferma che la medicina narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa, la quale, rispetto alle storie di malattia, permette di riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati, aiutando medici, infermieri, operatori sociali, terapisti, a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo delle capacità di attenzione, riflessione, rappresentazione e affiliazione con i pazienti ed i colleghi. Il dato tecnico, il fatto biologico sono sicuramente importanti, ma non possono esaurire il senso di una intera vicenda di malattia, nella quale assume altrettanto valore, se non a volte anche di più, tutta quella dimensione della nostra vita che sfugge alla classificazione, alla misura, e che riguarda la sfera misteriosa e profonda dei significati, delle emozioni, dei sentimenti, delle passioni. Tutto questo vale anche o soprattutto, in un contesto ipertecnologico come quello di un reparto di rianimazione, dove il racconto non serve solo all’autore (il malato o un suo caro) ma al personale impegnato nella cura; seppure la complessità dei sistemi di monitoraggio e di sostegno delle funzioni vitali sembra dipingere i medici e gli infermieri dell’area critica e di emergenza come freddi conduttori di astronavi, ed i pazienti come inermi viaggiatori ibernati, è proprio in questi reparti che emerge con forza l’esigenza e l’importanza della relazione tra la persona malata (non separata dai familiari e dai propri cari), la malattia ed i curanti. Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita; ciascuno di noi è una biografia, una storia. Dal punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro, ma storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico.
Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può consentire quello che in linea di principio non dovrebbe essere possibile; può permettere a tutti noi, perfino a chi è cieco dalla nascita, di vedere con gli occhi di un altro. Storie che parlano di persone e non solo di ammalati, di anime, di spiriti, di coscienze e non solo di corpi lesionati. Storie individuali ed al tempo stesso sociali, dove il rapporto classico tra un paziente ed il suo medico si intreccia sempre più con una terza prospettiva, quella dell’organizzazione, il cui peso crescente costituisce una sfida per tutti. Storie utili per riflettere, ciascuno, cittadini, pazienti, medici, altri professionisti sanitari, amministratori, su cosa possano significare parole come cura, salute, malattia. Un ultima avvertenza preme qui sottolineare con decisione, visto il costante rischio di una deriva antiscientifica di una certa parte della cultura: l’aggiungere alla dimensione oggettiva, empirica e tecnica della medicina, una prospettiva fenomenologica che dia voce anche all’esperienza soggettiva, non può esimere dal mantenere un rigoroso atteggiamento scientifico che deve essere presidiato con una responsabile opera di setaccio documentale. La medicina basata sulla complessità, capace di interagire con i processi sistemici dell’individuo, è la sfida che ci attende nel prossimo futuro. Ecco perché storie, parole, che spingono a non abbandonare mai la ricerca della conoscenza, a non fermarsi ai dati oggettivi ma ad andare oltre, lungo molteplici sentieri della cura, per comprendere sempre meglio il senso più profondo di ciò che significa un’esperienza di malattia per tutti noi umani, sia malati che curanti.
Simonetta è morta cinque mesi dopo la vacanza estiva nel Cilento, a sessantatré anni. Tanto tempo di malattia alle spalle non aveva minimamente offuscato l’intensità del suo sguardo né spento il sorriso con cui comunicava. Questa vacanza era stata fortemente voluta da Simonetta, che amava profondamente quei luoghi, tanto che nessuna delle soluzioni più comode perché più vicine per una malata così grave, l’avevano vista interessata. Era ormai giunta allo stremo delle forze, minata da anni di scompenso cardiaco conseguente alla radioterapia ed alla chemioterapia, cure che le consentirono di sopravvivere ad un cancro della mammella, ad un prezzo però molto alto: il suo cuore era scompensato, la membrana che lo avvolge si era infiammata e poi progressivamente degenerata fino a costituire una sorta di guscio sempre meno elastico e sempre più calcificato, le valvole, ormai indurite, svolgevano il loro incessante compito di aprirsi e chiudersi con crescente difficoltà, determinando un eccessivo carico di liquidi sul cuore e di conseguenza su tutto l’organismo. Come nella maggior parte delle malattie croniche, anche nello scompenso cardiaco, il paziente è chiamato a prendersi cura della sua malattia insieme ai professionisti sanitari, e ciascuno deve fare la propria parte. La durata della malattia è lunga, spesso indefinita; differentemente dalle patologie acute, dove risultano spesso efficacissimi, gli interventi tecnici possono non apportare benefici durevoli, a prezzo tra l’altro di effetti collaterali non trascurabili. Nella cronicità, le conoscenze dei professionisti vengono affiancate da quelle del paziente e delle persone con cui è in relazione, l’assistenza non è demandata solo al personale sanitario come nell’acuto, ma è la cerchia familiare e/o amicale che svolge un ruolo di primissimo piano. Nella storia di Simonetta un compito fondamentale è stato svolto dal marito, che per tutti gli anni della malattia le è stato accanto con discrezione ed intelligenza, cercando sempre di integrare le prescrizioni mediche con il rispetto dell’autonomia della moglie. Giunto a quell’estate, che tutti, anche Simonetta, temevano potesse essere l’ultima, il marito seppe contenere ansia e preoccupazione più che legittime per le conseguenze di un viaggio così lungo, proprio perché nello stesso tempo sapeva perfettamente che in quei luoghi Simonetta avrebbe tessuto le sue trame di salute, lasciando sullo sfondo quelle di malattia.
E così, per qualche giorno, si è assistito ad una sospensione della malattia; alle informazioni sui livelli di pressione, sul peso, sulla frequenza cardiaca, si sostituivano i racconti di frammenti di vita, di piccole grandi gioie vissute con vera consapevolezza. Impressioni di un momento, istantanee che fermavano un’emozione, che poi nella comunicazione con il medico prendevano il posto dei dati biologici, certamente rilevanti ma mai in assoluto preponderanti, quando la persona che soffre ha altri bisogni, diversi da quelli di avere il sodio o il potassio nei limiti della norma. Ed è proprio dalla norma che tutti, forse anche per un giorno soltanto, vorremmo evadere, per vivere in pienezza il progetto che sta dentro di noi. E quello di Simonetta era la celebrazione, ogni giorno, del valore della vita; se per il medico è importante il contare (procederebbe al buio, a tentoni se non lo facesse), per il soggetto malato (il paziente considerato più autenticamente come persona) è essenziale il raccontare. Cinque giorni prima di morire, quando ormai ripeteva nel continuo affanno che non riusciva a respirare bene, accolse la richiesta del marito, che uscendo la mattina di casa per andare al lavoro, le chiese di fare qualcosa di bello per quando fosse tornato (produceva anche dei disegni infatti, aveva la tavolozza accanto al letto). Scrisse una poesia a lui dedicata. Che cosa significa allegrezza per un ammalato che con un orrendo aggettivo possiamo definire terminale? Quali valori esistenziali sono in gioco? Anche di queste risposte abbiamo bisogno nelle cronicità (che ormai rappresentano l’ambito preponderante in medicina ed in sanità), pur non prescindendo dal trattamento di una serie di lesioni, che comunque è doverosamente richiesto perché si arrivi ad una cura che sia davvero in grado di far guadagnare salute. E ciò è particolarmente vero quando la salute è agli sgoccioli, in quanto piccoli passi possono generare grandi risultati. La medicina scientifica ha raggiunto livelli elevatissimi, ma il misurare non può rappresentare il punto di arrivo, piuttosto quello di partenza, perché basandosi su queste solide basi si possa andare oltre, avendo ben presente nella mente e nel cuore, che esercitare la medicina non può ridursi al solo calcolo, implicando anche o forse soprattutto una costante disponibilità alla relazione. Non si tratta di stabilire quale autorità abbia più peso, se quella del medico con le sue competenze professionali, o quella del paziente con la propria esperienza ed i relativi valori esistenziali: è nella costante tensione tra questi due poli che risiede la cura migliore. È necessario cominciare a prendersi cura del paziente (in quanto persona) così come curiamo la malattia. Simonetta ha un po’ trasgredito alla monotonia di una dieta iposodica, fondamentale per contenere l’accumulo di liquidi che il suo cuore non riusciva a far circolare adeguatamente; ci si può curare anche con le alici salate del Cilento, il cui effetto sul benessere può per qualche giorno essere anche superiore alle terapie diuretiche.
“Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.”
Il Piccolo Principe
Dott.ssa Roberta Martino
Bioeticista Clinico
BIBLIOGRAFIA
- Karl Jaspers, Il Medico nell’Età della Tecnica
- Hans-Georg Gadamer, Dove si Nasconde la Salute
- Rita Charon, Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness
- Guido Giarelli, La pratica clinica oltre l’EBM
- Sandro Spinsanti, La Medicina in forma di Narrazione
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Nella breve riflessione che segue, il mio scopo è quello di offrire una nuova interpretazione del concetto di Essere in Parmenide, tale da rendere immotivate tutte le critiche che finora su di esso si sono addossate.
A mio avviso, il cuore della visione parmenidea del mondo è racchiuso nei versi che seguono (fr. 7-8, vv.39-54, riportati nella traduzione di Giovanni Cerri), nei quali la Dea conclude l’esposizione delle prime due vie (quella della Verità e quella dell’errore) e si accinge ad illustrare la terza, quella della doxa:
“Stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce:
senza l’essere mai, in cui diviene parola,
puoi trovare l’intelletto; nulla esiste o sarà
altro al di fuori dell’ Essere, ché l’ha legato il Destino
ad essere un tutto immobile; tutte gli fanno da nome
le cose supposte dagli uomini, fidenti che siano vere,
nascano, muoiano, siano una cosa, non siano quest’altra,
cambino posto, mutino la loro pelle apparente.
Dunque se c’è un limite estremo è circoscritto
da tutte le parti, simile a curva di sfera perfetta,
ovunque d’identico peso dal centro: perch’è necessario
ch’esso non sia maggiore o minore in questo o quel punto.
Parte non v’ha il non essere, fine sarebbe questo
del suo equilibrio, neanche l’Essere in modo che sia
d’Essere qui più che lì, perché tutto è inviolabile:
ovunque uguale a se stesso, egualmente sta nei confini".
Quanto sono stati fraintesi, e per quanto tempo, queste parole! A meno che non ci sia una interpretazione a me non ancora nota. Da essi si deducono tutti gli attributi che rendono assurdo e incomprensibile l’Essere di Parmenide, buono solo per una inconcludente metafisica da mal di testa.
E invece è tutto meravigliosamente chiaro e di una bellezza che lascia incantati, quando si sia riusciti a penetrarne il senso. La ‘chiave’ è nascosta nei versi 46-50 che riscrivo liberamente: ‘c’è un limite estremo, simile alla superficie di una sfera perfetta, ovunque di identico peso rispetto al centro’. Molto meno criptico di quanto appaia, una volta che lo stereogramma di parole abbia rivelato l’immagine nella sua profondità semantica, che in questo caso si può realmente definire tridimensionale: la Dea ha appena ricordato a Parmenide il divenire del mondo, ma sottolineando il fatto che tutte (le forme divenienti) fanno da nome all’Essere. Quell’Essere che, ingenuamente, è stato sempre interpretato come una sfera finita, immobile e immutabile. E invece Parmenide non fa riferimento a una sfera,bensì a una superficie di sfera perfetta e la suo centro, poiché tali entità geometriche fungono da perfetta metafora per il suo messaggio, che è il seguente: in quanto a ‘contenuto di Essere’, in quanto a ‘partecipazione all’Essere’, tutti gli enti, pur nel loro mutare, gli sono ‘equidistanti’, così come i punti di una superficie perfettamente sferica, fitti, immobili, lo sono dal centro della sfera.
È in tal senso, e solo in tal senso, che l’Essere (tradotto come esistenza mutabile dalla conoscenza umana, permeabile soltanto alla doxa) può essere considerato immobile, senza tempo, monolitico, autosimilare, limitato, immutabile. Entro i limiti di questo stesso senso, Parmenide può essere considerato il fondatore di una meravigliosa ontologia.
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L'attenzione verso don Luigi Sturzo non è casuale, ma esprime il crescente bisogno di riferimenti forti, di maestri, proprio di un'epoca di grande smarrimento, di grandi rumori, di giustificate paure, di assenza di pensiero. Don Luigi Sturzo è stato, ed è ancora oggi, un maestro di Etica politica per chiunque volesse "servire la politica e non servirsi della politica", come egli stesso affermava. Filosofo, sociologo, economista, amministratore pubblico, politico tra i più importanti del Novecento italiano, Sturzo resta sempre e soprattutto sacerdote, fedele a Gesù Cristo e alla Chiesa.
Conosciuto come un "socialista clericale", Sturzo è considerato uno dei padri della piattaforma democratica italiana. Nel 1919 fu promotore del Partito Popolare Italiano, anticamera della Democrazia Cristiana. Nel 1951 fonda l'Istituto Luigi Sturzo e, nella sua città siciliana di Caltagirone, organizza cattolici come parte di numerosi progetti culturali e politici, cooperative rurali e bancarie, scuole, giornali. Voleva far comprendere ai suoi concittadini che un Comune non è proprietà privata di alcuni notabili, ma un bene comune, un attore dello sviluppo, la base della convivenza civile. Ancora oggi, a più di cento anni dall'Appello ai Liberi e Forti (12 gennaio 1919), il suo insegnamento sarebbe da svolgere in tantissime realtà territoriali di tutta Italia.
L'impegno sociale e politico di don Sturzo si ispira alla enciclica "Rerum Novarum" del 1891, perciò afferma il primato della persona nella sua libertà e dignità, preservato dalle cellule primordiali della società: la famiglia, il Comune, e da lì via via si sale, con il principio di sussidiarietà, verso l'organismo Stato. Sturzo avvertiva la necessità di costruire una serie di relazioni e di pensiero perché, da realista qual era, sapeva che restando soli non si va da nessuna parte.
Guardando a don Sturzo, possiamo capire quanto disse Papà Paolo VI: "La politica è, o dovrebbe essere, la più grande forma di amore cristiano".
Ciò è particolarmente urgente in un'epoca, come la nostra, nella quale occorrono politiche capaci di valorizzare le peculiarità locali nello scenario globale. Ma la lezione sturziana va oltre, perché per il presbitero ogni progetto di riforma delle istituzioni - e della stessa politica - ha bisogno di uomini formati e orientati ad un senso di etica pubblica contraddistinto dalla ricerca della giustizia e della sana amministrazione.
Uomini nuovi, dunque, che - a partire dalla comprensione della politica come atto di amore verso la propria comunità - sappiano aprire orizzonti nuovi per superare le siccità culturali, sociali ed economiche che ogni periodo storico attraversa, e nelle quali è piombato il nostro Paese.
Don Sturzo individuò chiaramente le ragioni di una crisi che, ieri come oggi, hanno lo stesso comune denominatore: la separazione di cristianesimo e umanesimo. Scriveva don Luigi: "L'aggettivo cristiano non indica l'idea di uno stato confessionale.....ma un principio di moralità, la morale cristiana applicata alla vita pubblica di un Paese". Era questo il manifesto dei grandi padri della democrazia europea ai quali, con don Sturzo, si rivolge la nostra memoria; era la cifra più alta e significata del loro essere laici cristiani nella storia umana.
Don Sturzo, in questo nostro tempo, dedicherebbe ogni sforzo ad alzare il livello culturale di ogni discussione, e a riunire menti e cuori, liberi e forti, con cui ricapitolare i fondamenti filosofici, storici, morali e sociali della ragione nazionale. Si dedicherebbe ad incivilire la contesa e il dibattito politico, scaduto a livelli infimi e infingardi.
Spero che i tanti "qualcuno", più abili di me, possano integrare ciò che ho scritto, allargare ad altre riflessioni l'attualizzazione di un maestro imperdibile e della sua meravigliosa vita spesa fra Vangelo e Politica, per orientare il presente verso un necessario futuro democratico cristiano.
Antonia Flaminia Chiari
Centro Studi Leone XIII
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Combattivo, imperioso, generoso. Intransigente, onesto. Geniale, intuitivo, schietto, diretto. Perdente mai vinto, entusiasta, determinato. Perciò Indro Montanelli con affettuosa ironia lo ribattezzò "il ricciolo". L' "aretino", un " cavallo di razza" democristiano, come lo definì Donat Cattin, non fu solo il più potente tra i segretari della DC, un pluriministro e pluripresidente del Consiglio, il leader della sconfitta epica al referendum sul divorzio, l'inventore di un originale linguaggio politico pieno di metafore e aneddoti toscani, insomma un uomo di potere, tra i maggiori della lunga stagione della Prima Repubblica; fu anche un coraggioso interprete della politica estera italiana, il primo dopo De Gasperi - sulla scia di La Pira - ad aver capito che un Paese che non riesce a farsi rispettare sullo scenario internazionale non ha avvenire.
Il principale successo di Fanfani fu l'aver dato casa e l'aver fatto uscire dalla povertà, come ministro del Lavoro attraverso il "Piano Fanfani Ina-Casa", a centinaia di migliaia di lavoratori italiani.
Sapeva essere, contrariamente a quello che appariva in televisione, cordiale e sorridente; e soprattutto, a differenza della maggior parte degli uomini politici, sapeva ascoltare.
I "Diari" di Fanfani sono un'opera di grandissimo valore. In essi c'è una pagina dei Quaderni Svizzeri (1943) che da sola colma anni di silenzio della memoria, e che proietta sui decenni successivi il senso e la luce di una moralità che attinge alla fede religiosa per farsi impegno civico e politico. " Il caos che è succeduto al 25 luglio e all'8 settembre in fondo è provvidenziale, spazzerà via la piazza di tutte le immondizie e di tutti i residui di precedenti esperienze. Il grande incendio consumerà laceri programmi e deboli candele. Quando il buio tornerà grande, sarà il momento di accendere la nuova lucerna". La nuova lucerna è il raggiungimento della"massima espansione della persona", la convinzione che alla fine del fascismo non si chiude semplicemente una parentesi, ma piuttosto si valichi una soglia, al di là della quale dovrà stare un nuovo assetto della politica, della società, delle istituzioni; una Civitas humana nella quale l'umanesimo integrale dovrà sostenere e alimentare un interventismo economico orientato al bene sociale e alla libera espansione della persona. Questa lucerna illuminerà sempre la sua attività e la sua vita di politico e di studioso.
La profonda lungimiranza lo portò ad affermare che le innovazioni tecnologiche avrebbero potuto conferire nuova vitalità alla partecipazione dei cittadini alla vita democratica, determinando una maggiore apertura dei soggetti politici alle loro proposte. Sostenne il bicameralismo come garanzia della democraticità del sistema di governo ed elemento di forza del Parlamento, di fronte alla responsabilità di un efficace agire dello Stato nel nuovo orizzonte aperto dalla terza rivoluzione industriale.
Sull'insegnamento di Fanfani, la politica deve davvero essere l'arte del bene comune, tanto nella quotidianità quanto nella straordinarietà delle scelte. E non è irrilevante aver dimostrato nella vita di saper fare cose egregie, prima di voler risolvere, con una politica improvvisata, i problemi degli altri.
Fanfani si fa profeta: analizza la storia del mondo per guardare al futuro. Ed assegna ai giovani il compito di leggere la storia per trovare in essa le idee che possono guidare il nostro domani. Tenendo accesa quella lucerna che ci permetterà di varcare la soglia di questa lunga parentesi buia, per camminare verso una nuova Civitas humana ispirata al personalismo cattolico.
È questa l'attualità del pensiero di Fanfani.
Antonia Flaminia Chiari, bioeticista
Centro Studi Leone XIII
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Da circa tre anni uno studio scientifico dell’Università di Basilicata comunica che dal legno del territorio lucano sono possibili 18mila nuovi posti di lavoro non solo a costo zero per le casse regionali, ma ottenendo un valore aggiunto finale, nel complesso della filiera, di circa 3 miliardi di euro per gli operatori, dal taglio iniziale alla trasformazione e commercializzazione finale, ed entrate notevoli per la Regione, i comuni e i proprietari privati.
Il Laboratorio di Tecnologia delle Costruzioni, Scuola di ingegneria dell’Unibas, in questa ricerca coordinata dai prof. Filiberto Lembo e Francesco Marino (Il legno lamellare Quercus Cerris e le sue possibili utilizzazioni) “indaga da anni sull’uso e il miglioramento della risorsa forestale della Basilicata e sulla possibilità di utilizzare per vari usi l’essenza del Quercus Cerris” garantendo altissimi indici economici nella trasformazione del legno la cui quantità si aggira tra i 110mila e i 140mila metri cubi annui a fronte dei 4 milioni circa ora disponibili al taglio “senza che il patrimonio boschivo e la sua stabilità risultino alterati, anzi pervenendo ad un più accurato governo del territorio e delle risorse boschive (produttiva, ambientale, protettiva, ricreativa)”. E sono 4 milioni di metri cubi di fustaie già giunte a maturazione, 80 anni, che vanno tagliate sia per evitare che subiscano malattie sia per consentire corrette rigenerazioni.
Il protocollo di condizionamento studiato dall’Unibas risolve tutti i problemi derivanti dall’essenza di questo legno fino a renderlo cerro lamellare molto resistente tale da sopportare carichi 4 volte superiori al normale lamellare di abete. E’ un legname che oggi viene utilizzato per biomasse ad un costo bassissimo, ed invece ne avrebbe uno altissimo come impiego lamellare, come eco-progettazione e bio-architettura, come industria per arredamento e parquet, come infissi e porte, listellati, sfogliati, compensati.
In Italia la lavorazione del legno è interessata da 100mila aziende, 500mila addetti, 35 miliardi di fatturato e 10 miliardi di euro in export. In Basilicata, a fronte di circa 200mila ettari di superficie boschiva, le fustaie di cerro occupano una superficie di circa 30mila ettari, quasi la metà dell’intera superficie nazionale investita a cerro. Sono numeri importanti che possono far salire il numero degli occupati e la quantità di valore aggiunto nell’economia regionale tale da metterci al numero uno in Italia non solo per estrazioni petrolifere in Val d’Agri, non solo per la grande industria Sata di Melfi, non solo per i laghi di Monticchio e i suoi microclimi entro i quali è presente la Bramea, non solo per Maratea perla del Mediterraneo e per Matera in ciò che è stata capace di produrre da Saverio Acito a Raffaello De Ruggieri.
La trasformazione del Quercus Cerris lucano con la sua commercializzazione virtuosamente dirette da attenti pianificatori, tecnici, urbanisti in concerto con energie culturali capaci di disegnare nuovi contenuti organizzativi, strutturali, aggregativi, sociali ed economici sono le condizioni uniche per mantenere la Basilicata non all’ultimo ma al primo posto anche in materia di occupazione, ambiente, gastronomia, turismo. E il massimo ente territoriale, la Regione e il suo governatore possono, se vogliono, governare i cambiamenti chiamando a raccolta le energie più virtuose non entro stupidi stati generali che peraltro evocano divisioni sociali, ma congressi e meeting di unità lucana per realizzare ciò che a tutti è comune, il bene.
Pasquale Tucciariello
Centro Studi Leone XIII
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Giuseppe Dossetti, profeta e testimone del Novecento, uno degli uomini politici più originali e profondi dell'immediato dopoguerra. Portatore di un progetto politico innovatore, diede un eccezionale contributo alla stesura della Costituzione repubblicana, prima di trovarsi emarginato nel contesto di uno scontro ideologico che non lasciava spazio a progetti alternativi a quelli dominanti.
Dossetti è indubbiamente il politico cattolico che meglio ha saputo vedere come gli eventi drammatici delle due guerre mondiali esigessero la nascita di una nuova civiltà cristiana.
Sostanziale, integrale, effettiva, reale: la democrazia, secondo Dossetti, non può essere solo formale, né solo politica, né solo economico-sociale; deve superare la divisione fra questi ambiti per essere umana, genuina, morale. Un'autentica rivoluzione. La modernità è nichilista, per Dossetti: nega la natura delle cose, e le pensa tutte interamente plasmabili dall'uomo e tutte traducibili in merci; azzera le mediazioni socio-politiche reali, e immagina una società priva di fini che non siano individuali; fa' dello Stato una macchina che consente ai privati di creare istituzioni giuridiche incontrollabili, mentre di ferma davanti ai diritti economici dei possidenti, considerati intoccabili.
Allo Stato moderno Dossetti contrappone uno Stato nuovo, che abbia la capacità politica di orientare la libertà, di plasmare la società riformandola. Uno Stato che di carica di una politicità che è anche socialità e moralità. Questa democrazia sostanziale è il volto storico del cristianesimo.
Certo, i nostri tempi sono, per molti versi, lontani da quelli in cui nacquero le riflessioni di Dossetti. Ma per altri versi presentano sconcertanti analogie, che hanno come risultato la libertà finalizzata non al fiorire della persona nell'uguaglianza, secondo i meriti di ciascuno, ma al profitto di pochi. Gli obiettivi di Dossetti sono condivisibili oggi: perseguire una politica che sappia dirigere la società individuando e sollecitando in essa ragioni e forme, diritti e poteri; costruire una democrazia che sappia essere energia politica di competizione e confronto.
Riprendiamo il suo discorso più conosciuto: "Sentinella quanto resta della notte?". La sentinella è consapevole che la notte è notte, tuttavia non rimpiange il giorno passato; è protesa in un atteggiamento vigile, e senza illudersi in un immediato passaggio dalle tenebre alla luce, riesce a cogliere le prime luci dell'alba.
È questo un monito, per i nostri giorni, a saper distinguere le notti che la politica attraversa, a vigilare affinché in questi momenti bui la nostra capacità critica non si smorzi, ripiegando nostalgicamente sul passato, ma mantenga la lucidità necessaria per riconoscere i segni dell'aurora.
Nel ripensare a quali fossero le cause della notte italiana, Dossetti le ravvisava, tra le altre, nella perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, e nella immaturità del clero che deve proporsi il compito della formazione delle coscienze, verso un'alta eticità privata e pubblica.
Un'analisi che scuote, ancora attuale.
Antonia Flaminia Chiari, bioeticista
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Emergenze lucane, demografia. Ciò che io domando è: può, il massimo ente regionale, puntare per i prossimi sei anni a realizzare un incremento demografico di 50 mila abitanti attraverso a) Utilizzo delle risorse a costo zero per l'Ente (trasformazione del legno, ma non solo); b) valorizzare il bene ambiente anzi trasformarlo e renderlo attrattivo senza costi aggiuntivi significativi (una squadra di 10 operai/e forestali stazionano su una strada di 200 metri circa dal lunedì al venerdì per la pulizia delle cunette , esempio di sfascio del sistema, e questo sotto gli occhi di tutti, ovviamente determinando in ciò non riso ma sfiducia, abbandono, scetticismo verso concrete possibilità di cambiamento e di miglioramento delle nostre condizioni. La Regione paga - quanto dovrei trovarlo - una montagna di quattrini a fronte di 151 giornate lavorative prima e costi di disoccupazione poi per tenere inattive tutte quelle unità che invece potremmo tenere impiegate tutto l'anno. Dico, spalmiamo l'intero costo per ogni operaio forestale tutto l'anno e teniamolo impegnato tutto l'anno con un contratto, esempio, 5 ore al giorno. Con la pulizia delle nostre strade renderemmo attrattivo il territorio - oggi repulsivo - e gli operai potrebbero realizzare, in montagna, rifugi in legno, laghetti artificiali, viali, aree dedicate per attrazione turistica e desiderio per i nativi di restare in loco). E la funivia di Monticchio. Tre tronchi: Atella-Rionero col Vulture, Melfi con Vulture, Vulture con Monticchio. 30 milioni di euro, butto lì una cifra possibile, e tu porti qui 100 mila turisti in più rispetto a quelli attuali, come la funivia di Monticchio in parte è riuscito a fare dal 1964/1978, quindici anni di sogno, stroncati, senza che mai la classe dirigente regionale sia riuscita a rialzare la testa. Ogni area, un grande polo di attrazione. Poi le grandi arterie, le strade. Anche le associazioni, il volontariato in genere, determinano cambiamenti. Un gruppo di ricerca, che studi le possibilità di sviluppo sociale ed economico delle aree territoriali, specie quelle, come il Vulture, ad elevata vocazione turistica, agricola, industriale, può determinare cambiamenti significativi attraverso idee progettuali, possibilità e modalità di finanziamenti, indicazioni su tempi certi di intervento. Non possiamo rimanere inattivi mentre la comunità lucana si riduce anno dopo anno per numero di abitanti. Di qui a breve la Regione si attiverà per elaborare il documento politico-programmatico 2021/2027, Piano Strategico con i suoi programmi operativi, dove si giocano i destini della Basilicata: o clientelismo, spese non produttive, promozioni e carriere come per gran parte è accaduto finora, o inversione di rotta, che significa analisi, progetto, ricerca di finanziamenti, obiettivi, tempi certi. Non abbiamo ancora notizie in merito a cambiamenti. E sulla sanità, questione che ha portato allo smantellamento della classe dirigente regionale negli ultimi vent’anni, tutto è rimasto invariato.
Pasquale Tucciariello
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Stati generali senza un piano. La DC che ricordiamo avrebbe agito diversamente e senza grilli per la testa. La DC di Aldo Moro per esempio. Dopo il referendum sul divorzio nel 1974, nella società italiana secolarizzata e insofferente, sembrava finito il trentennio di potere democristiano e il Paese andava a sinistra. Soltanto Moro avvertiva i segni di una disgregazione che i partiti non avrebbero più controllato. Era, diceva, "un moto indipendente che logora e spazza via molte cose. Esso assume la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione nuova alla vita sociale e politica." E così avvenne. Moro avvistava il distacco tra politici e cittadini, prevedeva la voglia di vendetta che si agitava in un Paese inquieto contro una classe politica imbelle e corrotta. E l'emergere di leader movimenti e forze che seguivano il moto indipendente delle cose avrebbe annullato la politica come mediazione tra lo Stato e i cittadini. La tragedia di via Fani e il rapimento di Moro rivelarono l'impotenza dello Stato e i giochi oscuri di attori nella trama brigatista. Moro non voleva il compromesso storico, stava costruendo un'altra strada perché aveva fiducia nella intelligenza della politica, e la consapevolezza che il potere non contava più. Scriveva: "Parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente. Siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di fare, nell'illusione che, cambiati gli altri, cambi anche il Paese, come esso chiede di cambiare. Non è così. Perché qualche cosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi. Di tratta di capire ciò che agita nel profondo la società e la rende inquieta indocile irrazionale e indomabile". Sono le parole di un politico che aveva capito. E dopo di lui entra in scena una idea di politica che è appiattimento sull' immediato, un inseguire l'onda. Imprigionati in un eterno presente, costretti alla prudenza, sentiamo la voce di Aldo Moro che continua a parlare. In quel domani e oltre in cui tutti siamo immersi. Moro non smise mai di lavorare per creare dialogo comunicazione rispetto reciproco comprensione. E avverti' sempre la necessità di un dialogo aperto con i giovani: è questa l'eredità più importante che lascia ai politici ai professori ai padri di oggi. La questione morale ancora irrisolta, la sequenza di corruzioni e delinquenti del politicamente scorretto, delle comete multistellate, è un album da cestinare quanto prima in attesa che il Paese si ricordi di personalità come Aldo Moro. Che in questo momento avrebbe fatto appello alla nostra responsabilità. La lezione di Moro è attuale più che mai, perché lo sguardo della politica deve andare oltre il presente. Il suo pensiero è ancora vivo perché egli pone lo Stato al servizio dell'uomo per una democrazia di alta levatura morale e sociale. È una lezione di politica e di vita che andrebbe compresa e accettata, riappropriandosi del senso delle istituzioni. Soprattutto adesso che l'Italia è diversa, con una differente classe dirigente e con l'emergenza Covid19, mentre vanno affrontate la crisi economica, l'immigrazione, la sicurezza, il debito pubblico insostenibile. E questo governo inutile e inane continua a ripetere che ANDRÀ TUTTO BENE....
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Viviamo in un’epoca di “emergenza antropologica”, che ci spinge a risemantizzare il concetto di persona e a ripensare la natura umana. Nell’attuale contesto speculativo, caratterizzato dal primato delle scienze sperimentali e da rinnovate forme di naturalismo, si ripropone più forte l’interrogativo kantiano :<<Che cosa è l’uomo?>>, mettendo in risalto come la crisi di conoscenza di sé costituisca uno dei tratti più drammatici del nostro tempo.
La nostra è l’epoca dei “post”: postmodernismo, postumano, poststrutturalismo, postdemocrazia ecc… Di certo, essa è segnata da un generale congedo nei confronti delle ideologie, dei grandi miti filosofici che hanno caratterizzato l’epoca moderna. E’ necessario perciò ridefinire la centralità del concetto di “persona umana” in tale contesto di penuria speculativa, in cui uno stanco silenzio sembra essere subentrato al posto delle grandi costruzioni concettuali. E ridefinire il concetto di libertà, intrinsecamente connesso a quello di persona, è oggetto di dibattito sia sotto il profilo epistemologico che etico-politico: si pensi al rapporto speculativo tra determinismo e libertà o alla vexata quaestio politica del rapporto tra il potere e le sfere di libertà del singolo, soprattutto in connessione agli sviluppi delle neuroscienze.
Il tema del libero arbitrio e della libertà continua ad essere uno degli ambiti privilegiati dell’indagine filosofica, perché la quaestio de libertate investe l’ambito morale e tutta la sfera del pratico, con evidenti implicazioni in ambito giuridico, estetico e teologico.
I concetti di “natura umana”e di “persona” sono attualmente in questione. L’idea di persona sembra ancora vigorosa o comunque presente nella cultura; quella di natura umana è ritenuta residuo metafisico di altre epoche. Ma il concetto stesso di persona umana non sopravvive a lungo se quello di natura umana viene compromesso o rifiutato: lo insegna la definizione di Boezio: rationalis naturae individua substantia, dove l’essere persona consiste nel possedere una natura dotata di logos.
La responsabilità del personalismo si è molto ampliata aldilà dei suoi temi classici, ed investe oggi con le biotecnologie, le neuroscienze e le scienze cibernetiche il nucleo della persona e la sua manipolabilità, mentre cresce la diffusione della tesi materialistica e deterministica. Siamo dunque chiamati ad un arricchimento delle nozioni di personalismo e di persona, dinanzi a sfide inedite. Il personalismo si presenta dunque come una ricerca in movimento e un cantiere aperto, con uno sguardo ontologico dinanzi alle sfide dell’oggi.
Mi limito in questa sede a dire che le uniche battaglie che vale la pena combattere sono quelle culturali, e tra queste risulta primario favorire una nuova stagione del personalismo. Il concetto di natura umana è fondato nella realtà stessa dell’uomo, è un concetto stabile e universale, che non può essere distrutto dalla evoluzione della tecnica. Esso è inoltre portatore di una valenza normativa. L’uomo è certo fortemente plastico, ma entro il perimetro stabilito dalla sua essenza che non consente l’abolizione dell’uomo. Ciò che oggi è maggiormente a rischio non è solo la socialità della persona, ma la persona stessa. Il carattere sociale dell’essere umano è oggi inteso in un senso ristretto in cui prevalgono chiusura, disattenzione dell’altro, selfinterest, ma ciò dipende dal fatto che è venuta estenuandosi ed impoverendosi l’idea di persona e quella di una democrazia esigente.
I mutamenti si susseguono con un ritmo così incalzante che si fatica a comprendere quanto sta accadendo e che si presenta con i caratteri di una rivoluzione nel senso letterale del termine.
La domanda da cui partiamo per poter parlare ancora di un futuro per il personalismo è se nel mondo attuale, attraversato da molteplici crisi, ci sia posto per una coscienza critica in grado di proporre la validità del “principio-persona” sul campo sia dell’etica che della politica.
Bioetica e informazione sollecitano con i loro problemi questo ritorno alla persona. La bioetica con la sua domanda su cosa è l’uomo è la spina nel fianco delle strutture politiche democratiche. La scienza sa, o crede di sapere, attraverso quali meccanismi nasce e si sviluppa la vita, ed è in un certo senso suo diritto intervenire su di essi per migliorarli. Ma una scienza senza limiti e controlli rischia di espropriare l’uomo del suo diritto di essere soggetto che la democrazia difende con le sue norme. L’uomo altera e inquina l’ambiente come la democrazia, perché se ne mette in discussione il principio di libertà che sta alla sua stessa base.
L’informazione tende, se priva di limiti, ad inquinare addirittura la coscienza con le sue manipolazioni del processo di comunicazione. Una ragionevolmente libera e pluralistica informazione è coessenziale al concetto di governo del popolo, dal popolo e per il popolo. Uno statuto dell’informazione presuppone una idea di persona non manipolabile, almeno in via di diritto.
L’uomo è sociale fin dal principio, per cui la persona è in relazione ad un NOI che la precede. L’IO è da subito legato intrinsecamente alla comunità, alle sfere sociali della famiglia, delle comunità intermedie e della società che ne permettono lo sviluppo, l’educazione e la realizzazione.
Il personalismo rimane la coscienza critica della democrazia. La democrazia non è il regime delle risposte, bensì delle domande. La democrazia sa di non sapere, ritiene cioè che non esiste una risposta unica e definitiva a tutti i problemi, perciò si pone in atteggiamento maieutico di ricerca di una verità comune sull’uomo che, proprio perché è di tutti, è anche di nessuno in particolare ma di ciascuno in specie. Così il personalismo propone una visione della democrazia per cui la persona, intesa come diritto sussistente, rappresenti il limite più resistente alla tendenza manipolatoria.
Proprio all’interno del disorientamento etico che attraversa la civiltà occidentale, diviene sempre più stringente la domanda sui valori, la ricerca di nuovi elementi capaci di illuminare le contraddizioni del nostro tempo per misurarsi con le nuove frontiere dello sviluppo scientifico e tecnologico. Se è impossibile entrare nel dettaglio delle principali teorie etiche contemporanee, è determinante riflettere sulla concreta possibilità di individuare un legame forte tra due esigenze fondamentali dell’essere umano: la ricerca della propria realizzazione e il bisogno di relazionarsi all’altro. Ebbene, la realizzazione della vita buona implica non solo la cura di sé, ma la cura dell’altro e dell’istituzione.
In questo contesto di complessità conflittuale entra in gioco la responsabilità, concetto caratterizzante la persona e capace di offrire una lettura nuova all’interno di altrettanto nuove problematiche emergenti. La novità della lettura non deve indurre a pensare ad un rinnovamento superficiale volto solamente a rendere interessanti e appetibili le noiose e antiquate disquisizioni su cosa è bene e cosa è male; al contrario, pur collocandosi tra gli elementi più originali del pensiero contemporaneo, il concetto di responsabilità costituisce senza dubbio il nodo più forte e determinante tra etica e politica, un efficace mezzo di realizzazione della persona sia sul piano individuale che sociale.
La responsabilità è prima di tutto “dare una risposta” a chi ci ha interrogato, coinvolto, che aspetta una nostra reazione: rispondere a qualcuno, ma più ancora rispondere di qualcuno.
Se l’etica della responsabilità è intesa come realizzazione dell’umano, essa implica una continua tensione dell’individuo che non si libera mai del senso dell’incertezza. Ma è proprio su questa base che si può riproporre in termini nuovi la questione della fondabilità dell’etica. Inoltre, avendo a che fare con un dover essere, ossia con un termine ideale non ancora realizzato, la responsabilità va intesa sia in senso sincronico che diacronico: la visione superficiale di noi stessi e del contesto in cui siamo inseriti ci impedisce di vedere che le nostre azioni sono atti da intendere come telos di una esistenza dinamica che si trascende. In tal senso, il contributo di Hans Jonas alla lettura della modernità risulta essere fondamentale anche per la postmodernità: egli individua la novità della questione nel trionfo dell’homo faber, capace di attuare trasformazioni così eclatanti da costringere l’etica a spostare la sua prospettiva da un orizzonte della prossimità ad un attento esame delle conseguenze a lungo termine dell’agire umano.
E’ la prospettiva futura che ridefinisce gli imperativi etici, considerando un imperativo pubblico. Diviene dunque essenziale il ruolo della politica, intesa come attività in grado di operare per il futuro, colmando quel vuoto etico dell’attuale società.
Abbiamo bisogno di certezze e non di scommesse. Svegliandoci una buona volta da quell’assopimento che spegne ogni interrogativo e ci condanna all’esistenza vuota e anonima del SI’, possiamo scegliere di rispondere ad un richiamo, quello che Ricoeur definisce uno slancio verso l’atto, che ci realizza come esseri umani, disvelando la nostra umanità.
L’uomo, lui e lui solo, è chiamato a rispondere a se stesso e alla comunità di appartenenza, concretizzando la responsabilità individuale sul piano sociale e politico.
Il merito maggiore del concetto di responsabilità è quello di aprire nuovi scenari in cui collocare la questione etica, ponendola come un discorso in fieri, anziché relegarla in una dimensione asfittica e chiusa in categorie rigide, inadeguate ad interpretare la complessità. Proprio questa caratteristica rende la responsabilità più atta a rispondere alle esigenze del nostro tempo, nel tentativo di edificare una comunità politica che non si esaurisca in una positivizzazione delle norme, e punti invece ad elaborare regole che, lungi dall’essere vuote imposizioni, possano attualizzare nel tempo e nello spazio la nostra potenziale umanità.
Come si colloca la persona tra etica e politica? La direzione presa dagli eventi di questa nostra epoca mette in discussione assunti culturali ormai stabiliti da tempo. Menenio Agrippa sarebbe sconcertato nell’apprendere di essere stato privato degli argomenti che si trovavano alla base del suo convincente apologo, e della sopravvenuta incapacità del corpo umano di garantire la tradizionale analogia della società politica. Una incapacità che deriva da un vulnus spirituale che la cultura scientifica ha insinuato nell’umanesimo occidentale, provocandone una sorta di delegittimazione antropologica.
Il precipitare dell’umano nel biologico avvilisce la percezione del corpo, sollecitando l’ambizione verso le chimere della deriva post-umana.
L’immagine più ricordata della comunità politica come corpo organico è proprio quella offerta dall’apologo di Menenio Agrippa, raccontata da Tito Livio nel secondo libro di Ab Urbe Condita. La storia è nota. Ed è noto che solo la mediazione di Menenio Agrippa è riuscito a salvare la situazione. Tuttavia, egli stesso ricorda che un tempo quell’apologo basato sull’equilibrio funzionale delle diverse parti del corpo non avrebbe potuto raccontarlo. Un tempo nel quale il corpo non si offriva allo sguardo dello studioso nella sua unità organica. Era quella la stagione mitica nella quale Omero aveva cantato le gesta di quei principi achei che avevano attraversato il Mar Egeo per assediare la città di Troia.
Il corpo per Omero è il cadavere. La vitalità risiede invece nelle singole membra che, nel vorticoso dinamismo dell’azione bellica, contribuiscono a caratterizzare il personaggio. L’uomo omerico non solo non possiede esperienza del corpo come organismo unitario, ma non concepisce neppure un’anima che di esso possa manifestarsi come principio egemone. Questa mancanza sembrerebbe non lasciare spazio ad una comunità politica, neppure in nuce.
Le modalità espressive peculiari della tradizione orale, cui appartiene l’epica omerica, caratterizzano la dimensione politica, polifonica e conflittuale della comunità di eroi greci. Sebbene il poema sia caratterizzato dalla forza e dal valore, la sostituzione nell’assemblea della spada con lo scettro di legno, della violenza con la parola, permette la condivisione collettiva delle passioni. L’argomentazione sostituisce il combattimento, la riflessione lo scontro, suggerendo il riconoscimento di un destino comune dei convenuti. Dagli astanti in arme riuniti in circolo all’assemblea dei cittadini nell’agorà, il passo è ancora lungo; tuttavia il seme della democrazia era stato gettato.
Una nuova virtù si affaccia alle origini di Atene quale polis democratica: la sophrosyne, quel ragionevole dominio di sé che porta ad imbrigliare la passione, manifestandone con prudenza le pulsioni, in vista del raggiungimento di un più alto fine collettivo; e apre la strada all’assoggettamento del cittadino alle necessità della polis. Inoltre, la diffusione della scrittura insinua e agevola la comprensione del rapporto che più lega le singole membra del corpo, e permette la metafora organicistica della società politica. Come nel corpo organismo unitario ogni organo incarna un ruolo e svolge una funzione al servizio del tutto, così nell’ordine superiore realizzato dalla polis, nel quale lo zoòn politikòn trova la sua ragion d’essere.
Nella cultura latina il discorso prende una piega diversa. La leggenda racconta che il popolo romano, quando ebbe ascoltato le parole di Menenio Agrippa, si rese conto della necessità della diversità dei ruoli come fondamento di una società complessa, e si riunì ai patrizi per affrontare il nemico comune.
Nel racconto di Tito Livio risulta evidente che i plebei, se hanno bisogno di essere persuasi, non si sentono più organi interdipendenti dell’intero corpo sociale; piuttosto, accettano di farne parte a determinate condizioni e concessioni: il condono delle situazioni debitorie e l’istituzione di due cariche garanti della giustizia, quella degli edili e quella dei tribuni della plebe. La trasformazione di un principio organizzatore in un criterio funzionale indispensabile alla sopravvivenza, restituisce l’immagine di un corpo organismo soggiacente ad una razionalità economica, ben più pragmatica dell’aulica elegante sophrosyne platonica.
Sarà San Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, debitrice della cultura greca che legava la prospettiva cosmologica a quella politica, ad introdurre il principio della mutua solidarietà, che può soddisfare il reciproco bisogno e qualificare la comunità politica. Con Gesù Cristo, termine di paragone della metafora ma anche pietra fondante di costruzione sociale, si creano i presupposti di una concreta testimonianza dell’agire politico quotidiano. L’intima tensione religiosa del messaggio paolino introduce il paradigma della responsabilità. La testimonianza del Dio che si è fatto uomo restituisce alla polis un orizzonte espressivo che va oltre la mera convivenza, qualificandola come topos della mediazione politica, dove l’eterogeneità diventa feconda e la conflittualità creativa.
Ma non possiamo esimerci dall’evidenziare come la tecnologia abbia finito con il modificare tanto il corpo stesso, quanto la percezione di esso.
L’immagine evocata da Hobbes stupisce oggi per la sua ingenuità. Interrogarsi sul senso politico dell’invasione tecnologica porta ad indagare sulla erosione progressiva della unità nazionale in un contesto globale, nel quale la tecnocrazia finanziaria di organismi internazionali e lobbies transnazionali contendono la sovranità al popolo, la cui compatta unità aveva permesso al Leviatano, alias Stato Nazionale, di sorgere nella storia.
La questione fondamentale è condividere, pur essendo diversi per personalità e cultura, la qualità umana che fornisce a ciascuno il potenziale per instaurare un rapporto morale con ogni altro suo simile.
Lasciamo ai posteri l’ardua sentenza, ma intanto abbiamo il dovere di rivitalizzare una tradizione metaforica duramente stressata dalle modifiche culturali e spirituali, che entrambi i termini di paragone subiscono nel terzo millennio. Abbiamo il dovere di mettere in correlazione questi principi, questi dinamismi della persona e della comunità: esse in se – esse per se – esse ad – esse cum, vale a dire singolarità della persona che si possiede nell’autocoscienza e nella libertà – responsabilità verso sé e verso gli altri – reciprocità della coscienza o solidarietà, a cui si ispira il concetto di democrazia.
Riconoscere la correlazione tra questi principi e tradurli in scelte e atti quotidiani è una sfida a cui tenersi sempre pronti, in cui si prepara l’avvenire di tutti. E il personalismo ha un futuro assicurato nell’etica e nella politica.
Antonia Flaminia Chiari
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Bene comune e armonia sociale (giustizia sociale) sono i fondamentali della dottrina sociale della Chiesa. Il bene comune si realizza entro “quelle esterne condizioni le quali sono necessarie all'insieme dei cittadini per lo sviluppo della loro qualità e dei loro uffici, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa, in quanto da un lato le forze e le energie della famiglia e di altri organismi, a cui spetta una naturale precedenza, non bastano, dall'altro la volontà salvifica di Dio non abbia determinato nella Chiesa un'alta universale società a servizio della persona umana e dell'attuazione dei suoi fini religiosi». (Pio XII, Roma 1942)
Per ordinare la vita economica dello Stato è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia la legge della carità. Alcuni principi morali per attuarla: la dignità della persona umana; l’uguaglianza dei diritti; la solidarietà, cioè il dovere di collaborare in campo economico; la destinazione dei beni materiali a vantaggio di tutti; la possibilità di creare le condizioni per il lavoro; il libero commercio dei beni nel segno del giusto; la giusta remunerazione del lavoro; giustizia distributiva. Un buon sistema economico deve evitare l'arricchimento eccessivo che rechi danno a un'equa distribuzione; e in ogni caso deve impedire che attraverso il controllo di pochi su concentramenti di ricchezza, si verifichi lo strapotere di piccoli gruppi sull'economia.
(da Codice di Camaldoli, 18 luglio/24 luglio 1943).
Pasquale Tucciariello
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Ancora una volta il professor Fierro ci offre una acuta riflessione circa gli scenari futuri del Mezzogiorno in generale e della Basilicata in particolare. Profondo conoscitore della realtà lucana, essendo stato sindaco di Potenza per un quindicennio e poi consigliere regionale, Fierro parla del “caso Basilicata” inserendolo nella più generale crisi di tutto il Mezzogiorno. E’ una interpretazione felice questa, in quanto permette di leggere le criticità di una regione nel più complesso scenario della realtà meridionale senza arroccarsi ad inutili municipalismi e campanilismi. Questa comparazione tra realtà meridionale e realtà lucana permette a Fierro di evidenziare il primo e vero punctum dolens: il collasso demografico a cui va incontro il Mezzogiorno. E’ un punto dolente soprattutto per la Basilicata perché non si capisce come una Regione ricca di acqua, petrolio e boschi, prima tra le regioni del Sud ad invertire la rotta dopo la crisi già a partire dal 2014, regione italiana più dinamica nel 2015 con un aumento del Pil di oltre il 5%, non si capisce come ogni anno possa registrare una diminuzione della popolazione, in particolare quella giovanile.
Il paradosso, tutto lucano, è ben spiegato dall’autore quando afferma che “nel Mezzogiorno l’unica cosa che aumenta sono gli anziani”, un Mezzogiorno per anziani e, in ultima analisi, un Meridione senza futuro e costretto ad un permanente sottosviluppo. Ma come è possibile che accada ciò? Come è possibile che, pur in presenza di indicatori economici più che favorevoli, il Sud e la Basilicata in particolare, siano condannati ad un sottosviluppo permanente? La vexata quaestio è ben presto spiegata da Fierro: il problema del Sud non sono i mancati fondi, non si tratta di un problema economico, ma di mentalità, di mancata progettazione: il problema è tutto politico, di gestione della cosa pubblica. La palla al piede di cui il Mezzogiorno deve liberarsi per intraprendere la via dello sviluppo è la burocrazia, ma potrà farlo soltanto quando avrà raggiunto il giusto grado di maturità. Burocrazia vuol dire anche rapporti clientelari, scelte politiche mirate a salvaguardare più i rapporti amicali che il bene comune. Intanto in Basilicata già si notano gli effetti che emorragia demografica e cattive scelte politiche hanno prodotto riguardo alla spoliazione di diversi presidi istituzionali trasferiti nelle regioni limitrofe e sbandierati come spending review.
Lo stesso Fierro ci fornisce l’elenco partendo dal 91o Battaglione Lucania, al Distretto militare di leva, l’Ufficio Regionale delle Ferrovie dello Stato, Inail Regionale, Provveditorato Regionale Pubblica Istruzione, Tribunale di Melfi, Banca d’Italia di Matera solo per citare i più eclatanti. Allora ha ragione l’autore ad affermare che esiste un vero e proprio “caso Basilicata”, nel senso che la Regione, dopo un periodo seppur altalenante di crescita, sta precipitando a quella che era la situazione di 50 anni fa. Oggi il problema più urgente della regione, tra gli altri, è la desertificazione a cui vanno incontro le aree interne, considerato soprattutto che in tali aree ci vive una popolazione che giorno dopo giorno invecchia sempre di più. Il “caso Basilicata”, quindi, è un vero e proprio problema sociale a cui urge dare risposte convincenti.Allora non è azzardato paragonare, da un punto di vista sociale e culturale, la Basilicata di oggi a quella di 50 anni fa quando una pletora di studiosi giungevano da ogni parte del mondo per studiarne l’arretratezza economico-sociale.
Oggi poi la questione è ancora più complicata che in passato perché non si spiega come una realtà che economicamente registra aumenti del Pil, possa al contempo presentare una depressione sociale e demografica cosi spaventosa. Forse l’unica risposta, e probabilmente dovremmo convincerci di questo, risiede nella mentalità dei lucani, come lo stesso antropologo americano Banfield aveva affermato quando teorizzò a metà degli anni Cinquanta il concetto di “familismo amorale”. Noi oggi la chiameremmo mancanza di visione futura, Banfield familismo amorale, ma la sostanza non cambia: nell’uno e nell’altro caso si tratta sempre di una incapacità del cittadino di erigersi come operatore storico attivo e quindi di volta in volta dipendente dal politico di turno. Queste, in ultimo, le responsabilità più pesanti della classe dirigente locale che, come dice l’economista lucano Nino D’Agostino, giustamente ricordate da Fierro, “non sa guardare le cose nel loro insieme e che è tutta ripiegata nello spendere la spesa corrente distribuendola a pioggia per mere esigenze clientelari”.
Nicola Alfano
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In soli due mesi di pandemia: + 300.000 disoccupati e + 750.000 inattivi, persone cioè che non cercano nemmeno più un’occupazione e, tra poco, ci sarà il via libera ai licenziamenti per ora bloccati. Dalla crisi sanitaria ci infiliamo in una crisi sociale dai caratteri simili a quella del secondo dopoguerra. Già nel Giugno dell’anno scorso avevo scritto di questo tema che, con la pandemia non ancora conclusa, si sta terribilmente aggravando. Quando sarà finita l’emergenza, infatti, i governi di tutto il mondo dovranno affrontare il tema drammatico del disagio sociale. Un disagio tanto più grave in Italia che, accanto ai fenomeni di natura sociale ed economica, dovrà affrontare anche quelli di ordine istituzionale. Dopo il potere legislativo e quello esecutivo, con quanto è accaduto nel CSM e nella magistratura, siamo alla crisi di sistema.
Il Legislativo vive la condizione malferma di un parlamento espressione di una metà dell’elettorato e risultato di una legge elettorale incapace di garantire una maggioranza stabile di governo. L’esecutivo, come quello sorto dopo il voto del 4 Marzo 2018, figlio della situazione di cui sopra, sostanzialmente era l’espressione di un “contratto necessitato”, che ha comportato l’avvio di un’alleanza di tipo trasformistico tra due partiti, M5S e Lega, portatori di interessi e di valori diversi e per molti aspetti alternativi. Un’alleanza andata in crisi nell’agosto scorso, sostituita da quella rosso-verde M5S-PD-LeU-ItaliaViva, anch’essa espressione di una condizione politica di emergenza e di necessità.
Lo sfascio che sta vivendo il CSM, infine, è il segnale drammatico di una crisi della giustizia con la quale appare in tutta la sua evidenza, la crisi di sistema dell’Italia. Si aggiunga (risultato delle politiche maldestre del governo giallo verde) il più forte isolamento internazionale patito dall’Italia nell’Europa, della cui Unione il nostro Paese è socio fondatore, per una politica estera ondivaga tra le rituali ubbidienze alle tradizionali alleanze occidentali e le pericolose aperture leghiste verso la Russia di Putin e pentastellate verso la Cina di Xi Jinping. Un isolamento che, solo con le nomine successive, dopo le elezioni europee, alla presidenza del Parlamento europeo di Sassoli e nella Commissione UE di Gentiloni e la paziente azione svolta dal premier Conte, si è potuto superare in Europa.
Anche sul fronte degli enti locali, dopo l’infausto riforma del Titolo V° della Costituzione, si vive con forti e diverse preoccupazioni l’irrisolto tema della maggiore autonomia delle regioni del Nord e dell’eterna questione meridionale. Continua la crisi strutturale dei bilanci di molti comuni italiani, la confusa situazione della chiusura-non chiusura delle province con tutti i problemi di attribuzione delle competenze tra le stesse province, i comuni capoluogo e le città metropolitane nate, sin qui, solo sulla carta . Una situazione di difficoltà e di crisi evidenziatasi ancor di più nella complessa gestione sanitaria della pandemia, con la confusione derivata dalle competenze esclusive e concorrenti tra Stato e Regioni. Ha sopperito sin qui la volontà di collaborazione che, tanto i responsabili dei governi regionali che la presidenza del Consiglio hanno saputo mettere in campo, pur con qualche distinguo e voglia di protagonismo, soprattutto per taluni, in funzione pre elettorale.
Se osserviamo anche la condizione della società civile, utilizzando la mia teoria euristica dei quattro stati: la casta, i diversamente tutelati, il terzo stato produttivo, il quarto non stato, ciò che emerge è il prevalere di una condizione di anomia morale, culturale, sociale, economica e finanziaria, caratterizzata dal prevalere di una scarsissima solidarietà di tipo meccanico funzionale, dal venir meno delle comunità, da una diffusa condizione di frustrazione premessa di possibili fenomeni di rivolta sociale, sin qui sotto traccia.
Al dramma sanitario vissuto dal Paese, si aggiungono le prospettive per alcuni versi ancora più ampie delle ricadute economiche e sociali. Il disagio sociale è caratterizzato da un’accentuazione sia delle diseguaglianze territoriali, che quelle tra i cittadini con l’ulteriore erosione del ceto medio e la divaricazione più severa tra ricchi e poveri. Il disagio sociale rischia contemporaneamente di ampliare il bacino di reclutamento della criminalità e di accentuare le spinte separatiste delle aree più sviluppate del Paese. Parimenti si stanno rafforzando le tendenze di forte contestazione alle politiche comunitarie, fino a un potenziale allontanamento dall’Unione europea, alimentate da culture sovraniste che, proprio nel dramma della pandemia, hanno rivelato la loro sostanziale inconsistenza e incompetenza di fronte a fenomeni globali che reclamano soluzioni di forte cooperazione internazionale. Se non si riprende il terzo stato produttivo già provato prima del Covid19 e adesso totalmente in ginocchio, la crisi rischia di diventare irreversibile.
Quali sono oggi gli interessi e i valori prevalenti? Interessi “particulari”, innanzi tutto, e “bene comune” ridotto a un oggetto misterioso per lo più dimenticato. Sul piano dei valori sono più diffusi quelli di natura egoistica, di esclusione e di chiusura alla comprensione e all’ascolto. Di qui la riduzione della politica a slogans di immediata e facile comprensione, con la comunicazione prevalente e diffusa dei social media e la politica ridotta a tweet e a scambi spesso irripetibili su facebook e instagram. La pandemia ha fatto, tuttavia, riscoprire valori di solidarietà e comunità di straordinario impatto sociale. Immediata la reazione di segno contrario quella emersa dalla manifestazione della destra e dei “pappalardini” del 2 Giugno a Roma.
Col venir meno dei riferimenti politico culturali tradizionali, quelli che sono stati alla base della nascita della Repubblica e del patto costituzionale, nell’attuale deserto delle culture politiche, lo strumento essenziale per offrire la soluzione storico politica all’ esigenza dell’equilibrio tra interessi e valori, ossia al ruolo proprio della politica, risulta inesistente e/o incapace di dare risposte, si ricorre a sporadici e occasionali mezzucci, più in linea con le tecniche di propaganda che con soluzioni e proposte di ampio respiro e di lungo periodo.
In questa condizione di crisi di sistema, la maggioranza giallo rossa al governo, ahimè, con la crisi della sinistra e l’assenza di un centro democratico, popolare e liberale credibile, sembra non avere alternative concrete; salvo quella di un’alleanza di estrema destra, tra Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia con la Lega, a netta dominanza salviniana. Una maggioranza quest’ultima che, se prevalesse, darebbe, dopo settant’anni di vita della Repubblica, la guida del Paese alla destra estrema e porterebbe al più grave isolamento dell’Italia in Europa.
Per uscire da questa grave crisi di sistema servirebbe un profondo mutamento spirituale e culturale, prima ancora che politico e organizzativo, senza il quale, temo, sarebbe impossibile affrontare le tre questioni essenziali del caso italiano:
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la questione antropologica, che attiene ai valori fondamentali della vita:
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la questione ambientale, su cui si gioca il destino dell’umanità e del pianeta Terra;
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la questione del nostro stare insieme nell’Unione europea, collegato al tema della sovranità monetaria e della sovranità popolare da cui dipendono tutte le altre riforme per garantire lavoro, pace e sicurezza al nostro Paese e alla quale sono strettamente connesse tutte le gravi conseguenze economiche e sociali post pandemiche.
Quanto al primo tema si tratta di testimoniare e tradurre sul piano istituzionale le indicazioni della dottrina sociale cristiana: dall’”Humanae Vitae” di San Papa Paolo VI a quelle di Papa Francesco. Quanto al tema ambientale, si tratta di impegnarci a tradurre sul piano politico istituzionale quanto indicato da Papa Francesco nella sua straordinaria enciclica “ Laudato Si”. Insomma serve rimettere in campo la cultura del popolarismo, unica in grado di offrire risposte convincenti ispirate dai valori della solidarietà e della sussidiarietà nell’età della globalizzazione.
Sul terzo tema, come vado scrivendo da molto tempo, si tratta di ripristinare la legge bancaria del 1936: tornare al controllo pubblico di Banca d’Italia e, nell’Unione europea, della BCE e reintrodurre la netta separazione tra banche di prestito e banche di speculazione finanziaria. I provvedimenti suddetti sono necessari per una ripresa di sovranità monetaria e popolare, pur nel rispetto dei limiti consentiti dalla nostra appartenenza all’UE e sarebbero in linea con la migliore tradizione della DC in materia di politica bancaria e finanziaria da essa sostenuta con Guido Carli, sino all’infausto decreto Barucci-Amato del 1992, che determinò il superamento della legge bancaria del 1936.
Il sottosegretario al ministero del Tesoro e finanze, On Alessio Villarosa, che ben conosce questi temi, potrebbe/dovrebbe farsi carico urgentemente di queste indicazioni, trascinando il M5S dalla fase delle proteste a quello delle proposte di riforma reali per il bene del Paese. Senza questa riforma di struttura finanziaria, anche “il Piano di rinascita” annunciato ieri dal premier Conte rischia, altrimenti, di tradursi nell’ennesimo libro dei sogni.
Ettore Bonalberti
4 Giugno 2020
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Alcune indicazioni dopo il Covid 19 (da Ettore Bonalberti)
Su “Il Giornale del Veneto”(http://ilgiornaledelveneto.it), è stato recentemente pubblicato una nota del prof Giuseppe Zaccaria, già Ordinario di Teoria generale del diritto e Rettore all’Università di Padova, attualmente Membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, che ha delineato una sorta di mappa (10 tesi) sull’era post-pandemica che vi invio al fine di favorire il nostro dialogo.
Riflettere sulla pandemia. 10 tesi sull’era post-pandemica (di Giuseppe Zaccaria)
Le ferite profonde originate dall’effetto coronavirus ci insegnano molte cose, e soprattutto ci costringono a rimettere in discussione una serie di temi nevralgici per la nostra esistenza individuale e collettiva. Molte narrazioni sono andate in frantumi e c’è bisogno di riflessione. A condizione di rinunciare a rifugiarsi nei propri pregiudizi e nelle proprie certezze ideologiche e di mantenere uno spirito critico, è indispensabile fermarsi a pensare sulle le macerie della crisi immane che la pandemia ci lascia, per capire se sotto di esse possano crescere, al di là delle retoriche stucchevoli delle ferite che divengono opportunità, nuove idee per il futuro. Da questo punto di vista il virus ha agito nei diversi Paesi come un pettine impietoso, in modi differenziati in relazione alle diverse capacità di risposta, e ha evidenziato la necessità di misurarsi con una serie di nodi e di problemi troppo a lungo colpevolmente trascurati; ma contemporaneamente esso ha operato come un forte acceleratore storico di processi sociali ed economici che oggi si ripresentano sotto il segno drammatico dell’urgenza e dell’incertezza e la cui ennesima sottovalutazione avrebbe per effetto di pregiudicare in modo irreparabile la possibilità di un futuro un po’ meno precario ed incerto.
Prima tesi
Pandemia e globalizzazione: miseria del sovranismo
Una cosa la pandemia ha mostrato con chiarezza: la connessione tra un grande e distruttivo processo, senza precedenti, di tipo sanitario, sociale ed economico e le vite di ciascuno di noi. Senza dubbio la pandemia è un problema globale, che ha svelato l’inganno del sovranismo. Piccolo o grande che sia, il sovranismo svela tutta la sua inconsistenza e la sua impotenza di fronte a problemi giganteschi, come quello della prevenzione delle epidemie, della necessità di una logica di cooperazione nella ricerca di antidoti e nello scambio di dati, della necessità di una medicina e di una tecnologia d’eccellenza, indispensabili per combattere sfide così rilevanti ed invece impossibili in una logica di chiusura provincialistica ed autoreferenziale. Altro che sovranismo isolazionista, serve una solidarietà globale.
Ma al tempo stesso, la globalità della pandemia apre anche delicati meccanismi psicologici nelle nostre vite individuali. Si aprono così dinamiche ambivalenti. Da un lato il singolo si sente incapace nella sua fragilità di fronteggiare eventi e fenomeni che lo sovrastano; dall’altro ciascuno ha potuto toccare con mano quanto importante sia la responsabilità individuale, la rilevanza per il futuro (e questo vale anche per il cambiamento climatico e la distruzione dell’intero ecosistema) del comportamento di ogni singolo in quanto membro di una comunità.
Seconda tesi
Una diversa dimensione del tempo e dello spazio
Un secondo aspetto rilevante è costituito dalla diversa dimensione del tempo e dello spazio che abbiamo sperimentato e che dovremo sperimentare anche nel futuro. Questo mutato rapporto spazio- tempo indurrà profondi mutamenti nei processi lavorativi e negli usi degli spazi privati e pubblici. Maggior ricorso allo smart-working, mobilità ridotta, minor numero di viaggi, maggiore disponibilità di tempo a casa, rarefazione dei rapporti fisici (anche di quelli più banali ed effimeri) imporrano una ri-modulazione dei tempi di vita individuali e collettivi e la ricerca di un equilibrio diverso nella produzione e nei consumi rispetto al frenetico e talora insensato agitarsi che caratterizzavano l’era pre-pandemica. Si porrà il problema di un uso diverso del tempo, della consapevolezza della sua preziosità non solo in senso economicistico ed opportunistico, ma in un quadro di più equilibrata e matura capacità esistenziale di utilizzarlo e di non sprecarlo.
Terza tesi
Individuare i problemi e le vere relazioni.
Nelle scorse settimane abbiamo riscoperto la possibilità di distinguere meglio tra problemi veri (la salute, gli affetti, il clima, i bisogni più profondi) e problemi futili, che tanto spesso ci angustiano inutilmente, tra persone che contano e ci interessano e rapporti superficiali e poco produttivi, tra disinformazione e ricerca di un’informazione più seria e accurata. Occorre studiare nuovi modi di comportamento, di lavoro e di vita sociale. Si impone anche la necessità, difficilmente aggirabile, di ridefinire una scala di valori, di non disperdere nel giro di breve tempo quel prezioso senso di solidarietà e di comunità che abbiamo capito rappresentare una risorsa fondamentale in tempi angosciosi di difficoltà e di incertezza. C’è bisogno, anche nel rapporto con gli altri, di trovare “la giusta distanza” tra il cieco individualismo degli anni passati ed un senso di comunità che non sia soltanto retorico e finisca per essere abusato negli spot televisivi. Abbiamo un “interesse” comune alla solidarietà, perché i soggetti più deboli rendono più fragile l’intero sistema sociale, cosicchè la pandemia, con i suoi effetti disarmonici e imprevedibili sul piano economico, rischia di destabilizzare l’intero sistema sociale.
Quarta tesi
Irrinunciabilità e pericoli della tecnologia.
L’esperienza degli ultimi mesi, in cui si è assistito ad una forte accelerazione nell’uso delle tecnologie, ci è stata utile per capire meglio l’ambivalenza della tecnologia. Da una parte la sua irrinunciabilità, se pure non ha saputo prevedere la catastrofe: essa ci è indispensabile per sopravvivere nel lockdown, per continuare a lavorare da remoto, per rimanere collegati a persone lontane, per fornirci di merce, per sostituire, come sempre più spesso avviene, molte attività umane. Ma dall’altra parte è evidente come essa possa determinare un impoverimento delle relazioni sociali e dei rapporti tra le persone, sterilizzati e ridotti alla fredda asetticità della macchina. Le relazioni tra le persone non possono ridursi alla tecnologia delle connessioni digitali. Agli anziani chiusi in casa dal lockdown si poteva forse parlare on line, ma non consegnare il pacco della spesa. Solo per fare un altro esempio: se non circoscritto a
precisi progetti mirati di crescita, l’insegnamento generalizzato a distanza nelle scuole e nelle università, trasformato da eccezione in regola, distruggerebbe l’esperienza umana e intellettuale della formazione, fatta di incontri e di scambi concreti tra docenti e studenti. Entrambi verrebbero privati di luoghi fisici in cui comunicare e porsi in relazione, e di mettere in moto non solo fredde nozioni virtuali, ma anche processi emotivi e cognitivi di crescita personale e sociale.
La tecnologia può inoltre determinare profili inquietanti di distruzione della privacy e di sorveglianza sociale. Fino a che punto la privacy potrà essere compressa e fin dove dovremo essere controllati? Anche senza contare la miriade di Dpcm, che in una sorta di delirio pangiuridicista hanno definito nel modo più dettagliato e minuto ciò che possiamo e che non possiamo fare, si impone in modo acuto il problema dei limiti da apporre all’invasione tecnologica che entra nel dettaglio delle nostre abitudini e dei nostri comportamenti e ci espone all’offensiva di infiltrazioni “digitali” da parte di Paesi stranieri. Già oggi il Presidente della Regione Veneto, il Direttore Generale della Sanità Veneta e i singoli Direttori Generali hanno la possibilità di conoscere minutamente una serie di dati sensibili di tutti i cittadini veneti. Cosa succederebbe se invece che essere impiegate per il nobile fine di contrastare l’epidemia, queste conoscenze fossero utilizzate per condizionare politicamente fasce di elettorato o per scopi di natura commerciale?
Quinta tesi
Il futuro dell’economia, dell’istruzione e delle città
Lo Tsunami economico che il coronavirus lascia sul campo avrà per effetto un vertiginoso aumento dei tassi di disoccupazione: interi settori produttivi ne risulteranno distrutti, altri invece realizzeranno enormi profitti. Aumenteranno così drammaticamente le disuguaglianze economiche, sociali e culturali tra Nord e Sud, tra città e province. Al generale impoverimento del reddito in Italia corrisponderà prevedibilmente una crescita di distanza dagli altri Stati europei. Ricchi e privilegiati si barricheranno in ghetti dorati, lasciando moltissimi altri nella povertà e nell’ esclusione. Che ne sarà dei giovani che senza alcuna tutela hanno assicurato in questo periodo il funzionamento dei servizi di delivery? Diminuiranno i viaggi, le interazioni e gli interscambi globali, aumenteranno le videoconferenze e i rapporti virtuali, gli orari di lavoro diverranno più flessibili. Sarà necessario riportare all’interno del Paese anelli di catene di produzione che si sono rivelati indispensabili per fronteggiare l’emergenza, per non alimentare pericolose dipendenze strategiche dall’aiuto non certo disinteressato di altri Paesi.
A causa del digital divide tra aree più e meno sviluppate e del fatto che già oggi il 30% degli italiani rinuncia a proseguire nell’istruzione a livello superiore, verranno messi in discussione i diritti fondamentali all’istruzione e al “pieno sviluppo della persona umana” previsti dalla Costituzione.
Le nuove povertà riguarderanno sicuramente i soggetti deboli e meno tutelati e si assisterà ad una crescita della dispersione scolastica e dell’isolamento sociale ed educativo delle fasce sociali più deboli.
Che ne sarà del futuro delle città? Verranno distrutti gli spazi pubblici? Conserveranno una funzione le piazze e i luoghi di aggregazione? In un quadro di maggiori difficoltà per una mobilità di massa e di limitazione delle concentrazioni di massa, come dovranno essere ripensati i trasporti, i quartieri, i rapporti tra centro e periferia? Sarà possibile rivitalizzare i
negozi di vicinato e reinventare servizi nuovi distribuiti sul territorio? L’incentivazione dei mezzi di trasporto green scongiurerà almeno in parte il ritorno massiccio al trasporto privato?
Sesta tesi
La scienza e la riscoperta delle competenze
Gli ultimi mesi hanno costretto a riscoprire la necessità delle competenze, quelle vere non quelle improvvisate che si esibiscono nei talk show, che mettono in un unico, indistinto calderone virologi e patologi, epidemiologi e immunologhi. Le competenze vere servono, eccome, per costruire scelte sanitarie e politiche economiche attrezzate e consapevoli, per disegnare scenari futuri attendibili, non per cancellare l’ignoto. C’è grande bisogno di conoscenza. Ma questa importante rivalutazione della scienza e della trasversalità del sapere, oggi più che mai necessaria in una società complessa, non deve condurre a credere che la scienza sia tutto. Si tratta di evitare che essa divenga ciò che deve decidere del nostro vivere sociale, che venga cioè investita di una dimensione politica che in questo senso le è estranea. La scienza autentica è abitata da dubbi, da incertezze, da verità provvisorie, da correzioni; l’immagine della scienza che viene invece veicolata dai salotti televisivi e anche da molti politici timorosi è quella di chi possiede certezze inconfutabili. Dobbiamo chiederci quali problemi la scienza sia davvero in grado di contribuire a risolvere, quali ne siano i limiti e non chiederle ciò che essa non può dare.
Settima tesi
La centralità della decisione politica
Assieme alle titubanze di chi si rifugia dietro i pareri inappellabili dei Comitati tecnico- scientifici, l’esperienza della lotta al coronavirus ha mostrato la centralità e comunque l’irrinunciabilità della decisione politica. Sapere è diverso da decidere. Alla fin fine ciò che conta è l’assunzione di una responsabilità politica forte e chiara davanti al cittadino. Scienziati e tecnici non hanno sicuramente nessuna delega. Nella fase dell’emergenza i governi hanno cercato di fare del loro meglio di fronte ad uno scenario inedito, talora hanno preso decisioni drammaticamente sbagliate e sono stati costretti a precipitosi dietrofront, ma il cittadino ha capito, fuori dalle strumentalizzazioni di piccolo cabotaggio, che possono sbagliare. Meglio avere il coraggio di ammetterlo, come ha fatto Macron, piuttosto che mentire all’opinione pubblica. Ma ora la politica ha bisogno di sguardi alti, che trascendano la contingenza della quotidianità e che riaccendano la speranza dando il senso di un progetto comune, consapevole della specificità di una storia nazionale e capace di ridare prospettive e visioni per il futuro. C’è bisogno di leadership che uniscano le società e non le dividano, che aiutino le persone a tenere sotto controllo le paure, non ad aizzarle. Le decisioni che oggi si assumono sotto la pressione dell’urgenza peseranno sicuramente molto sul futuro del Paese e delle future generazioni, che dovranno pagare il conto salatissimo dell’ulteriore crescita del debito pubblico.
Guai se la statualità oggi necessaria dovesse tradursi in statalismo, se si dovesse stimolare esclusivamente un atteggiamento di tipo assistenzialistico e passivo, deresponsabilizzato e poco propenso ad attivarsi e a reagire con audacia e coraggio; ma guai anche se dovesse prevalere un’attitudine cinica e sfiduciata, prigioniera della frustrazione e del sospetto, o peggio dell’atteggiamento arrogante di chi sa esattamente dove va il mondo.
La pandemia ha mostrato impietosamente tutta l’inadeguatezza della politica praticata negli ultimi anni, quella che ha affidato la vita e il futuro di tutti noi a soggetti improvvisati, quasi capitati per caso, espressioni talora di residualità sociale.
Ottava tesi
Il futuro degli Stati e della Geopolitica
Non c’è dubbio che l’epidemia ha permesso di evidenziare il ruolo irrinunciabile degli Stati, che nonostante la loro crisi e il loro ridimensionamento rimangono come attori essenziali nel fronteggiare le emergenze e nel limitarne i danni. Anzi si è assistito ad una regressione di tipo hobbesiano: pur di salvare la propria vita il cittadino ha consegnato i propri diritti nelle mani dello Stato. Positiva può essere la riaffermazione del ruolo strategico del settore pubblico, ma rimane il pericolo di un’involuzione decisionistico-autoritaria (marginalizzazione dei parlamenti, compressione delle libertà individuali) non solo negli Stati caratterizzati da regimi di “democrazia illiberale”, ma anche in quelli di (apparentemente) maggiore solidità democratica.
Rimane peraltro, almeno nell’Unione Europea, l’impossibilità di prescindere dall’aiuto e dal sostegno di istituzioni comunitarie tanto vituperate e oltraggiate e indubbiamente anche in questo caso divise e inizialmente incerte, ma indispensabili per evitare la bancarotta di Stati fondatori dell’Unione, ma anche il collasso dei rapporti economici e commerciali intraeuropei.
Sullo sfondo dei colpi della pandemia, si sta consumando una dura competizione per ridefinire nuovi equilibri geopolitici, più attenti ai pericoli di un’incontrollata penetrazione cinese ma anche ai rischi di una superpotenza americana drammaticamente inadeguata ad un ruolo di guida e di orientamento multilaterali. Indubbiamente chi risulterà vincitore nella corsa al vaccino e alla protezione antiepidemica godrà di un consistente vantaggio strategico.
Nona tesi
Il futuro dell’ospedalizzazione e della medicina
Dopo anni di colpevole indifferenza e di irresponsabili tagli alla sanità (quasi del 40% negli ultimi 8 anni!), si è compresa in pieno la crucialità di disporre di un modello di ospedalizzazione e di sanità efficiente e pronto ad affrontare flessibilmente crisi ed emergenze inedite, non solo con centri di alta specializzazione, ma anche con una capillare capacità di intervento sul territorio. Si è anche compresa fino in fondo la rilevanza di un predominante presidio di sanità pubblica, gestito da persone di sicura competenza e non da figure scelte sulla base di logiche solo partitiche.
Si dovrà quindi investire molto di più in ricerca, in attrezzature e nel personale, lavorare molto in prevenzione, con un nuovo equilibrio tra medicina del territorio e ospedalità, tra pubblico e privato.
Per favorire la sicurezza e per la riduzione del rischio occorre un approccio flessibile, proattivo e non difensivo o semplicemente reattivo.
Decima tesi
Preparare il futuro
Nel giro di poche settimane migliaia di famiglie sono precipitate nella sofferenza e nel dolore e milioni di persone sono passate da condizioni minime di autonomia e di benessere alla povertà e all’indigenza della disoccupazione. La povertà economica rischia rapidamente di trasformarsi in disperazione e in povertà spirituale.
La rovina sociale porta con sé ancora maggiori difficoltà di inserimento/re-inserimento nel mondo del lavoro per donne, giovani, precari, adulti maturi.
Sono essenziali maggiore solidarietà e coesione sociale. Non sprechiamo gli insegnamenti di questa crisi amara e le difficili lezioni che ci lascia. Dovremo essere più locali, ma anche avere uno sguardo più ampio per trovare soluzioni più globali. Il futuro va preparato oggi.
Giuseppe Zaccaria
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Si fa un gran parlare, in Italia, del bisogno e della voglia di cambiamento che i cittadini chiedono in politica. Si domandano volti nuovi e proposte che portino speranza ad un Paese che continua a subire la crisi economica e i provvedimenti presi per arginarla. Si reclama, sì, un cambiamento di rotta, ma anche un nuovo tipo di etica che guidi i passi di chi se ne dovrebbe fare portatore.
In tutto questo, che c’entra Romolo Murri? Tornando indietro con la storia e cambiando epoca, protagonisti e mezzi, ma non gli ideali di fondo, possiamo notare che ciò accadeva in Europa agli inizi del XX secolo, quando i Paesi occidentali del vecchio continente erano attraversati da quel fenomeno ampio e particolare che va sotto il nome di modernismo, segnato in Italia dai governi giolittiani e dall’alleanza clerico-moderata, con l’appoggio indiretto della borghesia cattolica che teme l’avanzata socialista.
Leone XIII e Pio X si succedono al soglio pontificio: cauto ma favorevole al dibattito modernista il primo, conservatore e poco incline al modello di riformismo il secondo. La Chiesa di Roma, arroccata dietro l’immobilismo della società e della vita, sembra non volersi accorgere del divario che cresce fra il mondo della prassi e il mondo del pensiero, accentuato dal progredire delle scienze e della tecnica. Perciò si oppone all’impegno di chi sta cercando di equilibrare la fede con il progresso scientifico. Si assiste al fenomeno della secolarizzazione, che genera consuetudini ed ideali differenti a livello di massa, che riducono il potere ecclesiastico, il quale si trova impreparato a reagire con adeguati strumenti ai nuovi scenari economici e culturali.
I riformisti italiani ricercano nella Chiesa, in modo non forzato, maggiore apertura verso il progresso e maggiore rispetto verso le libertà e le istanze democratiche e politiche; ma la gerarchia ecclesiastica italiana vive nel passato e si rifiuta di accettare i segni dei tempi: essa rispetta l’unità nazionale, la democrazia, la libertà di coscienza e la libertà civile. In questo clima di scontro fra rinnovamento e conservatorismo che attraversa il mondo cattolico italiano spicca, per carisma e caparbietà, la figura del sacerdote e politico Romolo Murri.
Agli inizi del ‘900, fonda e dirige diverse riviste: “Vita Nova”, “Cultura Sociale”, “Il Domani d’Italia”, luoghi di incontro e fonti di idee che possano schiudere un avvenire ben diverso dall’opacità del presente e reso meno difficile dalle parole del Pontefice che, nella Rerum Novarum, aveva chiamato i cattolici ad ampi e definiti impegni in campo sociale. Di fronte ai giovani imbevuti di cultura c’era tutto il popolo, da conoscere, da svegliare, da rinsaldare nella fede cristiana, da conquistare ad una più larga giustizia sociale e a migliori traguardi civili. Su queste riviste egli ha modo di studiare l’evoluzione della situazione politica italiana durante la crisi di fine secolo, presentendo gli spazi che quest’ultima apre alla diffusione delle idee socialiste e ad una probabile forza cattolica organizzata. Analizza quindi la struttura e il funzionamento del Partito Socialista, con l’intento di costituire uno schieramento cattolico in grado di contrastarlo, impiegando i suoi stessi mezzi organizzativi e propagandistici. A questo, il sacerdote unisce l’idea di dover dare all’eventuale partito una certa cultura politica e religiosa moderne. Il prete si impegna in misura sempre crescente sul fronte della discussione politica, appoggiando l’astensionismo cattolico e l’idea per la costituzione di un nuovo partito democratico cristiano.
Dopo una serie di scontri, il Murri viene separato dal suo movimento, risulta sgradito ai cattolici, è ripudiato dai giovani e sconfitto alle elezioni del 1903.
La sconfitta lo porta a riflettere sulle esperienze precedenti. Difende perciò la sua Democrazia, confermando la volontà di portare avanti una politica religiosa vasta e tollerante e l’esigenza di riorganizzarsi come corrente politica a vocazione democratico-cristiana. Non vuole adattarsi ad una linea politica che emargina i cattolici, assoggettandoli alle classi conservatrici. Mette, pertanto, i militanti nelle schiere del movimento cattolico davanti a un bivio: accettare lo spregevole compromesso clerico-moderato, oppure divenire una vera alternativa alla classe dirigente liberale, facendo leva sul proletariato cristiano, la cui attivazione democratica è il merito della DC.
L’azione di Murri inizia quando i cattolici collaborano con i moderati in varie attività e ambienti: appoggiano quasi tutti la monarchia e giudicano l’Unità d’Italia una verità ineluttabile, proseguono con dedizione lo scontro con lo Stato per cambiarne la vita pubblica e interagirvi. Egli vuole invece creare un movimento nuovo che raccolga tutte le personalità cattoliche. E’ necessario rendere cristiana la democrazia e porsi dalla parte della massa. Il primo programma di Murri è una sorta di cattolicesimo liberale, ma di fronte al conservatorismo delle autorità ecclesiastiche e laico-intransigenti, presto propone un programma nuovo, riflettendo sulla somiglianza tra lo spirito della democrazia e lo spirito del cristianesimo.
Parte dall’affermare che il cristianesimo deve essere riportato alla sua originalità, quindi svincolato da tradizioni storiche secolari e da ormai desuete teorie che non aiutano a comprendere il suo reale insegnamento e impediscono il rinnovamento della conoscenza religiosa. E’ quindi necessario riconfermare le caratteristiche del messaggio cristiano: uguaglianza, rispetto, carità, onestà, fratellanza. Valori questi che sono alla base delle singole coscienze e di tutti i rapporti sociali. La democrazia è di conseguenza giustizia, solidarietà, carità, processo di educazione all’autonomia; le sue tematiche sociali sono la libertà, lo sviluppo civile e culturale, la partecipazione attiva e l’impegno per la valorizzazione dell’essere umano.
Su queste basi, il 3 settembre 1900 Romolo Murri dà origine a Roma alla Democrazia Cristiana.
Romolo Murri resta ancora oggi una figura scomoda e imbarazzante nella storia del movimento cattolico, a causa delle sue vicissitudini intellettuali e politiche, oltre che umane, che hanno indotto la storiografia cattolica ad occultare il suo ruolo e la sua importanza.
Un regime democratico non può sopravvivere senza una giustificazione filosofica e senza una ispirazione evangelica, perché una politica umanistica presuppone l’esistenza dei diritti della persona umana e la conoscenza della miseria e della grandezza dell’umanità. La democrazia esige iniziative e responsabilità, e richiede la partecipazione del popolo, vuole il suffragio universale, l’uguaglianza giuridica, la sicurezza economica, la pace internazionale, per permettere alla persona umana di realizzarsi nella storia e oltre la storia.
Il modello attuale di democrazia non è certo privo di retroterra cristiani, e nell’ambito cattolico, nel quale l’espressione stessa “Democrazia Cristiana” è storicamente legata al modernismo, incontra difficoltà nell’affrontare l’autonomia dei singoli ambiti del sapere e della società.
La strada intrapresa in democrazia dai movimenti politici cristiani -cattolici- è consistita in un tentativo di governo delle circostanze momentanee. Il rapporto tra cristianesimo e democrazia sembra essere incapace di rinnovarsi. La democrazia ha sempre condotto una battaglia sulla difensiva, contro gli eccessi della modernità, ma incapace di liberarsi dalla nostalgia nei confronti del passato e in particolare dal modello della civitas christiana costituito nel Medioevo, che sul piano dei principi ha sempre rappresentato una sorta di vagheggiata età dell’oro. La riflessione politica cristiana costituisce oggi un volano delle potenzialità della democrazia. Al contempo, la necessità di comprendere a pieno la dignità e lo spessore dell’autonomia dei soggetti, con le diversità di lingue, di opinioni ed anche di interessi ed egoismi, costituisce una sfida di arricchimento ineludibile per un pensiero autenticamente cattolico; come la libertà è indispensabile all’esperienza di fede soggettiva, così la democrazia sembra presupposto inevitabile ad un’autentica esperienza di chiesa. Contrapposizioni del passato non sono che una riprova della reciproca interdipendenza tra cristianesimo e democrazia; e i tempi odierni possiedono le potenzialità e l’interessante opportunità di lasciarla emergere in modo nuovo e interessante.
Riconoscere i problemi su tale livello costituisce un punto di partenza di non poco conto per l’epoca attuale, prigioniera di una pigrizia da fine della storia, e soprattutto pericolosamente inclinante nella direzione di trovarsi ad affrontare rinnovati problemi di rapporti tra religione e politica con strumenti assolutamente non efficaci.
Allora, e ormai in un contesto secolarizzato, si tratta, per le comunità post-moderne e per le comunità religiose, di fare i conti con un tempo veramente oltre il tempo; di fare i conti con l’alterità personale.
Possiamo affermare, in accordo con Romolo Murri, che il movimento sociale cristiano ispirato alla Rerum Novarum deve trovare nella adesione piena alla democrazia e alla libertà politica il suo compimento. E dobbiamo riconoscere la necessità, senza rimpianti per un passato che non ritorna, di gettare le premesse per favorire, in un contesto nuovo, la realizzazione di un progetto politico cattolico.
Le intuizioni di Murri, di Sturzo, di De Gasperi, di Moro, hanno oggi una forte convalida ideale e storica. E i cattolici che vogliono operare in politica, in piena responsabile autonomia, è giusto che assumano una qualificazione cristiana, che è anche un severo richiamo al risanamento morale e alla necessità di cambiamenti non effimeri nella vita sociale, economica, politica, ambientale.
Abbiamo il dovere di tornare ad essere democristiani e popolari dentro un’azione di testimonianza cristiana, potenziando una rete di relazioni stabili tra le varie realtà di ispirazione cristiana sensibili al sociale, per realizzare un pluralismo ordinato. In questo senso un’attualizzazione dei valori di Murri potrebbe dare fiducia nella buona politica e aiutare a superare la grave crisi culturale e politica attuale, rappresentando un antidoto all’antipolitica, alla deriva populista, alla sinistra senz’anima.
Antonia Flaminia Chiari
Centro Studi Leone XIII
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Alcide De Gasperi, Dc,
un grande nella storia dell’Italia dopo la guerra
L’Italia usciva sconfitta nel 1945. Negli ultimi due anni al centro nord (1943/45), tra resistenza e guerra civile, le morti e i conflitti sociali interni erano divenuti esplosivi. Monarchici e repubblicani dividevano pericolosamente la politica italiana. Dal nord est giungevano voci tremende sulle stragi che i comunisti Jugoslavi di Tito compivano ai danni degli italiani (le foibe). Povertà e miseria rendevano pesantissime le condizioni di vita delle fasce più deboli. Al sud disoccupazione e latifondo gravavano sulle plebi meridionali.
Nel 1950 il governo De Gasperi vara due riforme imponenti: riforma agraria e legge per il mezzogiorno. Con la riforma agraria, De Gasperi impegna 750mila ettari di terreno a nuove regole, 200mila tra Basilicata e Puglia, cifre e numeri impressionanti che determinano sviluppo immediato per larghe fasce della popolazione. Da mezzadri a proprietari (la terra ai contadini) che dissodano, che arano, che coltivano: un gran fermento attraversa le campagne, e l’Italia torna a sorridere. La mano d’opera agricola rimane nel territorio, le tensioni sociali si mantengono nei livelli accettabili, lotti poderi quote sono il risultato di espropri ai danni dei latifondi e delle famiglie più blasonate della borghesia meridionale. Ma poi, tra il 1950 e il 1952, De Gasperi va oltre: vara la riforma fiscale, il piano Ina-Casa, il piano forestazione e rimboschimento, il piano di addestramento professionale. E per brevità mi fermo qui.
Perché tanto successo di De Gasperi e della tradizione storica della Democrazia Cristiana? De Gasperi, e il pensiero cattolico in generale, mirava ad una economia civile, a recuperare grandi possibilità di lavoro per tutti, a creare le condizioni del lavoro, a rendere le persone libere dal bisogno, a creare ricchezza e distribuire ricchezza, a includere e non ad escludere dai processi produttivi, ad aggregare e non a separare. In una parola, mirava a realizzare qualcosa che si avvicinasse alla nozione di felicità postulata dal grandi del pensiero teorico secondo cui, per dirla in breve, una persona è felice quando l’attività dell’anima secondo ragione è in esercizio e i bisogni fondamentali vengono soddisfatti. Lavoro e giustizia sociale sembrano oggi essere le maggiori aspettative della maggioranza del popolo.
Appena la Federazione popolare dei democratici cristiani, la nostra formazione politica, avrà completato gli aspetti legati al nome, al simbolo, allo statuto e alle regole interne per rendere il Partito luogo di democrazia e di giustizia, di elaborazione di proposte e di progetti, una entità capace di attrarre e non di respingere o peggio ancora sede di rampantismo politico, occorrerà mettere mano alle grandi questioni che ci derivano dal nostro essere cristiani: il capitalismo finanziario che disgrega e non unisce, l’Europa dei popoli e della solidarietà e non l’Europa dei Trattati senz’anima, i grandi investimenti in opere e dove e come trovare le risorse finanziarie che li permettono, le risposte concrete ai nostri giovani che devono poter entrare nei sistema produttivo dopo gli studi. E l’elenco delle cose da fare non finisce qui.
Pasquale Tucciariello – Centro Studi Leone XIII -
www.tucciariello.it
Pasquale Tucciariello
Centro Studi Leone XIII
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Da tempo, non solo in Occidente ma in ogni parte del mondo, è in atto un processo di rinnovamento. Un passaggio epocale, una rottura drammatica di paradigmi.
Il singolo individuo oggi si trova a vivere una varietà di appartenenze politiche, economiche, sociali, culturali, religiose; una pluralità non sempre coerente di condizioni ed un complesso non mediato di riferimenti ideali. Inoltre, rifugge da scelte definitive in ogni campo della vita umana, preferendo la varietà delle esperienze occasionali, contingenti. Pertanto anche le sue appartenenze sono deboli.
Non a caso si assiste alla sempre più diffusa presenza di una mentalità libertaria nella società del nostro tempo. Tale mentalità attribuisce un ruolo centrale alla soggettività, per cui fa sì che la prospettiva di ciascun individuo sia sempre più centrata sul soddisfacimento dei propri bisogni, sulla ricerca delle condizioni meglio rispondenti ai propri desideri, sulla valorizzazione di qualsiasi opportunità che non comporti né responsabilità né impegni troppo gravosi, e sulla possibilità di evitare qualsiasi esperienza negativa. Fa, quindi, del benessere materiale uno dei criteri informativi delle scelte che ciascun individuo è chiamato quotidianamente a compiere.
Nel clima di estrema precarietà in cui si trova a vivere, l’uomo – diviso, lacerato, chiuso in un’antropologia riduttiva che ha prodotto una cultura nichilista e profondamente rassegnata e che è diventata mentalità e visione del mondo - guarda alla realtà con totale disincanto, e accetta una sorta di eclettismo o di qualunquismo quasi in ogni campo. Ritenendosi peraltro in possesso delle risorse necessarie per inventare se stesso, l’uomo ha progressivamente rinunciato a cercare Dio, ad avvertirne il bisogno. Ha fatto così del suo essere al mondo l’unico orizzonte possibile della sua esistenza. Escludendo inoltre sistemi di valore universalmente riconosciuti, si è ridotto a cercare il senso della vita nelle esperienze offerte dalla quotidianità. Perciò ogni giorno più forte è la sua inquietudine e più profonda è la sua insoddisfazione.
Non ha nostalgie né rimpianti: interamente ripiegato sul presente e immerso nella banalità del quotidiano, conduce la sua esistenza come sopraffatto dagli eventi, accettandone il repentino e inesorabile trascorrere. E, per quanto si adoperi per dare un senso alla propria esistenza, di fatto vive, per usare l’immagine di Kafka, come viaggiatore in un treno che si è perduto nel buio profondo di una galleria. L’uomo del XXI secolo, totalmente immerso nella routine quotidiana, conduce i suoi giorni come Sisifo, condannato dagli dei a portare in cima al monte il macigno che immancabilmente rotolerà a valle.
In quest’epoca di disincanto del mondo si profila di nuovo per l’uomo la minaccia di precipitare nella condizione denunciata da Hoelderlin in una celebre pagina di Iperione: <<Vedi operai ma non uomini, padroni e servi, giovani e gente posata ma non uomini>>.
E’ in considerazione di quanto detto che ci chiediamo se è possibile un nuovo umanesimo. Esaminare questa possibilità è una maniera corretta di prendere posizione contro il tentativo di mettere da parte il fondamento dell’identità personale dell’uomo, e di denunciare il nichilismo. Vattimo ben descrive la condizione attuale dell’uomo: << La crisi dell’umanesimo……in Nietzsche e Heidegger…..si risolve in una cura del dimagrimento del soggetto per renderlo capace di ascoltare l’appello di un essere che non si dà più nel tono perentorio del pensiero di pensiero, o dello spirito assoluto, ma che dissolve la sua presenza-assenza nei reticoli di una società trasformata sempre più in un organismo di comunicazione>>.
Parlare di neoumanesimo sollecita riflessioni etiche. La società del rischio richiede un’etica della responsabilità come etica della salvaguardia, anche perché i rischi maggiori per i moderni sistemi sociali derivano dalla conoscenza stessa e dai meccanismi che questa innesca. Alla consapevolezza della crisi del pensiero, dei paradigmi conoscitivi e delle visioni del mondo, si aggiunge la consapevolezza di confrontarsi con attori sociali, azioni, strumenti, comportamenti, tecnologie, sistemi complessi sempre più caratterizzati dalla dimensione della razionalità limitata. Poiché il neoumanesimo non può e non deve caratterizzarsi per un semplice adeguamento dell’etica e del pensiero critico alla straordinaria varietà della prassi scientifica e della tecnologia, occorre formulare nuove ipotesi e domande. Occorre formulare un neoumanesimo che parta dal ripensamento complesso del sapere, dello spazio tra i saperi, e soprattutto dello spazio relazionale : libertà e responsabilità; centralità dell’educazione, che ponga la Persona e non la tecnica, al centro del processo di mutamento in atto; che non consista nella antistorica riaffermazione di certi valori fondamentali in un contesto storico globale segnato da un profondo vuoto etico, da indifferenza e torpore morale, da incertezza e precarietà divenute ormai condizioni esistenziali, dal trionfo dell’individualismo, di nuove asimmetrie e dal conseguente indebolimento del legame sociale.
Un neoumanesimo che deve necessariamente ridefinire le categorie di umanità, dignità, persona, valore, diritti, per poter ripensare l’essere umano nel mondo, all’interno di un rinnovato e completo rapporto con gli ecosistemi e con innovazioni tecnologiche rivoluzionarie e talvolta invasive.
Una siffatta concezione chiama in causa un modo differente di stare al mondo e nel mondo, che si fonda su un nuovo rapporto con gli altri esseri viventi e con il mondo delle cose.
Ma il processo di potenziamento dell’essere umano potrebbe comportare la negazione della sua umanità: debole, vulnerabile, ma piena, proprio perché fatta anche di limiti, errori e fallimenti. E la vita non può essere trasformata in meccanismo o procedura.
Un’idea, una visione, un progetto che chiamano in causa le questioni della responsabilità e di una delega alla tecnoscienza che si preannuncia rischiosa se concessa in bianco. La questione etica torna ad avere una rilevanza strategica e contribuisce a definire la proposta di un neoumanesimo che deve farsi strumento interpretativo complesso in grado di ridare senso ad una ipercomplessità indefinita e apparentemente senza limiti.
Le nuove tecnologie ci stanno abituando ad un pensiero binario, condizionato da scelte fatte da altri, da algoritmi e da intelligenze artificiali, e da coloro che li hanno creati. Il pensiero critico sembra essere scomparso, come pratica e come bisogno, reso complicato dalla velocità che ci travolge. Eppure di pensiero critico c’è ancora bisogno, anche riguardo alla tecnologia e ai cambiamenti che sta determinando sui possibili scenari futuri.
Potenziato dallo sviluppo illimitato della tecnica, l’uomo non si limita più a trasformare la natura, ma ha acquistato la capacità di creare la natura, di introdurre nella scena prodotti e processi nuovi, alterando le leggi stesse dell’evoluzione. Dall’alleanza tra l’imperativo della tecnica, che rende obbligatorio e legittimo ciò che è divenuto possibile, e la hybris del soggetto moderno, ha origine una sproporzione tra il potere umano di creare e la capacità del soggetto di essere all’altezza del proprio potere. Ne deriva una scissione della coscienza, prodotta dalla divaricazione tra le facoltà del fare e del produrre da un lato, e dall’altro tra quelle dell’immaginare e del prevedere. Sottoposto alla pressione coattiva di una produzione senza telos, l’uomo arranca dietro ad un mondo che procede ormai autonomamente, proiettandosi a ritmi vertiginosi nel futuro. L’uomo perde il contatto con se stesso e con il mondo, che si trasforma perciò in un apparato che tutto ingloba, rovesciando i mezzi in fini, il vivente in cosa e le cose in soggetti che dominano sul vivente. L’homo creator sembra aver perso la capacità di prevedere e progettare il proprio agire e la propria vita, che lo rendeva soggetto nel mondo.
Massimo Cacciari scrive che la lingua tanto più è ricca e tanto più accoglie; è pensiero storia e cultura da custodire. Il cattivo uso attraverso la tecnologia ha trasformato la lingua in chiacchiera, il pensiero complesso in cinguettio, allo scopo di manipolare, disinformare e misinformare. Dovremmo dunque tornare ad un concetto di comunicazione orale, come auspicava Socrate, e al tempo stesso esplorare i nuovi linguaggi per fare innovazione.
Dal mito della caverna di Platone sappiamo che la realtà non è quella che appare. La realtà dell’era tecnologica è reale e virtuale insieme, ma forse più illusoria e sfuggente. Illusoria è anche la realtà sociale e relazionale vissuta dentro la piattaforma di social networking, alle quali abbiamo delegato il ruolo di costitutività del vivere sociale odierno. I social sono la nuova caverna di Platone, nella quale noi possiamo soltanto proiettare delle ombre differenti per indurre gli schiavi a pensare e a volersi liberare per uscire da essa. Vale a dire che dobbiamo creare dei contenuti differenti sui social network e sui nuovi media, per abbracciarli nuovamente nel mondo reale.
Il dominio della tecnologia ha cambiato la realtà e la dimensione politica del terzo millennio. L’azione politica si è ridotta allo scambio di cinguettii, il suo racconto è legato alla loro frequenza, il ruolo della società civile sembra scomparso, sommerso dall’uso di dispositivi di input che generano messaggi ma nessuna azione politica. Più che piattaforme tecnologiche servirebbero infrastrutture intellettuali, le sole che possono alimentare consapevolezza e impegno.
La filosofia prevalente tra i produttori di tecnologia sostiene l’idea di una libertà concepita come assenza di restrizioni. L’individuo è vittima di un asservimento volontario e complice di logiche e visioni del mondo imposti da altri, senza che ne abbia consapevolezza. Il tutto determinato da un pensiero binario, stimolo-risposta, che impedisce la riflessione critica utile a sperimentare processi decisionali non pre-determinati. Ma per essere liberi veramente, la libertà va costruita dentro di noi.
Il neoumanesimo si deve esprimere attraverso la cultura, il pensiero, la ricerca di una nuova identità.
La strada è quella di formare la persona con la letteratura classica per educare al sentimento; con la filosofia che disciplina il pensiero critico; con la storia che aiuta a divenire chi ciascuno potrebbe essere. Si avvia così un processo di interazione che possa consentire la possibilità di rigenerarsi e rigenerare la società intorno all’educazione, alla conoscenza e alla ricerca di nuovi valori e principi consolidati.
Questo nuovo Umanesimo può migliorare il mondo, operando un salto intellettuale e morale per l’affermazione di valori morali centrati sulla persona e sul progresso della civiltà. Al centro del neoumanesimo si pongono quindi valori esistenziali piuttosto che utilitaristici: la dignità e il valore della persona umana.
Persona, idea compresa ed equivocata al tempo stesso, rappresenta un paradosso epocale, che accende il dibattito sull’essere umano. Dobbiamo recuperare la persona nell’ottica del personalismo di Mounier: la persona ri-considerata come la nuova misura, come la parola chiave non soltanto dell’etica, ma della bioetica e del diritto, delle neuroscienze e di tutto quello che va annoverato come prodotto della modernità, della contemporaneità e di tutto ciò che va oltre questa. La persona riconosciuta nella sua singolarità, nella sua legittima pretesa di non lasciarsi ridurre ed esaurire, in virtù del novum ontologico che è ed esprime.
I grandi movimenti di libertà, i grandi dibattiti che attraversano il globo, come quelli sul crimine e la violenza, sul senso e il percorso della giustizia, sulla riproduzione del vivente, sull’attuale complessità delle convivenze multiculturali, convergono sulla persona, sulla sua storicità, la sua diaconia. Tutto ciò che la contemporaneità ci rimanda, interpella la persona col suo imprimatur di cultura, tradizione, credenze, vocazioni, postulati filosofici e sociali.
Il principio è quello di integrare in modo creativo i risultati della migliore ricerca scientifica e filosofica e che possono non trovare la propria sintesi in un punto di riferimento stabile e riconoscibile: la persona che è storia, dinamica relazionale, senza tradire l’unicum che incarna e che fa da spartiacque tra problematiche di confine, tra dottrine che si fondono proprio sul superamento della nozione stessa di persona, e altre che ne recuperano il nucleo ontico, aprendo ad un’etica normativa nell’ambito delle scienze della vita.
Una nozione, un’idea, una visione, una posizione, insomma, che si oppone alla separazione/frammentazione utilitaristica dell’essere, a seconda della prospettiva che lo guarda, della scienza che lo analizza, del pensiero che ne discute, dell’economia che ne fissa un prezzo di mercato alla luce della sua brevettabilità, della conquista di ogni tipo di speculazione che lo contende.
Ragionare di Nuovo Umanesimo non è esercizio per acchiappanuvole. Può essere l’humus per alimentare nuovi progetti sociali e politici. So bene che la ragione consiglierebbe di essere pessimisti, ma qualche volta c’è anche il diritto e il dovere di mettere l’accento sull’ottimismo della volontà.
L’umanesimo integrale, come il personalismo comunitario che lo sostanzia, non è utopia, ma la prospettiva di una civiltà in cui la società civile ha il primato sulla comunità politica così come la persona e l’etica hanno un primato sullo Stato.
L’umanesimo ci deve soccorrere. I tempi spiegano la tecnologia, ma l’Umanesimo spiega i tempi. Il sapere tecnologico capta il novum del presente; ha lo sguardo rivolto in avanti; adotta il paradigma sostitutivo della dimenticanza; rincorre l’urgenza dell’ars respondendi; abita lo spazio; ha familiarità con la vita intesa come zoè, principio vitale; semplifica la complessità. Il sapere umanistico conosce il notum della storia; guarda avanti e indietro (il simul ante retroque prospiciens di Petrarca); adotta il paradigma della memoria; conosce l’urgenza dell’ars interrogandi; abita il tempo; ha familiarità con la vita intesa come bios, esistenza individuale; interpreta la complessità.
Si avverte l’esigenza di umanesimo in una società in cui è assente l’educazione, non quella con la E maiuscola, ma almeno quell’insieme di atteggiamenti e comportamenti tra persone e persone, e tra persone e cose, che consiste nel rispetto delle persone altre da sé e del cosiddetto bene pubblico.
L’uomo non è morto. Non è tempo di tristezza né di funerali. Come la metamorfosi del bruco dischiude la possibilità al volo della farfalla, così il congedo dall’umano apre all’evento affascinante e grandioso del neo-umano.
Antonia Flaminia Chiari
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Le correnti interne alla Dc hanno fatto anch’esse la storia e il successo del partito, dalla metà degli anni Quaranta ai primi anni Novanta. I primi quattro congressi, 1946, 1947, 1949, 1952 sono stati celebrati tutti a maggioranza degasperiana. Veramente, mi veniva raccontato che “in principio eravamo tutti degasperiani, perché tutti sturziani”, sicuramente perché la Dc proveniva dall’esperienza dei popolari di don Sturzo: Scelba, Andreotti, Piccioni, solo per citare i più noti. Ma poi c’erano i dossettiani (Dossetti, La Pira, Fanfani), li chiamavano “i professorini” perché avevano studiato alla Cattolica di Milano. De Gasperi e i degasperiani venivano identificati come cattolici liberali, secondo me una forzatura, solo per distinguerli da altri, mentre Dossetti e Fanfani esprimevano aspettative programmatiche più strettamente sociali, da umanesimo integrale, umanesimo alternativo al liberalismo e al marxismo (allora si studiava Maritain, io studiavo Maritain e Mounier, umanesimo e personalismo comunitario). E poi c’era Gronchi con un suo gruppetto di amici della sinistra interna, poi i moderati romani del club Vespa, poi i cristiano sociali legati alla Cisl di Giulio Pastore. Dopo la morte di De Gasperi, nel 1954 (è sepolto a Roma in san Lorenzo Fuori le Mura) entrano in scena i cavalli di razza, Fanfani Andreotti Colombo Moro Rumor Scelba. Nei primi anni Cinquanta, forse 1954/55, nasce la sinistra di Base, i basisti, con Giovanni Marcora e più tardi Forze Nuove, i forzanovisti con Carlo Donat-Cattin. I dorotei erano i più forti, era la corrente moderata, più anticomunista con Segni, Rumor, Piccoli, Forlani, Colombo, Moro e molti altri. Negli anni Ottanta si affaccia una nuova stella nel panorama dc, Ciriaco De Mita, della sinistra di Base, subito dopo la morte di Giovanni Marcora, “Albertino”, suo nome di fuoco nella lotta partigiana bianca. Mi sono sempre chiesto se la Dc si sarebbe liquefatta in presenza di grandi combattenti, come Marcora e Donat-Cattin, e di Moro, più che combattente, pensatore illuminato, giurista di primissimo piano. Erano uomini di specchiata moralità, come De Gasperi e come molti altri. Personalmente, posso riferire solo alcuni fatti, avendoli io vissuti direttamente. Negli anni Settanta militavo nella sinistra Base, in Basilicata guidata da Decio Scardaccione, zio Decio, che mi mandava nei corsi di formazione politica, a Pallanza, a Milano, a Roma. Con la Base ho conosciuto quasi tutti. E con la sinistra di Base mi sono impegnato per circa dieci anni. Un decennio importante, per me assolutamente formativo, con Donato Martiello, verso la fine degli anni Settanta con Enzo Cervellino. Poi una brutta vicenda nel 1981. Ho consegnato la tessera Dc e ne sono uscito, rientrando, nel 1991 o 92, con l’allora segretario sezionale Giulio Paolino, straordinario organizzatore. Mi ha chiamato per la campagna elettorale Dc, l’ultima, a favore della candidatura di Lillino Lamorte. Con Giulio un’esperienza esaltante, e una quantità enorme di voti per Lillino, anche per la qualità dell’elettorato che siamo riusciti a coinvolgere.
Perché scrivo queste poche note, pennellate anche disordinate, non ricostruzione storica che invece verrebbe fatta con rigore, precisione e piglio storico? Non perché io voglia vivere di ricordi - affretterei la mia vecchiaia – ma perché vivo di progetti, anzi li rinnovo, anzi ridivento giovane, qualche limitazione fisica, ma la testa è un vulcano. Scrivo queste poche cose perché se noi oggi riusciamo a rimetterci in cammino, la presenza al nostro interno di sensibilità diverse darebbe maggior valore al nostro progetto, maggiore grinta, più spinta. Le correnti non sono divisione, ma aggregazione di più energie, anzi sono coesione sotto un’unica bandiera, ognuno con originalità di idee e di progetti, con amicizie e con autori di riferimento. Probabilmente la Dc potrebbe essere destinata a segnare la storia d’Italia e d’Europa per altri 50 anni, come hanno fatto i fondatori e fino alla fine degli anni Ottanta, un cinquantennio di vita che, pur tra luci e ombre, ha portato l’Italia tra gli stati più forti e potenti, quarta/quinta potenza economica, al pari o prima di Germania, Francia, Inghilterra. Con la fine della Dc, dopo il 1994, l’Italia è scesa sempre più giù, un disastro il decennio berlusconiano, peggio ancora i post e vetero comunisti, una strage. C’è bisogno di cattolici in un solo partito, non disseminati qua a là per non contare nulla, zero. Un partito, come la Dc e anche meglio, per non rinnovare errori, per recuperare anzi il meglio del pensiero e della tradizione, rinnovandoli e rendendoli fecondi. Si può fare. Anzi, direbbe il Kant: tu devi, dunque puoi.
Pasquale Tucciariello
Centro Studi Leone XIII
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Il quadro che emerge dalle anticipazioni del rapporto Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno) segna una tendenza di abbandono del Mezzogiorno, dove la ripresa dei flussi migratori è “la vera emergenza meridionale, che negli ultimi anni si è via via allargata anche al resto del Paese”. Negativa anche la proiezione del Pil per il Sud che “nel 2019 calerà dello 0,3% mentre il resto del paese crescerà dello 0,3% aumentando la divaricazione che, “all’interno di un paese fermo porta il Mezzogiorno in recessione. Un paese spaccato, un Sud svuotato dall’emigrazione di migliaia di giovani e laureati.
Il rapporto della Svimez, già nel 2015 riportava all’onore delle cronache i problemi, le forti insufficienze, i ritardi e le specificità che affliggono il Sud Italia.
Al momento dell’unificazione politica, infatti, le necessità di bilancio spinsero il Governo a preferire tra i vari ordinamenti fiscali il più redditizio, e, il più gravoso: quello del Regno di Sardegna, esteso da un giorno all’altro a tutta l’Italia, in aperto contrasto, specialmente, con quello del Regno di Napoli che, d’un tratto, si trovò a passare da un’imposizione fiscale leggera, ad una insopportabilmente pesante. Dogane leggere e tasse pesanti dunque, tutto il contrario di quello che serviva alla fragile e povera economia meridionale.
L’unificazione fu considerata, dunque, alla stregua di un affare coloniale, con l’esplicita alleanza tra il capitale degli invasori e il patrimonio dei possidenti colonizzati. Alleanza che continuerà purtroppo sotto altre forme e con altri protagonisti anche negli anni della Repubblica.
Ma ciò che emerge con assoluta chiarezza dal dopoguerra ad oggi (ma si potrebbe tranquillamente dire dall’unità ad oggi) è il fatto che le sorti del nostro Mezzogiorno sono sì indissolubilmente intrecciate con quelle del paese, ma che, paradossalmente, del Mezzogiorno non si tiene conto a sufficienza quando si prendono le grandi decisioni nazionali: dalla scelta europea, all’abolizione delle gabbie salariali, dello statuto dei lavoratori, all’ingresso nello Sme, a Maastricht. In altri termini, le scelte strategiche di modernizzazione del paese finiscono, immancabilmente, per trasformarsi in insopportabili forzature per l’economia del Sud, in mancanza di un’adeguata società civile.
Tra le tante Italia esistenti, due normalmente, sono quelle che vengono messe a confronto: il Mezzogiorno e il Centro Nord, e sono, entrambe, due mere invenzioni statistiche, con forti disomogeneità al loro interno. Ebbene, nonostante la semplificazione e l’appiattimento delle medie queste due «Italie», dopo oltre quarant’anni di intervento straordinario e a centotrentacinque dall’unificazione, sono ancora molto distanti, quasi due mondi, con molto poco in comune.
Se le diversità esistono e sembrano persistenti, tuttavia dal dopoguerra ad oggi molto è anche cambiato: il Pil per abitante è più che quadruplicato; l’incidenza degli occupati in agricoltura discesa dal 56% al 15%. E anche se l’incidenza degli occupati nell’industria in senso stretto è rimasta ferma al 13%, gli addetti alle unità locali superiori alle cento unità sono triplicati e la produttività media è oggi otto volte quella del 1951.
La rete stradale è più che raddoppiata, e la sua qualità è enormemente migliorata. La disponibilità giornaliera di acqua per abitante è passata da ottanta a trecentoquaranta litri. Il numero di abitanti per stanza è diminuito da quasi due a meno di uno. Sono scomparse le abitazioni prive di servizi igienici e di elettricità, La mortalità infantile è scesa da ottanta a dieci per mille nati vivi. Gli scritti alla scuola dell’obbligo che, nel 1951 erano il 70% degli obbligati, oggi sono il 100%. Gli iscritti alla secondaria superiore, che nel 1951 erano meno del 10% dei ragazzi di quattordici diciotto anni, oggi sono il 60% (Cafiero, 1992); in quasi ogni provincia del Sud oggi esiste una sede universitaria.
Traguardi importanti, ma non sufficienti a spezzare la patologica dipendenza economica dell’area, dai consumi tendenzialmente convergenti con il Nord, ma supportati da attività economiche in gran parte protette dalla concorrenza nazionale e internazionale e condizionate da appalti e forniture assegnati, più o meno legalmente, con criteri diversi da quelli del confronto concorrenziale. Area, dicevamo, la cui domanda è soddisfatta da un ingente ammontare di importazioni nette, finanziate in gran parte attraverso l’eccedenza della spesa pubblica sui prelievi, e con un patologico eccesso di risparmio non impiegato in loco, a causa dell’inefficienza del sistema bancario locale e, al solito, della mancanza di buona imprenditorialità.
Certo il Sud consuma di più di quanto produce, ma questo era vero anche per il passato. Ma perché ora la cosa sembra insopportabile a tanta parte dell’opinione pubblica? Forse perché per molti anni i ritorni che il Nord ha tratto dalla spesa pubblica a favore del Mezzogiorno sono stati superiori ai maggiori oneri fiscali sostenuti per finanziarla.
Ma quando il processo di integrazione europea ha reso i vincoli finanziari più stringenti e più acute le esigenze di investimenti intensivi a difesa della competitività delle nostre produzioni la dipendenza economica del Mezzogiorno è divenuta sempre meno sostenibile per il resto del paese . Ecco perché il Nord non accetta più né la politica meridionalistica, ormai considerata come una spesa peggio che improduttiva, né il meridionalismo, che tale politica richiede: e sembra talvolta disposto a rifiutare la stessa unità nazionale, pur di sottrarsi all’onere della politica meridionalistica”.
Minor prodotto pro capite (intorno al 60% di quello del Centro Nord), fragilità delle strutture produttive (nel Sud è localizzato solo il 15% della capacità produttiva manifatturiera del paese), con prevalenza invece di settori non concorrenziali e maturi, carenza endemica di infrastrutture, malavita organizzata dilagante, bassa qualità della vita, ma consumi tendenzialmente più vicini al resto del paese all’80%, con conseguente dipendenza economica in ragione della minor ricchezza prodotta, dipendenza finanziata dai trasferimenti e dalla spesa pubblica in disavanzo: questi, come abbiamo visto, i caratteri fondamentali del sottosviluppo e dell’arretratezza del Sud.
Ma dal quadro, per capirci qualcosa, manca ancora dell’altro: manca la ricostruzione analitica dei modelli di riproduzione perversa del capitale umano nel suo ciclo di vita (individuale e sociale), mancano le ragioni della persistenza del sottosviluppo, dell’arretratezza e della dipendenza e, perché no, le ragioni del piagnonismo e del vittimismo.
Per troppo tempo si è concentrata genericamente l’attenzione sulla disoccupazione meridionale, sui suoi livelli e sulle sue dinamiche, senza mettere in relazione questo pur grave fenomeno con la qualità dell’occupazione e con il tipo di regole del vivere associato prevalenti nella società meridionale. Forse, solo mettendo insieme capitale umano e regolatori sociali, sarà possibile individuare i codici genetici che riproducono e perpetuano il sottosviluppo al Sud, nonostante gli sforzi di investimento compiuti dal dopoguerra ad oggi.
Il fatto che il mercato del lavoro nel Sud non funzioni, o funzioni male, con disoccupazione al triplo rispetto al resto del paese, con una gran quantità di lavoro sommersa e irregolare, non è solo il prodotto dello scarso sviluppo economico, ma anche e soprattutto la reazione della società meridionale a un insieme di regole (salariali e contrattuali) e di vincoli non coerenti con quanto ritenuto naturalmente accettabile dagli agenti che operano nell’area (datori di lavoro lavoratori, istituzioni). Il mercato del lavoro, più degli altri mercati, deve essere considerato una vera e propria istituzione sociale.
Ne segue che il funzionamento del mercato del lavoro potrebbe sostanzialmente diversificarsi da un luogo all’altro; società diverse potrebbero imporre norme differenti a datori di lavoro, lavoratori occupati, lavoratori disoccupati ed altri. Il Sud ha bisogno di ben altro: certamente ha bisogno di colmare il suo gap infrastrutturale, ma anche questa strategia da sola non basterebbe. Servono, assieme agli investimenti, interventi di lungo periodo che plasmino i regolatori, sociali alle specifiche esigenze dell’area e politiche che migliorino, armonizzandolo, l’intero ciclo di vita del capitale umano: la scuola e la formazione professionale, la transizione scuola- formazione-lavoro, il lavoro, le carriere, il welfare.
Ridefinire i regolatori sociali vuol dire intervenire direttamente nella società civile e nella qualità della vita: in quel complesso, cioè, di norme, comportamenti, culture, abilità, intelligenze, specializzazioni, propensioni che sono alla base di qualsiasi processo di sviluppo economico e di qualsiasi equilibrio sociale. Per troppo tempo si è ritenuta la società civile come un semplice prodotto degli investimenti infrastrutturali e produttivi, nonché dell’imposizione, burocratica e dall’alto, di regole da applicare: i fatti, nel nostro Sud, hanno dimostrato che ciò era una pia illusione.
Al Sud la scuola è cattiva e si studia male e, di conseguenza i tassi di abbandono, nella fascia dell’obbligo, si collocano su punte pari a più di tre volte quelli del Centro Nord.
Ebbene, il quadro che emerge da questa semplice analisi statistica sul funzionamento della scuola nel Sud è del tutto sconfortante: sprechi, inefficienze, carenze, scarsa qualità finiscono per produrre un capitale umano in gran parte inutilizzabile. La lezione che se ne ricava e fin troppo chiara: in una realtà come quella meridionale l’elemento strutturalmente distorsivo è rappresentato da una troppo debole e, spesso, inesistente società civile, incapace di comportamenti realmente cooperativi. Da questa debolezza derivano, poi, inesorabilmente e cumulativamente tutti gli altri circuiti perversi.
La cooperazione volontaria e più facile all’interno di una comunità che ha ereditato una provvista di “capitale sociale” in forma di norme di reciprocità e reti di impegno civico. Se le norme di reciprocità e le reti di impegno civico di cui parla il sociologo Putnam nel suo libro (che ha destato non poche polemiche tra gli studiosi di casa nostra) sulle tradizioni civiche delle regioni italiane altro non sono che il prodotto della società civile, il quesito che ci si deve porre è perché il nostro Sud mostri, al riguardo, storicamente e strutturalmente tanta inadeguatezza.
A questo punto, come nei buoni romanzi d’appendice, occorre, sempre seguendo Putnam, fare qualche passo indietro e precisamente a quella «..fusione di elementi di burocrazia greca e di feudalismo normanno, integrati in uno stato unitario..» che fu il tratto caratteristico del genio di governo di Federico II.
Tutta la vita economica e sociale veniva regolata dal centro e dall’alto e non dall’ interno e dal basso come nel Nord della penisola. E tutto ciò avveniva in un delicato momento di passaggio, in cui, cioè, cominciavano a manifestarsi, soprattutto in Italia del Nord, originali forme di governo autonomo, come risposta alla violenza e all’anarchia che regnavano endemiche nell’Europa medioevale.
Ambedue i sistemi avevano, in qualche modo, posto sotto controllo la questione sociale per eccellenza nel Medioevo: l’ordine pubblico.
Le due soluzioni, quella gerarchica al Sud e quella cooperativa al Nord, furono, di fatto, quanto a benessere collettivo, equivalenti fino al tredicesimo secolo.
L’assolutismo di Federico II, efficiente, al suo tempo, nel risolvere i problemi dell’azione collettiva, si trasformò ben presto nell’autocrazia diffusa dei baroni. L’autoritarismo delle istituzioni politiche fu aggravato da una struttura sociale storicamente organizzata in modo verticale, avente in se le asimmetrie del potere, lo sfruttamento e la sottomissione, in contrasto con la tradizione del Nord imperniata sulle associazioni legate tra loro a formare una rete di rapporti orizzontali, una catena di solidarietà sociale tra uguali.
L’abisso tra sudditi e signori era reso più drammatico nel Mezzogiorno dal fatto che tutte le dinastie che si succedettero furono straniere. Dal 1504 al 1860 tutta l’Italia a Sud degli stati pontifici si trovò sotto il dominio degli Asburgo e dei Borboni i quali seminarono con sistematicità la sfiducia e la discordia tra cittadini, distruggendo tutti i legami di solidarietà orizzontale, allo scopo di rimanere a capo di un ordine gerarchico basato sullo sfruttamento e il servilismo”.
Ora, come abbiamo visto, la perdita di fiducia reciproca nei rapporti economici e politici altro non è che distruzione di capitale sociale immateriale, distruzione che nel Sud, nel corso dei secoli, ha fortemente indebolito la società civile. Da qui forse la chiave analitica per capire i problemi dì oggi.
Nei modelli di crescita endogena, sviluppati di recente nella teoria economica, la chiave del successo di una economia consiste in un circolo virtuoso tra investimento in capitale umano e sviluppo: l’accumulazione fa sì che le produttività del lavoro e del capitale fisico crescano attraverso l’innovazione e il progresso tecnico, e a loro volta le capacità produttive maggiori rendono possibili ulteriori accumuli di capitale umano. Poiché il capitale umano costruisce cultura, ossia un insieme di procedure che risulta mutualmente soddisfacente agli attori economici ingaggiati in transazioni ripetute, l’efficienza del sistema economico aumenta e migliora la qualità della vita.
Di conseguenza le transazioni aumentano e ciò dà origine a maggiore e più soddisfacente elaborazione culturale. Una società di successo è caratterizzata da una cultura ricca e varia, da molteplici relazioni, da una forte interazione e da reciproca fiducia”. Quando un sistema, per le ragioni più varie, finisce per accumulare capitale umano in misura insufficiente, rispetto ai propri bisogni, si determina una spirale involutiva fatta di bassa innovazione e progresso tecnico, stagnante produttività dei fattori e crescente dipendenza.
La povertà e la mancanza di sviluppo che ne conseguono inducono la crescita di forme perverse di relazioni sociali ed economiche di tipo parassitario. Vengono così meno i rapporti di fiducia, in un rapporto di retroazione negativa sulla crescita economica.
Un sotto sistema povero di capitale umano non è in grado di usare i regolatori sociali formali progettati per la parte più evoluta del sistema, in cui magari il processo di accumulazione del capitale umano e nella pienezza del suo circuito virtuoso. Si forma dunque uno iato crescente tra astrattezza e inapplicabilità delle regole e crescente fragilità del complessivo tessuto economico e sociale.
Lo stato di diritto viene così distrutto non solo perché “nessuno è in regola”, ma soprattutto perché appare ai più (cittadini e autorità) impossibile (ma anche inutile) “mettersi in regola”. In un processo di delegittimazione crescente di tutte le istituzioni regolative. L’impossibilità (o l’inutilità) di rispettare le leggi si riflette, oltre che sui rapporti sociali, soprattutto sui rapporti economici, in quanto genera incertezza e aumenta i costi di transazione.
Siamo nel bel mezzo di un circuito perverso in cui la cronica debolezza dello Stato favorisce la diffusione di istituzioni ombra preposta a ristabilire, in maniera parallela, fiducia e sicurezza non generate né dalle istituzioni formali né dal civismo orizzontale.
La storia della mafia è, dunque, la storia del fallimento nello Stato nel predisporre un sistema certo e credibile di sanzioni in grado di garantire i diritti di proprietà, cosicché si e formata nel tempo una rete (istituzione) privata a sostegno delle relative relazioni di scambio.
“La mafia offriva protezione contro i banditi, i furti nelle campagne, gli abitanti delle città rivali, ma soprattutto contro se stessa”. “L’attività più specificatamente mafiosa consiste nel produrre e vendere una merce molto speciale, intangibile e tuttavia indispensabile nella maggioranza delle transazioni economiche. Invece che produrre automobili, birra, viti e bulloni o libri, produce e vende fiducia”.
Il clientelismo, la mafia, la criminalità organizzata di vario tipo (camorra, ‘ndrangheta, la recente sacra corona unita) altro non sono che le istituzioni parallele de che hanno colmato la patologica assenza di relazioni civili orizzontali di tipo cooperativo, sfruttando a loro vantaggio, progressivamente nel tempo, sia le istituzioni democratiche che le risorse finanziarie incrementali conseguenti al processo di unificazione nazionale prima, e all’intervento straordinario poi.
L’aver voluto imporre le stesse regole del Nord evoluto a un Sud quasi privo di società civile ha, di fatto, accentuato e fatto crescere un antistato, con la sua cultura antagonistica. Non sorprende per nulla, quindi, se oggi, a centocinquantanove anni dall’unità d’Italia le cose non siano, come abbiamo visto, granché cambiate, nonostante i pur sensibili miglioramenti economici e infrastrutturali.
L’impianto teorico che ha, sino ad ora, guidato le azioni pubbliche tendenti a combattere il sottosviluppo considera gli investimenti e i trasferimenti pubblici come fattore necessario e spesso sufficiente per generare un modo (più o meno endogeno) di investimenti privati, per l’aumento medio di produttività e, in ultima analisi, per il rafforzamento e lo sviluppo della società civile, in un processo virtuoso autopropulsivo. In questa accezione la società civile altro non è che un insieme di norme, valori e relazioni, di singoli capitali umani di network, ovvero dì quelli che potremmo chiamare beni relazionali.
Gli investimenti pubblici hanno l’obiettivo di favorire il funzionamento del sistema economico, in termini di efficienza ed equità, e di indurre l’accumulazione privata. Dagli investimenti pubblici e dai beni pubblici da essi prodotti e dall’accumulazione privata indotta, normalmente si fa derivare il miglioramento, la promozione e lo sviluppo della società civile e, quindi, dei beni relazionali. Dai beni relazionali dovrebbe ripartire, in una sorta di processo circolare, un nuovo impulso per lo sviluppo a carattere sempre più endogeno.
Quindi, secondo la ricetta teorica tradizionale, più si spende per beni pubblici, più società civile si formerà, con i relativi beni relazionali.
Applicando questo schema teorico-causale al nostro Mezzogiorno, vediamo come nonostante nell’area si sia prodotta, dal dopoguerra ad oggi, una quantità rilevante di beni pubblici,. questa produzione non sia stata in grado di generare il substrato di beni relazionali capace di attivare un processo endogeno di crescita. Diversamente dal caso dei paesi ad economia arretrata in cui, generalmente, si tratta di costruire una cultura dello sviluppo in alternativa ad un debole sistema di reti preesistente, nel Mezzogiorno, come abbiamo visto, un sistema forte di relazionalità (perversa e antagonista) già esisteva.
Ebbene, questo sistema si è dimostrato talmente forte e strutturato non solo da non venir per nulla scalfite dall’intervento pubblico, ma anzi dall’avvantaggiarsene come una metastasi che si sviluppa sfruttando le sostanze ricostituenti che vengono somministrate ad un organismo malato.
Una prima semplice constatazione: solo un tessuto economico sufficientemente dotato di beni relazionali è in grado di generare al proprio interno le spinte necessarie per il proprio sviluppo: mentre nei contesti sociali caratterizzati da network opposti o antagonisti, queste capacità autopropulsive risultano molto deboli, e non potranno essere semplicemente indotte da meri interventi di produzione di beni pubblici tradizionali.
In questi casi potrebbe diventare quindi utile una “produzione diretta” di beni relazionali, proprio per sfuggire al parassitismo del circuito perverso antagonista, in modo tale da superare la soglia critica, necessaria e sufficiente per far crescere virtuosamente un sistema relazionale forte, socialmente condiviso, e tendenzialmente maggioritario. Non più, dunque, sviluppo come semplice effetto di investimenti produttivi e infrastrutture, ma sviluppo come esatta miscela di questi con la necessaria dotazione di società civile.
In questo quadro va recuperata la scarsa produttività del Mezzogiorno con alcune misure:
1) la ripresa di quel filo spezzato 25 anni fa per infrastrutturare il territorio meridionale abbattendo le diseconomie ambientali che si trasformano in un aumento dei costi aziendali;
2) una fiscalità di vantaggio già prevista dalla legislazione europea dal 2005;
3) una flessibilità salariale all’ingresso più forte dell’attuale come strumento concordato tra le parti sociali per accentuare le convenienze a investire nel Sud;
4) uno sforzo simile a quello che fu fatto 30 anni fa con Falcone e Borsellino per infliggere colpi mortali alla criminalità organizzata. È inutile dire, però, che tutto questo non sarà sufficiente se i politici meridionali non dovessero fare la propria parte per selezionare classe dirigente all’altezza della situazione abbandonando il nefasto familismo e l’autoritarismo dei piccoli ras locali che hanno devastato il panorama politico meridionale impedendo, tra l’altro, l’uso ottimale degli ingenti fondi europei.
Occorre un piano di sviluppo concreto definendo tempi di intervento e risorse certe tenendo conto che il mercato del lavoro organizzato in funzione della globalizzazione, al patto di stabilità europeo e considerato che il mercato del lavoro si evolve in direzione della mobilità. Una mobilità connessa alla qualificazione e riqualificazione continua. Non basta la formazione occorre l'aggiornamento. I mestieri e le professioni si evolvono rapidamente, muoiono e ne nascono altri .Anche i mestieri tradizionali come l'agricoltore non possono fare più a meno delle tecnologie innovative. Il mercato del lavoro si riflette oggi nel cambiamento sociale, prima di chiedere lavoro si deve chiedere qualificazione. La formazione non può essere generica, dev'essere mirata e innovativa.
Il concetto di disoccupato viene sostituito dal concetto di non qualificato, per chi è qualificato e orientato non sarà disoccupato.
Su questi concetti cambia anche la famiglia e i rapporti tra uomo e donna. Più istruzione e meno figli consentono alle donne la qualificazione che dà loro il diritto a un innalzamento sociale.
Questo porta a nuove evoluzioni demografiche e sociali .In questo quadro dobbiamo collocare ogni previsione e ogni problematica sul futuro degli italiani, degli europei e del mondo arabo.
Negli ultimi anni abbiamo avuto una sostanziale stabilità nel tasso di attività totale della popolazione italiana. Tale stazionarietà a livello aggregato presenta al suo interno una evoluzione che aveva visto prima della crisi crescere l'occupazione femminile rispetto a quella maschile.
Si sono anche innalzati i tassi di scolarità per cui la variazione interessa le classi di età inferiore, lasciando immutata la situazione nelle classi centrali(50anni). Abbiamo parlato di creare posti di lavoro, ma lo sviluppo è anzitutto capacità di produzione, competitività sui mercati e credibilità tecnologica.
Riguardo al Mezzogiorno accenneremo ad alcuni settori strategici: agricoltura, turismo, terziario avanzato, ma questi sono aspetti particolari, seppure importanti, di un processo che va letto in termini complessivi.
Sviluppato rispetto a cosa e a chi? Per questo parliamo di sviluppo italiano nei confronti dell'Europa e di sviluppo Mezzogiorno nei confronti del divario tra Nord e Sud.
Al concetto di sviluppo in termini di quantità(prodotto interno lordo, reddito pro capite, redditi familiari, consumi ecc.)dobbiamo aggiungere i parametri di qualità (l'istruzione , la sanità, la ricerca scientifica, il tempo libero, la produzione culturale e artistica, la vivibilità urbana, ecc. ).
Una popolazione lavorativa in crescita porta con sé fenomeni di sviluppo economico che assumono valenza di sviluppo culturale.
Ma per far crescere il lavoro nel Mezzogiorno, occorre il concorso di nuovi investimenti produttivi insieme alla qualificazione professionale.
Investire quindi in industrie moderne, in servizi.
Da quanto si è detto sul lavoro e sui cambiamenti del mercato emerge che orientamento, formazione, qualificazione sono le strategie per accedere al mercato.
Flessibilità e mobilità del mercato del lavoro portano forme di part-time, di homework di Job sharing (divisione dei compiti) con un minor costo per unità di prodotto.
L'home-working o il telelavoro, ad esempio abbatterà i costi di trasferimento migliorerà i tempi di lavoro, consentirà una riduzione di carichi.
Lavorare meno lavorare tutti, che era uno slogan provocatorio degli estremisti, sarà il risultato delle tecnologie avanzate.
La formazione deve quindi cambiare, per struttura, per contenuti ,per metodologie e per finalità .
Oggi dobbiamo includere la formazione nel sistema di imprese, perché la professionalità e il know how sono a pieno titolo tra i fattori strategici della competitività sui mercati.
Secondo la stima della Svimez il Sud perderà nei prossimi 50 anni ben 1,2 milioni di abitanti.
Da parte mia, condivido il “decalogo” proposto da Umberto Minopoli che, intervenendo nel dibattito aperto sul tema dalla rivista on line www.formiche.net scrive:
“Le nenie della Svimez sul Mezzogiorno hanno stufato. Nel Sud si è, sino ad ora, sperimentato, in 70 anni, tutto quello che è consentito da politiche stataliste, burocratiche e straordinarie: incentivi, sgravi fiscali, sovvenzioni, misure speciali ecc. ecc.. Cioè un secolo di meridionalismo. Risultato: il sottosviluppo resta li’ e la Svimez piagnucola col fallimento, la desolazione e l’abbandono del Sud. E se, finalmente, rovesciassimo il paradigma di un secolo di meridionalismo-” piu’ stato nel Sud “- e provassimo l’opposto: “piu’ mercato nel Sud”?
Provatevi ad immaginare alcuni radicali interventi liberalizzanti. Che so?:
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privatizzare la Salerno-Reggio Calabria a condizione che i privati la completino in tempi dovuti.
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realizzare una grande infrastruttura nel Sud (di quelle che mobilitano risorse umane e capitali privati (se possono essere remunerati da tariffe): il ponte sullo Stretto.
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realizzare una nuova rete elettrica di trasporto che renda utili gli investimenti inutili e parassitari fatti nelle rinnovabili
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vendere in concorrenza i diritti dell’alta velocita’ da Salerno a Reggio Calabria e Bari
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privatizzare le tratte ferroviarie morte interne alla Regioni del Sud e sulla direzione est- ovest. E che cento fiori fioriscano
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liberalizzare i contratti di lavoro nel Sud copiando dai successi Fiat a Pomigliano, Cassino e Melfi
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realizzare il progetto banda larga affidandolo ad una societa’ privata di operatori di rete (Enel, Telecom e altri privati) e non ad un ministero.
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affidare ad una banca o ad un consorzio di esse la gestione dei Fondi Europei lasciando alla Regioni solo un ruolo di indirizzo e definizione degli obiettivi.
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detassare tutto il detassabile al Sud cominciando dalla fiscalità del lavoro e dell’impresa
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commissariare la Regione Sicilia e responsabilizzare i governatori del Sud (De Luca, Emiliano ecc) a realizzare obiettivi di sviluppo senza aggravi di spesa pubblica.
Sennò commissariare anche loro. I puristi di sinistra storceranno il naso e definiranno tatcheriano un tale programma. Se ci fosse il coraggio di attuarlo ( arricchendolo con altre decine di possibili proposte aggiuntive) basterebbe una scrollata di spalle ai puristi di sinistra. Che si lamentano sempre e propongono mai.”
Ecco, aggiungerei, ma lo scrivo da anni non solo per il Sud: un cambiamento radicale della classe politica attuale e la formazione di nuovi soggetti politici ispirati da serie culture, oggi pressoché scomparse, a partire da noi popolari...
Non mancano iniziative che proprio cooperative e società di giovani meridionali hanno attivato come quelle dei sette progetti di start up per far ripartire l’economia del Mezzogiorno, a dimostrazione di una realtà non priva di intelligenti e positive proposte come quelle di SmartIsland, Tripoow, Intertwine, Bookingbility, Ocore, Momo, Macingo.
Riassumendo:
La proposta di programma della Federazione Popolare dei DC, in definitiva, potrebbe essere riassunta nel seguente “decalogo programmatico”, contenente i proponimenti dei DC riuniti per l’Italia del XXI secolo:
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La DC unita, coerente con il suo passato di responsabilità nazionale, assume come obiettivo la costruzione dell’Unità politica dell’Europa, da riformare rispetto all’ircocervo tecno burocratico attuale, la tutela della persona umana e la difesa dello Stato di diritto,. In questa fase di oggettiva crisi dell’Unione Europea la DC intende assumere come prioritari gli obiettivi di una revisione di alcuni accordi, come quello sulle competenze del TUE (trattato di fondazione della UE) e del TFUE (trattato di funzionamento della UE) e il superamento dell’illegittimo fiscal compact, concausa rilevante delle gravi situazioni economico sociali presenti in numerosi Paesi europei e delle spinte sovraniste e anti europee diffuse in varie parti dell’Unione.
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La DC unita, mette al centro del suo impegno politico e di promozione della cultura civile la PERSONA, perché possa vivere ed operare con tutta la sua dignità e libertà secondo il dettato della Costituzione Italiana.
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La DC unita, si assume pubblicamente il compito di aprire la strada alla trasparenza gestionale e contabile della sua organizzazione, per dar vita ad una nuova stagione della politica, improntata ad un UMANESIMO SOCIALE che valorizzi la persona umana senza distinzioni di razza o diversità sociale, in attuazione degli orientamenti valoriali della dottrina sociale cristiana che la DC intende tradurre politicamente nella “città dell’uomo” sul piano dell’assoluta autonomia e laica responsabilità.
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La DC unita, consapevole delle difficoltà che il mondo globalizzato di oggi pone all’individuo per esistere e operare, s’impegna a ricostruire con le opere di previdenza una più sostanziale solidarietà sociale, attraverso la “cooperazione di comunità”, che garantisca a ogni nucleo familiare un lavoro adeguato alle esigenze della dignità civile.
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La DC unita, presente nella società d’oggi, offre la possibilità di stare nel partito alla pari anche ai simpatizzanti che dichiarino interesse al programma; iscrivendosi nella lista degli elettori, con la possibilità di presentare progetti e proteste d’interesse generale.
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La DC unita, ha come obiettivo fondamentale del programma una decisiva modificazione del meccanismo di localizzazione delle attività produttive del Paese, privilegiando l’intervento straordinario a favore del Mezzogiorno e delle Isole. La promozione della cultura e la difesa del patrimonio paesaggistico, culturale e ambientale italiano sarà assunto tra le priorità delle politiche economiche del partito, strumenti essenziali per garantire lo sviluppo del turismo tra le grandi opportunità di offerta dell’Italia.
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La DC unita, come nel passato con l’intervento pubblico, dovrà incoraggiare l’installazione di medie e grandi imprese industriali, anche straniere, attraverso agevolazioni fiscali, procedure burocratiche dinamiche e la messa a disposizione dei distretti industriali attrezzati per stimolare gli investimenti privati con un alto grado di efficienza tecnologica e notevoli possibilità di creare nuovi posti di lavoro. Crescita economica e sviluppo dell’occupazione saranno le priorità della politica economica DC finalizzata a saldare, come nella migliore tradizione del partito, gli interessi dei ceti medi produttivi con quelli delle classi popolari, al Nord come al Centro e al Sud del Paese.
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La DC unita, oltre a ritenere positiva la riduzione del numero dei parlamentari, se accompagnata dai necessari riequilibri previsti dalla Costituzione, ritiene urgente ilriordinamento legislativo, amministrativo e organizzativo dello Stato e delle Regioni a statuto speciale, in coerenza con la tradizionale cultura autonomistica dei cattolici democratici e dei cristiano sociali.
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La DC unita, è consapevole che non esistono miracoli in economia, ma soltanto la possibilità di raggiungere obiettivi concreti attraverso scelte responsabili, e con il coinvolgimento di tutti gli imprenditori appartenenti e operanti nei settori di attività: industriale, artigianale, commerciale agricolo, della cooperazione e delle libere professioni.
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La DC unita, partito di elettori di centro, non può e non vuole rappresentare interessi di nessun genere in particolare, ma valori. Difendere valori significa operare per una cultura di libero mercato all’insegna della civiltà del lavoro. Essenziale sarà operare per garantire, come sempre ha fatto la DC storica, la mediazione di interessi e valori del ceti medi produttivi e di quelli popolari diversamente tutelati.
Siamo, tuttavia, consapevoli che, mentre sul piano istituzionale possiamo assumere come obiettivo strategico prioritario e irrinunciabile la difesa e l’integrale attuazione della Carta costituzionale(a partire dall’applicazione rigorosa dell’art.49 in materia di organizzazione “ con metodo democratico” della vita interna dei partiti), per poter concorrere alle riforme strutturali sul piano economico e sociale di cui l’Italia ha bisogno è necessario assumere come obiettivo non più rinviabile il ritorno alla legge bancaria del 1936.
Questo significa, da un lato, tornare al controllo pubblico di Banca d’Italia, oggi sottoposto al dominio degli hedge funds anglo caucasici-kazari, e alla netta separazione tra banche di prestito e banche di speculazione finanziaria. Nessun’ altra seria riforma economico e sociale sarà possibile se non si ripristineranno le condizioni economico finanziarie precedenti a quelle che il decreto lgs.n.481/1992 Amato-Barucci annullò sotto la spinta dei poteri finanziari dominanti.*
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A partire dal dicembre 2019 l’identificazione, in un mercato ittico della città cinese di Wuhan, di un nuovo Coronavirus in grado di infettare l’uomo ha monopolizzato l’attenzione mondiale, essendosi paventato fin dal principio il potenziale pandemico del nuovo agente virale.
Al nuovo Coronavirus è stato attribuito il nome di SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2), e la patologia umana associata è stata indicata come COVID-19 (Coronavirus Disease 2019).
Si tratta di un virus a singolo filamento di RNA. Le speculazioni riguardo al possibile reservoir del virus sono tuttora in corso; l’analisi delle sequenze geniche del nuovo agente virale ha comunque evidenziato analogie strutturali con diversi coronavirus che hanno tropismo per i pipistrelli.
SARS-CoV-2 è il terzo Coronavirus che ha compiuto un salto di specie, dall’animale all’uomo, dopo il SARS-CoV, responsabile dell’epidemia di SARS del 2002, per la quale come probabile reservoir fu analogamente identificato il pipistrello, e il MERS-CoV, responsabile dei focolai di MERS (Middle East Respiratory Syndrome) nel 2012, a verosimile partenza dai cammelli. Le conoscenze maturate negli anni dallo studio di SARS-CoV e MERS-CoV, hanno consentito di accelerare il percorso di analisi e comprensione del nuovo Coronavirus, con la auspicabile prospettiva di giungere in tempi rapidi alla messa a punto di un vaccino specifico. Analogamente ai virus della SARS e della MERS, anche per il nuovo Coronavirus la principale modalità di trasmissione è attraverso i droplets che, carichi di particelle virali, vengono emessi dal soggetto infetto starnutendo, tossendo o semplicemente parlando. Il virus è responsabile di una sindrome respiratoria acuta (SARS); non sorprende, dunque, che il virus venga rinvenuto proprio nelle vie respiratorie superiori e inferiori.
A seguire, un breve focus sugli aspetti diagnostici dell’infezione da SARS-CoV-2.
Viene posta diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 sulla base del riscontro dell’RNA virale in un campione delle vie respiratorie. Tale campione può essere ottenuto dalle alte vie respiratorie (rinofaringe e orofaringe, e si parla dunque di tampone nasale, rinofaringeo o orofaringeo) o dalle basse vie respiratorie (trachea e bronchi, in forma di aspirato tracheo-bronchiale o di lavaggio bronco-alveolare). I campioni ottenuti dalle vie aeree inferiori hanno una carica virale maggiore rispetto a quelli prelevati dalle vie aeree superiori; si tratta però di metodiche più invasive che solitamente sono appannaggio dei pazienti ricoverati, in particolar modo dei degenti in ambienti ad alta intensità di cure, quali sono le Terapie Intensive.
Come metodica di screening sulla popolazione generale si fa invece ricorso a tamponi naso-faringei o oro-faringei, che risultano essere di più agevole esecuzione e minor grado di invasività. L’analisi dei tamponi prelevati dalle vie aeree superiori è però gravata da una certa percentuale di falsi negativi, ovvero un tampone può risultare negativo seppure in presenza di infezione.
Questa caratteristica di un test è chiamata sensibilità, ossia la capacità di un test diagnostico di non generare falsi negativi. Perciò un test con sensibilità pari, idealmente, al 100% non genererà nessun falso negativo; se tale percentuale fosse pari al 90%, su 100 pazienti risultati negativi 90 sarebbero i veri negativi e 10 i falsi negativi (ossia pazienti malati, ma con diagnosi errata).
La sensibilità dei tamponi naso-faringei per la diagnosi di COVID-19 non è pari al 100%, ormai è noto. Tuttavia una corretta esecuzione e conservazione dei tamponi può aumentare tale sensibilità, rendendo dunque i risultati più attendibili, tenendo presente che una sensibilità del 100% sarebbe utopica.
L’esecuzione di un tampone naso-faringeo e oro-faringeo consiste nel prelievo di cellule superficiali della mucosa rispettivamente del rinofaringe e dell’orofaringe, attraverso un bastoncino ovattato, simile ad un lungo cotton fioc. La raccolta del materiale biologico richiede pochi secondi e, seppur apparentemente semplice, è necessario che sia effettuata da personale qualificato, al fine di evitare la contaminazione del campione da agenti infettivi esterni e di garantire la raccolta nelle sedi anatomiche adeguate, quelle cioè nelle quali specificatamente si ha la replicazione virale.
Dispositivi di protezione individuale
Per assicurare la protezione individuale degli operatori, i prelievi vanno eseguiti mediante l’utilizzo corretto degli appositi DPI (dispositivi di protezione individuale):
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Guanti monouso
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Camice monouso impermeabile con manica lunga
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Cuffia per capelli monouso
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Mascherina monouso (FFP2/FFP3)
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Occhiali o schermo facciale di protezione
Tali dispositivi devono essere utilizzati con padronanza e nel modo corretto, pena la loro inutilità; gli operatori, infatti, sono ben addestrati nella corretta procedura di vestizione e svestizione e nel corretto smaltimento.
Tampone oro-faringeo: esecuzione
Per una corretta esecuzione, il paziente dovrebbe piegare la testa all’indietro e aprire bene la bocca; se necessario, si userà un abbassalingua sterile. Il tampone sarà inserito tra i pilastri tonsillari, dietro l’ugola, e strofinato sulle zone tonsillari per alcuni secondi, evitando contaminazioni con la saliva e con la lingua. Dunque il bastoncino sarà inserito nella provetta contenente il terreno di trasporto, che è specifico per questo tipo di campione.
Tampone nasale: esecuzione
Il paziente assumerà una posizione eretta, con la testa leggermente inclinata all’indietro. Il tampone sarà inserito nella cavità nasale per circa 2,5 centimetri, fino al raggiungimento del rinofaringe posteriore, e fatto ruotare delicatamente. Si ripeterà la manovra nell’altra narice e si inserirà il campione in un’analoga provetta contenente il terreno di trasporto.
Le provette, come per qualsiasi tipo di campione microbiologico, sono etichettate con i dati anagrafici del paziente, la data del prelievo e la descrizione del tipo di campione.
Conservazione e spedizione
I campioni vanno immediatamente inviati in laboratorio oppure, se ciò non fosse possibile, vanno conservati in frigo a una temperatura di +4° C per un tempo non superiore alle 48 ore. Se il campione non può essere processato entro 48 ore va conservato a -80°C. Anche durante il trasporto il campione deve essere refrigerato e ricoperto da un triplo imballaggio a tenuta stagna.
Diagnosi molecolare
Una volta raggiunto il laboratorio, il campione verrà analizzato ricercando l’RNA virale utilizzando una metodica molecolare rapida, la Reverse Real-Time PCR, che utilizza un processo di retrotrascrizione, mediante il quale viene sintetizzata una molecola di DNA a partenza da un singolo filamento di RNA, dopo di che la sequenza di DNA neosintetizzata viene amplificata.
Questo procedimento di laboratorio consente di individuare, nel campione in esame, la presenza del genoma virale in poche ore.
I protocolli diagnostici descritti nel presente articolo sono quelli suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità
(https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/technical-guidance/laboratory-guidance).
La comunità scientifica, tutti noi, stiamo lavorando. E ne verremo a capo.
Caterina Tucciariello, Maria Teresa Tucciariello, Anestesia e Rianimazione
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Roma 24 Aprile 2020
Carissimi,
Il 31 marzo u.s. vi ho inviato un appunto sulle questioni politiche attuali che si pongono in maniera pressante alla nostra attenzione in un periodo così strano e confuso della nostra vita. Ho fatto alcune riflessioni delle quali dobbiamo tener conto per essere pronti per quella che ormai viene ritenuta, anche se con ritardo, la seconda fase, che per noi è essenzialmente politica, di strategia per poter delineare quale tipo di società vogliamo contribuire a determinare. Ritengo che chi ha passione e temperamento politico deve, anche nelle condizioni date, fare una riflessione approfondita su come organizzare il dopo, come far riferimento alla politica, alle scelte politiche che saranno indispensabili per rimettere in piedi il paese. È una richiesta particolare che faccio a tutti voi.
Non devo soffermarmi ad evidenziare le carenze del Governo, e del Parlamento in questo lungo periodo di “contagio“ del virus, per cui prendo atto delle sollecitazioni che mi sono venute da tanti e in particolare dal nostro amico Herrmann Teusch e dal prof. Antonino Giannone a preparare una nostra conclusione politica operativa dopo le iniziative prese nei mesi scorsi.
Riconosco nelle mie odierne riflessioni “casalinghe“ che la nostra iniziativa, di dare vita
ad una “Federazione Popolare dei Democratici Cristiani” è stata puntuale e ha risvegliato l’attenzione e la passione di chi ritiene indispensabile la riscoperta della politica perchè, in questo squallido panorama, soltanto un “centro“ culturale e politico può dare garanzie di equilibrio democratico e di governabilità.
Dobbiamo tutti essere convinti per contrastare l’atteggiamento del Governo e in particolare del Presidente del Consiglio che approfitta della drammatica contingenza attuale per proporre se stesso e per alterare il rapporto democratico con l’opinione pubblica è indispensabile la nostra iniziativa autonoma saldamente fondata ai valori veri della “rappresentanza di una Repubblica Parlamentare”.
Il “centro“ può orientare in misura sostanziale non strumentale il nostro coordinamento con il PPE e con l’Europa che resta il punto di riferimento fondamentale per rilanciare il paese sul piano istituzionale e sul piano economico
Questa mia lettera vuole avere un prevalente carattere organizzativo per stabilire un itinerario per il prossimo mese di maggio per un confronto tra di noi, per un ulteriore approfondimento politico e per una decisione sulle scelte da fare.
Orbene il nostro Statuto stabilisce all’art.1 che per raggiungere “comuni finalità politiche” la Federazione avrebbe dovuto:
1 - dar vita da subito ad un patto federativo indicato dagli organi della federazione;
2- dar vita ad una fase costituente della Federazione Popolare dei democratici cristiani per offrire un punto di riferimento culturale e politico a tutti quelli che si ispirano ai valori comuni del popolarismo italiano e all’esperienza storica dei cristiani democratici,
dei liberali e dei riformisti italiani;
3 - offrire un punto di riferimento politico e culturale, per tutti quelli che si ispirano ai valori comuni di un’Europa federale, basata sul principio democratico di sussidiarietà con riferimento alla tradizione democratica del nostro paese;
4- aprire la Federazione a persone e movimenti di matrice cristiana, cattolica, liberale e riformista, attorno ad un progetto politico di rinascita del Paese e dell’Europa;
5 - proporre un simbolo unitario da presentare alle prossime elezioni comunali, provinciali, regionali, nazionali ed europee nel quale tutti si possano riconoscere. Non credo di essere fuori dalla realtà se riconosciamo di avere esaurito questa prima “istruttoria” politica e di essere pronti ad una seconda fase più operativa.
Nelle varie memorie dell’assemblea della Federazione, nei colloqui che abbiamo avuto con la Fondazione DC, e con il Comitato Scientifico al suo interno, e soprattutto nel convegno di Roma del gennaio scorso commemorando Luigi Sturzo, abbiamo approfondito le nostre peculiari posizioni politiche e, abbiamo messo a punto una proposta politica sia pure nella dialettica che caratterizza la nostra dimensione culturale.
Il nostro compito ora è quello di superare in concreto le attuali formazioni politiche che si richiamano alle posizioni di “centro” per la formazione di un nuovo soggetto politico capace di presentare propri candidati, per le prossime elezioni comunali e regionali nazionali, che si terranno nell’anno in corso; dar vita da subito a comitati regionali per favorire le aggregazioni locali e la solidarietà fra gruppi finora divisi, facendo proprio il monito a tutti noto di Alcide De Gasperi “solo se saremo uniti saremo forti, solo se saremo forti saremo liberi”.
La mia convinzione è che quando si uscirà da questo tunnel molto buio nulla sarà come prima, come si dice da più parti in maniera un po’ retorica e superficiale, soprattutto sul piano politico e sentiremo più forte l’esigenza di un partito centrista per recuperare la cultura politica e l’identità che sono il presupposto della democrazia.
Le elezioni regionali in autunno saranno il banco di prova della possibilità di essere presenti con una lista per segnalare la nostra posizione autonoma e per aggregare tante realtà sociali prive di rappresentanza e tutti quelli che vogliono riconoscersi in una dimensione politica fuori dal populismo e dal sovranismo che tanti danni hanno già arrecato al nostro paese.
Il contributo che viene a noi offerto in particolare dal prof. Antonino Giannone e da Ettore Bonalberti così come le sollecitazioni e le proposte che ho ricevuto da tanti di voi sono preziose per una analisi completa sul nostro programma e per il riferimento all’Europa così importante in questo momento che ci deve vedere, come auspica Hermann Teusch, coordinati con il PPE.
Ritengo che quindi che sia possibile un incontro tra di noi per il 20 maggio p.v. alle ore 14,00, sperando di poter essere fuori dalle costrizioni domiciliari; in caso contrario faremo in modo di organizzare una video conferenza in modo da poter comunque prendere decisioni operative.
Molti saluti
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In questo momento di crisi globale straordinaria possiamo cogliere l’occasione di un obbligato reset economico, monetario, produttivo e geopolitico per superare il vecchio paradigma e adottarne uno più sostenibile.
Se non ora quando è il momento di superare i dogmi e gli schemi di pensiero che hanno messo a dura prova l’equilibrio ambientale ed economico del pianeta? Occorre uscire dai vecchi modelli anti-distributivi, basati su una scarsità artificiale della moneta, e competitivi (mors tua, vita mea) per approdare a una economia basata sulla comunità (Stato comunità), sulla cooperazione (vita tua, vita mea) e su una moneta nominale non debito (scheda tecnica Nuovi Paradigmi in allegato A).
L’emergenza sanitaria ed economica, che è globale e sta sospendendo le libertà democratiche, spinge tutto il mondo verso mutamenti epocali, che si manifestano con interventi politici drastici, sorprendenti ed immediati.
Si intravedono nuovi paradigmi globali:
- ricerca di equilibri geopolitici diversi e più sostenibili
- la finanza si ridimensiona e torna al servizio del lavoro e della produzione
- la Politica governa la moneta e l’economia
- il commercio globale si riduce alla ricerca di scambi sostenibili
- la produzione si orienta prevalentemente al mercato interno
- la grandissima dimensione aziendale privata è destinata a ridimensionarsi
- la democrazia è in crisi
Scivoliamo verso la sospensione definitiva delle libertà costituzionali, o sviluppiamo una nuova capacità di decisioni trasparenti e condivise? L’Italia, colta in questo periodo di emergenza nella sua massima fragilità finanziaria, aggravata da una latente frattura fra popolazione e rappresentanza politica, corre oggi immensi rischi. Ogni speranza di rinascita potrebbe essere soffocata definitivamente se il Governo trascinasse il Paese e le generazioni future nelle paludi di quel grande prestito internazionale che molti avidi speculatori auspicano e sollecitano.
NON ABBIAMO BISOGNO DI PRESTITI INTERNAZIONALI. TUTTI DEBBONO ESSERE INFORMATI AL RIGUARDO
Sei d’accordo con noi?
Allora unisciti ai tantissimi cittadini, economisti, imprenditori, e politici che hanno già firmato!
sottoscrivi
L’Italia può invece cogliere, con uno scatto d’orgoglio nazionale, le enormi opportunità offerte dalle circostanze, se sapremo scegliere, popolo e Istituzioni insieme, di intervenire ben oltre l’emergenza, con uno sguardo verso la svolta epocale che sta interessando tutta l’umanità, prendendo decisioni politiche strutturali coraggiose, lungimiranti e di ampio respiro.
Le azioni avviate dal Governo in questi giorni sembrano rispondere all’emergenza e, sebbene lo facciano con decisione e coraggio, mancano di prospettiva futura.
Questo è il tempo delle responsabilità condivise.
In questo documento sono raccolti i suggerimenti pratici in grado di trasformare l’emergenza in uno strutturale cambiamento di rotta.
Servono a sostenere un piano di intervento di almeno 350 miliardi di euro, suddiviso in 100 mld immediati e almeno 250 mld a brevissimo termine.
È stato elaborato e condiviso da molti economisti, esperti di finanza e altri intellettuali italiani, che si confrontano sul tema da anni.
Lo inviamo, restando a disposizione per ogni eventuale approfondimento tecnico, a tutti i rappresentanti nelle Istituzioni e anche ai media nazionali, chiedendo:
- una valutazione seria ed approfondita da parte del Governo
- un’ampia informazione pubblica
- un confronto diretto con rappresentanti del Governo e del Parlamento
Quadro d’insieme di interventi per un totale di 350 miliardi
Tempo T0: Misure immediate per 100 mld.
Per tamponare l’emergenza sanitaria, il rischio reddito per famiglie e imprese, e mettere le istituzioni finanziarie pubbliche in grado di sostenere misure strutturali appena successive, occorre portare nelle casse dello Stato liquidità immediata per un totale di almeno 100 miliardi. Questa prima tranche di interventi è funzionale a finanziare le spese più urgenti. Al tempo t0 si propongono quindi misure funzionali a soddisfare solo le esigenze immediate.
Scongiuriamo così il prestito internazionale: MES, Eurobond, Coronabond, Fondo di redenzione nazionale, ecc…
Le misure più adeguate all’esigenza hanno natura transitoria, potendo essere sostituite, non appena superata l’emergenza, da interventi più strutturali.
Sono di due tipi:
1) Emissione di titoli di Stato a breve termine, garantiti e riservati esclusivamente al risparmio di operatori nazionali – scheda tecnica allegato B
Consente di:
- mobilitare rapidamente al servizio della comunità parte del risparmio finanziario privato nazionale, di cui almeno 1500 miliardi sono disponibili (conti correnti e depositi) o facilmente liquidabili;
- mettere al sicuro questa preziosa risorsa nazionale, oggi sfruttata prevalentemente dalla finanza speculativa mondiale
- attuare finalmente la disposizione costituzionale dell’articolo 47 che impone alla Repubblica di tutelare il risparmio
- restituire integralmente agli investitori internazionali ogni centesimo di debito pubblico in scadenza, liberandoci per sempre dal ricatto odioso dello spread
Si sostituisce di fatto il “debito pubblico in mano a non residenti”, concetto odioso, con ben più rassicuranti e graditi “strumenti di protezione e impiego del risparmio dei cittadini”.
2) Emissione diretta da parte del MEF di biglietti di stato (o statonote), anche in versione elettronica – scheda tecnica allegato C
Consente di:
- coprire con immediatezza ogni esigenza della spesa non coperta da entrate
- arrestare ogni effetto sulla popolazione da parte di qualsiasi turbolenza derivante dalle operazioni speculative
I 100 miliardi saranno spesi per rinforzare il sistema sanitario secondo le esigenze e per distribuire immediatamente un reddito personale di solidarietà, dato a tutti i cittadini residenti che ne abbiano esigenza e ne facciano richiesta, possibilmente in formato elettronico.
Entrambe le misure – se presentate adeguatamente – saranno facilmente accettate dai cittadini, e sicuramente gradite dagli investitori.
Soprattutto se vengono accompagnate dall’impegno verso la popolazione da parte di Governo e Parlamento, ad implementare nella fase immediatamente successiva misure strutturali a favore di tutti, tra cui la predisposizione di una piattaforma pubblica elettronica dei pagamenti che servirà per i provvedimenti della fase T1.
UN NUOVO PATTO SOCIALE
Tempo T1 (entro 4 mesi). Misure strutturali per almeno 250 mld.
Al tempo t1 si predispone un piano strategico di investimenti produttivi per almeno 250 mld per rilanciare l’economia nazionale attorno a obiettivi coerenti e coordinati di politica economica di medio-lungo termine.
Alle fonti di finanziamento si aggiungono altri tre strumenti, banche pubbliche, agevolazioni fiscali e CdR, scambiabili su apposita piattaforma informatica.
3) Le istituzioni finanziarie pubbliche (Medio Credito Centrale, Cassa Depositi e Prestiti ecc.) vengono ampiamente ricapitalizzate e messe a rapporto diretto e stringente con il Governo per tutelare strutturalmente il risparmio pubblico e creare investimenti – scheda tecnica allegato D
Consente di:
- accedere alla provvista di liquidità a tassi convenienti presso la BCE
- garantire al Governo un efficace strumento di trasmissione nell’economia reale delle decisioni politiche prese dal Parlamento
- rimettere l’apparato pubblico in grado di garantire a cittadini e imprese i servizi pubblici essenziali di qualità adeguata
È possibile e auspicabile prevedere forme di partecipazione diretta alla proprietà popolare diffusa nelle aziende pubbliche che erogano servizi, accompagnate da forme di coinvolgimento nella gestione, al fine di assicurarne il controllo e il contenimento dei costi.
4) La trasferibilità di qualsiasi agevolazione fiscale (credito, detrazione, sconto, compensazione) tra tutti i soggetti giuridici residenti.
Attualmente esiste già una piattaforma informatica pubblica presso l’Agenzia delle Entrate per la trasferibilità delle agevolazioni fiscali (crediti, detrazioni, sconti), che va certamente implementata e resa più fluida nell’uso tra tutti i cittadini di quanto non sia oggi. Su tali aspetti esistono disegni di legge (CCF, SIRE) già depositati in Parlamento, di cui si chiede approvazione coordinata.
5) I Conti di Risparmio (CdR) pubblici, volontari e con somme trasferibili su piattaforma elettronica presso il MEF, aperti a tutti i residenti – scheda tecnica allegato E
Consente di:
- creare un sistema pubblico di pagamenti interni, che metta in contatto diretto lo Stato comunità con tutti i suoi cittadini partecipanti; utile sempre, ma particolarmente nelle situazioni di urgenza e necessità come l’attuale per erogare con immediatezza un reddito personale di solidarietà
- tutelare il risparmio italiano, ex art. 47 della Costituzione, per di più garantendo che sia sistematicamente utilizzabile per la sua fluida circolazione nel mercato domestico
- ridurre gli oneri passivi sul debito pubblico, permettendone contestualmente la sua riduzione complessiva e l’aumento della detenzione nei soggetti residenti in Italia, cui verrebbero accreditati anche i relativi interessi che tornerebbero qui in circolazione
- sostituzione di una buona parte degli attuali titoli del debito pubblico fluttuanti sui mercati con gli Euro raccolti tramite i conti di risparmio pubblico
Il risultato finale, a seguito delle misure del punto T1, è quello che ogni soggetto residente munito di codice fiscale possa avere un unico innovativo strumento informatico che permetta la trasferibilità delle somme sul conto corrente bancario, sul conto di risparmio pubblico e delle agevolazioni fiscali.
Con tali fonti di finanziamento (titoli di Stato di solidarietà, biglietti di stato, banche pubbliche, circolazione delle agevolazioni fiscali e dei CdR), si potranno spendere almeno ulteriori 250 miliardi con i seguenti obiettivi:
- creare lavoro per tutti
- acquisire aziende strategiche al patrimonio pubblico, necessarie a garantire alla cittadinanza ed alla struttura produttiva privata l’erogazione dei servizi essenziali (sanità, credito, energia, trasporti, ricerca, formazione e informazione, telecomunicazioni)
- sostenere le piccole e medie imprese private
- rafforzare il mercato interno e riorientare la produzione
Italia, 30 marzo 2020
L’elenco dei promotori è pubblicato qui: PROMOTORI
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Un movimento politico di ispirazione cristiana, come il nostro, ha progetti di vita e di società che non sono negoziabili. Non ci sono sufficienti spazi di vita e di sanità in molti paesi del Pianeta e neanche in Italia. Anzi da noi la politica è ridotta a fatti burocratici, management, gestione. La politica ha lasciato spazio decisivo alla razionalità tecnico-scientifica, fino a sacrificare, nel calcolo delle probabilità, la vita di persone più fragili rispetto a chi ha maggiori possibilità di farcela, come sta accadendo col Coronavirus. Come sappiamo, in caso di scarsità di posti in terapia intensiva, vengono esclusi dalle cure pazienti che hanno patologie pregresse e quindi più fragili. Dice papa Francesco " è il tempo del nostro giudizio, di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati, e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà". Tornare alla politica, costruire partiti a forti caratteri etici. C'è bisogno di questo, c'è bisogno dei cristiani che abbiano alle spalle un forte partito di ispirazione cristiana.
Pasquale Tucciariello
J. M. Keynes (1883-1946) inglese, economista, in tempo di crisi spesso viene citato. La disoccupazione - scriveva - è causa di minori consumi di beni, minori consumi di beni causa di minore domanda di beni, minore domanda è causa di minore produzione. Cioè ulteriore aumento di disoccupazione. Lo Stato deve intervenire. In questa crisi, se l'Italia prende centinaia di miliardi di euro in prestito, sia pure senza interessi, che poi deve restituire, accade che "nel lungo periodo siamo tutti morti". l'Italia ha già accumulato un debito pubblico pesante. Se a questo sommiamo altri debiti per finanziare i danni del Coronavirus, l'Italia non avrebbe più respiro economico, verrebbe strozzata, o costretta a svendere i suoi beni: roba mia aiutami tu. Cosa fare? Una quantità enorme di moneta, non a debito, può essere stampata o dalla Banca centrale europea, o dalla Banca d'Italia come moneta parallela, per uso interno. Intanto, si costituisca da subito un consiglio permanente di esperti per il dopo epidemia, si costituisca un nuovo Codice Camaldoli - ne parla spesso l'on. Publio Fiori -, un piano strategico per proposte e per progetti. E vediamo come l'Italia se la caverà in questi giorni nei rapporti con l'Europa. Incrociamo le dita. E preghiamo per i nostri politici, come suggerisce il Papa.
Pasquale Tucciariello
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La persona costituisce la prima cellula della democrazia. E’ la persona, non l’individuo, ad aspirare alla partecipazione alla vita democratica, perché l’individuo si appaga della propria particolarità, la persona contiene un “di più” e la sua unicità assume un senso positivo in quanto coesiste con una originaria apertura alla convivenza.
Per la filosofia, la democrazia non è un edificio costruito una volta per tutte, bensì una convivenza complessa in continuo divenire; è un ordine che viene a crearsi davanti a noi e dentro di noi, ed esige la nostra partecipazione.
Il nesso con la politica è connaturato alla filosofia a partire dai Sofisti. Socrate e Platone, in modi diversi, testimoniano come l’una non può prescindere dall’altra. Sappiamo anche che la mediazione privilegiata nel rapporto tra filosofia e politica è sempre stata l’etica.
Quella tra filosofia e democrazia è una relazione che si annoda a partire dalla teoria della conoscenza e dal confronto tra conoscere e agire. Una democrazia si sostanzia di costumi e atteggiamenti che prendono corpo e forma nel campo delle relazioni intersoggettive e nelle dinamiche della società civile prima ancora di rivestirsi delle forme giuridiche corrispondenti, pertanto mette in gioco la sfera della formazione. E solo per spinte etico-culturali si può coltivare la democrazia come ideale e teorizzarlo come modello di governo.
Perché la filosofia? Perché essa si presenta, già in Grecia, come esercizio di riflessione che mette in discussione l’ordine dei valori, delle credenze e delle norme che stavano a fondamento della civiltà greca arcaica. Il movimento della Sofistica tende ad abbattere tutte le certezze della tradizione e a fare dell’uomo-cittadino la misura di ogni cosa: le verità non sono date, ma si costruiscono con le abilità dell’uso retorico del linguaggio; si producono nel confronto comunicativo e non rappresentano la realtà nella sua essenza, bensì soltanto lo scopo pratico perseguito.
Alla luce di questa riflessione, nell’Atene del V sec. a. C. prende corpo la prima esperienza di democrazia e si staglia il profilo dell’individuo, come soggetto che assume su di sé la responsabilità della propria identità, nel conoscersi e nel costruirsi. Proprio Socrate ha inteso la filosofia come un agire in conformità con una “saggezza” in cui razionalità ed azione nel mondo non erano ancora separate. Dall’educazione dipende se la democrazia si auto-alimenta perfezionandosi e vivificandosi ogni giorno. La democrazia è anche un processo di ricerca sempre aperto, in cui ci si interroga quotidianamente su che cosa è la verità, il bene, la giustizia.
Libertà ed uguaglianza rappresentano i principi ispiratori di ogni visione democratica della società, ma ciascuno dei due termini, assolutizzato, può portare ad una negazione della democrazia. Ed è proprio l’educazione a dover promuovere ed affinare le capacità riflessive di ciascuno. E’ un dovere, rispetto all’etica democratica e rispetto ai modi di risolvere i conflitti, favorire il dialogo e cercare pacifiche soluzioni attraverso l’esame di significati, di presupposti e di ipotizzabili conseguenze di decisioni e scelte.
La democrazia – come sapeva bene Hannah Arendt – deve difendersi continuamente dalle sue degenerazioni. Essa è sorta prima del cristianesimo. Il paganesimo greco e latino l’ha conosciuta come teoria e come prassi. Dobbiamo al filosofo Maritain la rivendicazione delle origini cristiane della democrazia, al tempo del crollo delle democrazie totalitarie e dell’edificazione di nuovi regimi politici dell’Europa occidentale. Ma le condizioni attuali della democrazia non sono più le stesse; essa è diventata il regime politico del nostro tempo e i pericoli che corre sono di diversa natura. Tuttavia le riflessioni di Maritain segnano un punto di partenza.
Ci sono cose che il cristianesimo ha insegnato alla storia profana e che appartengono ormai alle conquiste della civiltà, senza che gli uomini siano più consapevoli delle loro origini. Noi non possiamo concepire la democrazia se non sul presupposto della persona umana, dell’uguaglianza di tutti gli uomini, della loro fraternità. Questi tre valori non sono la democrazia, ma ne sono la premessa necessaria, e l’impronta del cristianesimo è in essa indelebile. Che ogni uomo è persona significa che è il luogo inviolabile della libertà e della coscienza, che è autonoma, che è capace di dirigere se stessa, che deve essere rispettata per se stessa. Ma significa anche che è un essere in relazione, che è fatta per la comunicazione, per il dialogo, per la ricerca comune della verità, per la collaborazione e cooperazione.
Quando noi pensiamo il soggetto tipico della democrazia, lo pensiamo con quelle caratteristiche dell’uomo che sono il portato dell’antropologia cristiana. Quando noi pensiamo al rapporto delle persone all’interno del regime politico democratico non possiamo prescindere dall’idea di uguaglianza, che ha le sue radici nel cristianesimo. C’è da considerare poi il vincolo di fratellanza, che il cristianesimo proclama, e che supera qualsiasi barriera nazionale o di gruppo e si estende a tutta l’umanità. E il tipo antropologico preferito dalla democrazia è l’uomo della comune umanità.
Nel 1936 Maritain pubblica Umanesimo integrale, in cui difende il personalismo politico, cioè l’idea della responsabilità e della partecipazione di ogni cittadino alla conduzione della cosa pubblica. Purtroppo questi principi di ispirazione cristiana rischiano di diventare formule vuote o valori esangui.
Di che cosa hanno bisogno dunque le nostre democrazie malate? Di più slogan, più educazione civica nelle scuole, più controllo, più società civile? Di più “i”, oltre alle tre di internet-impresa-inglese, da infilare nello zaino dei ragazzini? Il sistema così non regge. E se la democrazia avesse semplicemente bisogno di virtù? Senza virtù non c’è democrazia. Ci sono dogmi. E la democrazia ha bisogno di virtù etica, affinché la virtù politica possa essere – per dirla con Montesquieu – valore comune di una relazione libera nella differenza. Distinguendola da quella di ogni buon ragionamento (virtù dianoetica), già Aristotele insegnava che la virtù etica è una disposizione volta a realizzare quanto è ritenuto un bene. Un bene comune. Non una facoltà, né una passione, ma un comportamento a cui si giunge con consapevolezza e disciplina, attraverso un percorso. Sono disposizioni virtuose il coraggio, la benevolenza, la liberalità. I greci avevano quattro virtù cardinali: prudenza, fortezza, temperanza, giustizia. I cristiani ne aggiunsero tre: fede, speranza, carità. Senza speranza, c’è indifferenza. Senza carità, cinismo. Senza fede, niente. Dunque senza virtù, ossia senza sacrificare il particolare all’interesse generale, non si ha bene comune. Non si ha democrazia.
Abbiamo assistito, negli ultimi decenni, ad un progressivo aumento delle dichiarazioni d’impegno sul piano etico-morale per la tutela dell’ambiente o la lotta contro lo spreco alimentare, l’inquinamento, le diseguaglianze economiche e via dicendo. Di pari passo sono cresciuti il divari e la contraddizione tra i buoni propositi e le pratiche per realizzarli. Un divario che ha fatto parlare di corruzione morale. Quando etica e morale prendono strade diverse, la prima diventa vuoto formalismo, la seconda annega nella sterilità di una mano destra che attende sempre di sapere cosa fa la sinistra, prima di agire. Solo dove moralità ed etica si compenetrano, sembra aprirsi la prospettiva di una vita buona. Sul piano della riflessione etica generale e sul piano della morale, dell’habitus, del comportamento concreto, cittadini e decisori sono soggetti che devono individuare e assumere responsabilità, anche in un contesto segnato da una complessità crescente.
I benefici della libertà non sono solamente una gioia, ma un onere, spesso lasciato in ombra. Anche perché l’angoscia del dover scegliere appare il tratto costitutivo della modernità stessa. Eppure scegliere si deve. Nell’odierno contesto politico articolato, le convinzioni morali, apprese dalla vita umana in comune, reggono di fronte a condizioni complesse? In che modo devono essere trasmesse?
La democrazia, è evidente, ha bisogno di virtù. Ha bisogno di relazione con soggetti virtuosi capaci di riconfigurare spazio civile e legame sociale.
Mentre si assiste alla vittoria della democrazia nel mondo, si ravvisa anche una crisi della democrazia in molte società avanzate; soprattutto laddove non soddisfa pienamente la definizione minima di democrazia. La fragilità delle reti associative, l’espansione del ruolo dei media nel processo politico, i processi di globalizzazione economica, rappresentano i principali fattori di deconsolidamento della democrazia nelle società contemporanee.
La democrazia agli occhi dei suoi cittadini appare così una rappresentanza vuota in cui i decisori tentano di nascondere la decrescente capacità della politica di governare i poteri sociali che operano sul mercato globale. Mentre gli uomini politici danno vita a confronti urlati e confusi nei talk show, i poteri sociali agiscono come potenze anonime e distanti, imponendo la legalità del mercato globale sulla legalità delle leggi nazionali.
La crisi attuale della democrazia rispecchia la visione di Habermas. Il filosofo tedesco fonda la democrazia sul principio del discorso. Ovvero, le democrazia esige una sfera pubblica abitata dai discorsi in cui sia ampia la partecipazione dei cittadini, i partiti tornino ad essere catalizzatori dell’opinione pubblica, i media siano autonomi dalle pressioni di attori politici e sociali e si intendano mandatari di un pubblico illuminato.
Tuttavia, nella complessità delle questioni in gioco, la causa principale del declino della democrazia attuale, è la profonda crisi antropologica ed etica. L’ambito della democrazia non può esaurirsi in quello della politica, ma lo trascende nell’ethos dei popoli. Vale a dire, se vengono ignorati l’essere delle persone e la legge morale che le guida, difficilmente la democrazia potrà rappresentare un segno di speranza per il futuro e un’attuazione a misura d’uomo.
Per una rinascita della democrazia sanamente laica occorre passare necessariamente attraverso la rivisitazione storico-culturale e la riappropriazione delle sue radici umane e cristiane. Dall’interrogarsi sul lavoro dentro e per la politica, può incominciare a prendere corpo la soluzione ai dubbi sulle possibilità e sulle forme di un cattolicesimo che oggi – rispetto alle condizioni della politica in Italia, non diventi ininfluente.
Per la presenza rilevante dei cattolici italiani sulla scena della politica contemporanea, il nesso tra cultura e azione politica resta preliminare ed essenziale. Tanto più che la capacità di durare dei regimi democratici viene sempre più ad intrecciarsi con le dislocazioni in atto nel rapporto tra politica e vita. La politica democratica viene scossa da tutti quei valori della vita della singola persona e della collettività che antecedono, ed eccedono, ogni principio e contenuto del materiale bene-essere. Per parte loro, questi valori alimentano forme di consenso e reale aggregazione non facilmente orientabili dai partiti, proprio perché estranee ad ogni schema di base su cui restano costruite le ideologie di questi ultimi.
Del resto, proprio la distanza della politica da una visione antropologica della vita e della stessa vita politica genera frattura tra etica e politica. Regole e comportamenti etici riescono per lo più ad essere soltanto un rimedio provvisorio del malessere della democrazia. E lo saranno, finché la cosiddetta “etica pubblica” resti confinata in quella sfera sociale che è esposta alla pervasività della politica e alle sue caratteristiche di corrompimento. Così come più gravoso e pubblicamente meno efficace è l’operare, eticamente orientato, dei singoli che lo compongono. Per far rinascere fiducia nella politica e nelle sue capacità di guidare positivamente grandi cambiamenti, appare necessario un rinnovato slancio culturale, nonché l’impegno dei cattolici.
Ma……il cattolico del ‘900 non esiste più. Lo stesso essere cattolico è ormai un caleidiscopio di teorie e di percezioni. Tanti modi di cercare Qualcuno. I cattolici tra ‘800 e ‘900 hanno un’idea chiara di società, poi avranno idee chiare sull’idea di Stato. E il tutto deriva direttamente dalla parola del Papa e dall’impegno di vescovi e sacerdoti. Il Magistero sociale della Chiesa addita al popolo cristiano vie chiare e definite.
Sempre più, nel tempo, il patrimonio etico è divenuto una sorta di supermercato emozionale che ha trasformato un universo compatto in una sorta di self-service comportamentale, variegato e vago; la fede si è ridotta ad esperienza vissuta, a prodotto pronto ad essere consumato; e si è trasformata, sul terreno agitato della post-modernità, in optional o in antidepressivo. Tanta parte in questa crisi identitaria l’ha avuta la crisi della politica che all’inizio degli anni ’90 ha agitato la vita civile italiana, con l’implosione della Democrazia cristiana; ciò che ha contribuito alla diaspora cattolica e soprattutto a calamitare i cattolici verso nuove identità. E la fede è divenuta una questione privata.
Senza un alfabeto certificato, persino l’essere cattolico, il definirsi cattolico, si è ritrovato in un terreno melmoso, in cui hanno trovato cittadinanza echi del Vangelo, un po’ di yoga, suggestioni buddiste, un pizzico di veganesimo e di pulsioni ecologiste. Cattolico è divenuta così una categoria vaga, anemica, facilmente sostituibile con un generico “cristiano”, un ambiguo fedele, un vago credente, praticante o meno. La questione si riduce così alla domanda: fedele a chi? Credente in che?
Lo spostamento dello stesso magistero dall’ambito sociale a quello ambientale ha contribuito ad innalzare la natura a categoria dello spirito e ad accostarla quasi a Dio stesso. Immanenza e trascendenza si fondono così in un unico universo liquido, in cui ciascuno raccoglie quel che gli serve per dare apparentemente senso alla propria esistenza domandando tutto il resto alla sfera della coscienza privata, della mentalità, della moda.
Così, il cristiano si qualifica per il suo impegno a prendersi cura del giardinetto comunale, e quell’universo che la parola cattolico definiva, fatto non solo di scelte civili ma di scelte private, di morale matrimoniale, di uso del denaro, di solidarietà ecc., si ritrova spopolato in infiniti mondi che convergono di volta in volta per aggregazioni emotive. E tutti questi mondi non solo guardano con simpatia all’avvicendarsi dei governi, ma si sentono legittimati a definirsi parte integrante di un universo nebbioso in cui Qualcuno dovrà pur esserci!
Eppure noi cattolici, quelli ancora capaci di una coscienza etica e civile, sono oggi in posizione di vantaggio. Il deposito di idee e convinzioni dei cattolici intorno ai fini e al senso della politica è quello che meglio risponde all’attuale domanda – indistinta e confusa, ma sempre più estesa e forte – di una politica attenta e capace di soddisfare le giuste esigenze della persona, della famiglia, delle associazioni in cui la persona opera, delle comunità di cui si compone ogni più vasta comunità politica, del lavoro come questione aperta e decisiva per lo sviluppo sociale, di un autentico bene-essere non ridotto all’impossibile gara di non voler avere nulla in meno di tutti gli altri e, al tempo stesso, di riuscire ad ottenere qualcosa in più rispetto a qualcun altro.
Siamo in una posizione di vantaggio perché il patrimonio delle nostre idee e convinzioni si è assai poco contaminato di quella politica ideologica che, dopo aver dominato il ‘900, nelle sue diverse derivazioni è tra le cause principali della caduta di rappresentatività della democrazia, e della crescita di insoddisfazione collettiva nei confronti di ciò che la politica scambia, cerca di produrre, e soprattutto consuma. Dalla consapevolezza di questo vantaggio occorre dunque partire per comprendere quanto ampio risulti lo spazio dei cattolici nell’economia e nella società del nostro Paese.
A questo punto si aprono due questioni. La prima è quella di un rapporto fecondo tra cultura e politica. La seconda riguarda la formazione dei giovani alle responsabilità politiche. Certo, un rapporto fecondo tra cultura e politica dovrà essere creativo, perché liberato dai conformismi dominanti, e perché capace di generare quelle condotte e quelle opere chiamate a portare con sé il segno dello spirito cristiano. Tanto più vi riuscirà, quanto più la cultura riuscirà ad interpretare a fornire di un senso - quindi di un significato e di una direzione per il futuro – quelle aspettative, quei desideri e quei bisogni che oggi avvertono la mancanza di un orientamento largamente condiviso e condivisibile. Un orientamento popolare, sentito come espressivo di ciò che ampi strati di cittadini avvertono coinvolgere la loro vita, i loro valori, il loro lavoro, la loro rete di relazioni e affetti. Un orientamento immediatamente politico, giacché esso pone in primo piano quei grandi temi della vita, personale e sociale, su cui più forte sta diventando la necessità di non essere soli, di diventare soggetti partecipanti alle decisioni politiche e non destinatari generici e passivi.
Ed è, questa della capacità di individuare culturalmente e curare luoghi e aree di aspettative, uno degli scopi principali a cui deve mirare anche l’educazione alle responsabilità politiche. Abbiamo urgenza di una educazione specifica e non generica, di una preparazione alle mai facili competenze richieste dai processi della politica e dell’amministrazione; ed è ben noto che le positive qualità di un leader non si improvvisano. E’ necessario tornare ad insegnare ai giovani che l’azione è indispensabile per la vitalità dei valori politici, i quali, quando siano solo proclamati, rischiano di inaridirsi; che l’agire politico richiede realismo e passione; che la dedizione ad una causa, sincera e disinteressata, è la base più durevole di una leadership.
Il cristianesimo cattolico da sempre ha suggerito una ragione della vita politica, diversa sia dalla narrativa dei diritti sia da quella dei doveri, ma fondata nella stessa natura e dignità umana. Il punto è che entrambe le impostazioni moderne sono entrate in crisi con l’avvento di sistemi politici in cui la decisione è affidata alla maggioranza. Nel primo modello: che cosa facciamo se – per usare le parole di Hannah Arendt – la comunità politica decide <<democraticamente, cioè a maggioranza, che per il bene del tutto, è meglio eliminare i diritti di una parte?>>. E, analogamente, nel modello dei doveri: cosa facciamo se in un contesto democratico, cioè pluralistico, la maggioranza non si identifica più nei valori della comunità politica? In questo caso, che fine fanno i doveri?
Occorre dunque la formazione di un partito, di un movimento popolare cattolico, costituito da credenti coerenti, che sappiano nutrire la vita politica del nostro tempo con una fede viva e radicata, con il senso del bene e della giustizia. Un partito che recuperi il senso di una politica capace di pensare il futuro, di dire in che direzione vogliamo andare, di chiederci come ridisegnare il lavoro, la scuola, le città, l’utilizzo delle risorse ambientali e molto altro, per indirizzare, e non subire, i cambiamenti che ci attendono. Un partito che si chieda come stare nella storia, ricordandoci che la politica ha significato se serve a chi non ha privilegi, a chi è meno forte, meno ricco, meno acculturato. Se non esiste un mondo cattolico, esistono ancora cattolici che si pongono domande alle quali vogliono dare risposte concrete.
La domanda più politica che possiamo porci oggi, come cattolici attenti al bene comune, è cosa possiamo fare insieme e a livello popolare, per promuovere la maturazione di quegli atteggiamenti antropologici di base, senza i quali ben difficilmente proposte politiche generative ma esigenti troveranno uditorio e consenso. Risuona, e a distanza di quasi un secolo ne comprendiamo probabilmente sempre meglio lo spessore politico, l’avvertimento di Peguy e di Mounier: la rivoluzione sarà spirituale o non sarà. Aggiungo: la rivoluzione sarà culturale o non sarà. La risposta al cosa possiamo fare è stata data da circa quaranta tra gruppi, associazioni, movimenti politici e culturali di diverse regioni d’Italia, che a Roma il 18 gennaio 2020, a 101 anni dalla Fondazione Sturziana del partito Popolare, hanno sottoscritto l’atto costitutivo della Federazione Popolare dei Democratici Cristiani, per ricreare un partito che si ispiri ai principi ideologici della Democrazia Cristiana e ai principi universali della democrazia di Sturzo, di De Gasperi e degli altri esponenti che la storia ricorda. La neonata Federazione vede responsabile nazionale l’on. Giuseppe Gargani, e referente per la Basilicata il prof. Pasquale Tucciariello, direttore del Centro Studi Leone XIII di Rionero in Vulture, di cui io stessa sono parte.
La riflessione che ci accomuna è il credere che il tempo presente, seppur in Europa non segnato da regimi oppressivi simili a quelli conosciuti nel Novecento, sia un tempo lungo. Sembra di vivere in un eterno presente senza mai sentire il bisogno di guardare al futuro: quello nostro, dei nostri figli o del nostro Paese. Quello in corso è un tempo in cui mancano visioni, speranze, sogni. E’ un tempo in cui ci si sente colti perché informati, magari acquisendo frettolosamente contenuti dai social. Cultura e informazione, pur non essendo sinonimi, sembrano confondersi contagiando la prima con i peggiori mali della seconda. E’ innegabile che il processo tecnologico e la velocità con la quale si comunica ci permettono di avere tante informazioni immediate, notizie tutte a portata di smartphone. Ci sentiamo informati, e probabilmente lo siamo, ma non siamo colti. Serve cultura per mettere in ordine le tante informazioni, per filtrarle, per dare loro ordine e priorità.
L’assenza di cultura ha un suo riflesso nella vita politica, anch’essa schiacciata sul presente, sull’attimo, cinguettata sui social e malata di reazioni a caldo. Una politica priva di riflessioni, studio e confronto, priva di pensieri lungimiranti. E chi vive schiacciato sul presente è infastidito dalle domande degli altri, non sa immaginare un futuro e pertanto lo respinge.
La Federazione converge su un ben definito progetto politico, connotato da un insieme di punti qualificanti: la vita della persona umana come bene intangibile; l’affermazione della soggettività economica e sociale della famiglia; la tensione verso una economia civile di mercato, come la Dottrina Sociale della Chiesa riconosce; il riconoscimento nella sfera pubblica del personalismo cristiano di Mounier, Maritain e altri; la formazione dei giovani perché possano impegnarsi responsabilmente in politica. Insieme a tante altre questioni da affrontare. E’ giunto il tempo di piangere meno sui danni di cui siamo quotidianamente testimoni, e di pensare di più ai modi di ridisegnare quell’insieme di istituzioni economiche e finanziarie che generano ingiustizie e riducono gli spazi di libertà della persona. Siamo consapevoli che, affinché sia incisiva la presenza dei cattolici in politica, dobbiamo andare in mare aperto ed elaborare una nuova cultura politica e una nuova progettualità. E una nuova educazione alla cultura politica, perché cultura vuol dire produzione di pensiero, in linea con i principi del Magistero della Chiesa.
Ricordiamo il monito di Keynes: << nel bene e nel male, sono le idee e non gli interessi a tracciare il corso della storia>>.
Noi cattolici, anche se forse ancora non abbiamo raggiunto una sensibilità comune, sentiamo una rinnovata passione per la politica come servizio al prossimo; per l’approccio morale come metodo a cui ispirare le scelte: non esiste una morale pubblica e una privata, ma solo etica, che ricorre a norme incarnate nella vita; per l’incontro, perché non è possibile vivere un tempo come il nostro senza interrogarsi, discutere, leggere, altrimenti si è trascinati dai venti e dalle correnti. Le semplificazioni e le paure si annidano nell’ignoranza. Incontri e dibattiti, alla luce della cultura, sono capaci di generare idee e visioni comuni.
Affermava uno dei padri conciliari, il domenicano Dominique Chenu: <<Se il Vangelo non fa politica cessa di essere Vangelo. La religione cristiana è una religione incarnata nella storia. E la politica si occupa di ciò che accade nella storia>>. E mi piace citare anche il cardinal Newmann: <<E’ venuto il tempo in cui i cattolici che vivono di fede, per essere tali, devono difendere la ragione. E proprio la ragione ci dice che è venuto il tempo in cui i cattolici devono difendere la politica, però non la politica qualunque, ma quella della nostra convivenza civile>>.
La proposta della Federazione è quella di tornare ad elaborare un pensiero pensante in ambito politico, creando una convergenza tra le diverse espressioni del mondo cattolico su un progetto di trasformazione. Si tratta cioè di trasformare – o di sostituire – quei blocchi che all’interno della società impediscono una evoluzione verso quella prospettiva che la Dottrina Sociale della Chiesa chiama del bene comune.
Noi viviamo una fase straordinaria, che richiama alla mente quella che si realizzò al tempo del passaggio dal feudalesimo all’umanesimo. Il XV secolo vide nascere la società moderna. I cattolici di allora con coraggio si misero a produrre cultura politica con una profondità che è rimasta celebre. Si pensi al contributo del pensiero francescano e della prima e seconda Scolastica. E gli umanisti civili dell’epoca, mentre continuavano ad occuparsi del sociale, capirono che era necessaria una strategia che indirizzasse la gente verso una prospettiva di sviluppo umano integrale. Dobbiamo compiere un’operazione analoga, pur nella complessità della post-modernità, dove “comunità” è una parola rara o non usata nel suo significato più pieno; al contrario, è stata sempre una delle parole più usate nel mondo cattolico.
Lo slogan odierno è Volo ergo sum, voglio dunque sono, meglio io sono ciò che voglio, che esclude una prospettiva comunitaria. Perciò la Federazione è animata dalla necessità di allacciare relazioni sociali, per un’opera di cultura politica diffusa. Ma una rinnovata forma di cultura popolare richiede un processo di rammendo: città per città, comune per comune. Questo significa partire dal basso, con lavoro paziente. Dove paziente include l’urgenza e la forte esigenza, e non certo rassegnazione e pigrizia.
Nonostante l’ambizione di orientare una rinnovata passione dei cattolici in politica, dobbiamo animarci di coraggio, per fare un passo avanti e dare significato al nostro percorso che è appena iniziato. E abbiamo bisogno di sacerdoti che guidino il nostro cammino, mettendo al primo posto quell’ I care , mi prendo cura, di don Milani, e la natura relazionale del Dio trinitario.
Possiamo avere visioni per noi e per gli altri, possiamo costruire un futuro mettendoci al servizio del prossimo attraverso quella che Paolo VI definì la più alta forma di carità.
Siamo determinati ad andare controvento. E ri-animare la politica.
Antonia Flaminia Chiari
Bioeticista
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O Vergine purissima che dall'Angelo ricevesti il prodigioso annuncio, accogli la nostra supplica, il grido: gemito e pianto intorno, silenzio e lutto, gocciola il cuore, il Mistero gli sta davanti; Oh tu, Maria, che trafitto avesti il cuore, non abbandonare la nostra anima all'avversario, fa' che tra i veli insani |
Purissima Virgo, aliger tibi praeco nuntiat prodigia, Preces ne despexeris clamantium: Gemitu ac fletu omnia miscentur, silentia ululatu resonant magna, mortalium morbida vis iam premitur angustiis, Tellus in iudicium vocatur Corda nunc caede madescunt, prodeunt Arcana: Eia ergo, Maria, cuius animam gladius pertransiit per acerbi tormenta doloris nostra vitae spiracula serves hostemque repellas, permeet, per te liceat, nigrantia flamen Spiritus |
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A un mese dallo scoppio della pandemia nel nostro Paese e ancora lontani dal raggiungimento del picco della diffusione del contagio, alla luce dei dati annunciati dal bollettino quotidiano della protezione civile, sorge spontanea una domanda: perché il virus è attecchito e si è propagato con straordinaria virulenza nell’area padana? Perché, soprattutto, la mortalità ha assunto in aree come quella bergamasca e bresciana valori elevatissimi quali non si sono riscontrati nella Cina e Corea del Sud?
Al primo quesito, sconosciuto il paziente zero del virus, irrisolto il rebus se sia ascrivibile a qualche uomo d’affari lombardo proveniente da un viaggio nella Cina o da un contatto di qualche operatore lombardo con qualcuno contagiato della Baviera, dove si presume sia iniziata la diffusione del virus in Europa, sarà compito di future indagini fornire una risposta che lasciamo alla competenza degli specialisti.
Quanto all’elevatissima diffusione in zone come quella bergamasca e bresciana, se è ragionevole pensare che sia legato alla particolare conformazione di quelle aree, caratterizzate da un continuum di città e paesi senza quasi soluzione di continuità, ricche di un tessuto socio economico e produttivo tra i più dotati nel mondo di piccole e medie imprese, ciò che lascia interdetti è l’elevata mortalità che in esse si riscontra, tanto che, da due giorni, abbiamo superato il numero dei morti denunciati in Cina e nella Corea del Sud.
Controllo sistematico della mobilità dei cinesi, ridotti da un regime autoritario alla condizione di distretto militarizzato a Hubei e nella città di Whuan, o grazie all’utilizzo di un’ applicazione informatica in dotazione alle autorità in Cina come nella più democratica Corea del Sud, in grado di controllare l’esatta posizione di ogni cittadino rispetto ai potenziali “untori”; ossia condizioni assolutamente lontane da quelle praticabili e concretamente sin qui gradualmente attivate nell’ Italia democratica, a partire proprio dalle prime “zone rosse” del contagio, penso che, tuttavia, non siano ragioni sufficienti a spiegare il divario nel tasso di letalità del virus dall’estremo oriente alla Padania.
Valgono certamente le ragioni di una popolazione più vecchia presente in Italia rispetto alla Cina e alla Corea, con evidenti condizioni di salute peggiori degli anziani rispetto ai giovani; considerato che la percentuale più alta di deceduti è da noi nella fascia 65 anni in su , rispetto a quella dei 45 anni nelle aree orientali. Credo, però, che nell’area padana si debba tener conto anche della variabile inquinamento ambientale. Non so se la cremazione immediata dei deceduti sia dovuta a ragioni oggettive sanitarie per eliminare del tutto il virus o, molto più praticamente, per le difficoltà di sepolture normali nei cimiteri e in assenza delle normali cerimonie funebri, certo è che, con quelle cremazioni si rende impossibile effettuare le autopsie solo dalle quali si potrebbero accertare le cause vere o prevalenti di quei decessi.
Le mancate autopsie e le conseguenti possibili errate attribuzioni delle cause di morte portano ad aumentare in maniera elevata il grado di letalità del corona virus. Si muore, com’ è appurato dagli esperti sanitari, per mancanza di ossigenazione, accertato che uno degli effetti del virus è di intaccare i tessuti dei bronchi e dei polmoni provocando delle polmoniti virali che richiedono il ricovero in terapie intensive e l’utilizzo di apparecchiature speciali di forzata ventilazione e ossigenazione controllata. Apparecchi di cui, almeno sin qui, solo una o poche ditte in Italia sono in grado di produrre e viste le chiusure autarchiche che ciascun Paese sta facendo delle proprie aziende produttrici di questi strumenti.
In questo momento, posto che vi saranno decine di migliaia di persone ricoverate con terapia intensiva negli ospedali italiani, che comprendono non solo i circa 3.000 intubati , ma anche tutti coloro che hanno avuto necessità di maschera facciale per l'ossigeno, che é un apparecchio mobile che viene portato al letto del paziente con difficolta respiratorie, sappiamo che alla data del 19 marzo, dato del Ministero della Salute, solo 2.498 di queste decine di migliaia sono anche positivi al tampone.
Questo proverebbe inequivocabilmente che tutti questi ricoveri in terapia intensiva sono dovuti in prevalenza all'inquinamento ambientale. Suona molto strano poi che chi muoia in terapia intensiva venga subito cremato. La cremazione, come detto, impedisce di effettuare la autopsia per accertare che non avesse invece i polmoni corrosi dallo smog. E' necessario pertanto che le autorità accertino quante persone sono ricoverate oggi in Italia non positivi al tampone, ma con difficolta respiratorie e tosse secca; ogni eccedenza proverebbe che si tratta di ricoveri per inquinamento ambientale. Credo che il tema delle immediate cremazioni dei cadaveri e delle mancate autopsie dovrebbe essere posto all’attenzione delle autorità competenti e non solo e non certo per mere esigenze statistiche.
Dati Arpa Lombardia: da 11 anni PM 10 e benzyl sono oltre il doppio della soglia limite da ottobre a gennaio, con picco dell' oltre soglia a febbraio, guarda caso che coincide con il picco dei ricoveri in terapia intensiva. Studi dell'Istituto Italiano Tumori sono chiarissimi nel merito: dopo 10 anni di esposizione al catrame (respirato dall'aria inquinata da gas di scarico delle auto e degli inceneritori) i sintomi sono tosse secca persistente, febbre alta e dispnea (difficolta respiratoria), insomma gli stessi imputati al coronavirus. Temo che corona virus e inquinamento ambientale concorrano a determinare l’alta mortalità nella pandemia che sta sconvolgendo la vita dell’area più produttiva dell’Italia.
In conclusione: dobbiamo certamente osservare scrupolosamente le regole che governo e autorità locali ci impongono e combattere in tal modo il flagello virale di questo inizio secolo, ma anche riconsiderare seriamente le cause di un inquinamento ambientale di cui solo noi uomini, con i nostri comportamenti personali e sociali, siamo responsabili.
Ettore Bonalberti
Presidente ALEF
Venezia, 21 Marzo 2020
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In principio fu la peste, narrata alla grande dalla penna di Alessandro Manzoni per descrivere tutto il periodo buio che contorna la vicenda d’amore contrastato tra Renzo e Lucia, poi ci furono durante il tempo il vaiolo, il colera, la famosa spagnola che fece tantissime vittime, per arrivare poi alla Sars ed infine, ai giorni nostri, al Covid 19, meglio noto come Coronavirus. Una situazione non di oggi, se consideriamo che, in tanti, hanno accusato il governo cinese di aver sottaciuto al mondo i numeri ed il contagio, partito da Wuhan, ormai diversi mesi fa, ma siccome il popolo cinese ha numeri che sono abnormi e si è diffuso, come presenza e soprattutto grazie alle proprie attività commerciali davvero in tutto il mondo, ecco che da un paio di settimane è scoppiato il caos e l’allarmismo che si è diffuso rapidamente, grazie anche ai social media e ad un po’ di confusione regnate ovunque, poi ha fatto il resto ed il Coronavirus ha raggiunto tutti, nessuno escluso. “Ma sarà solo l’influenza che arriva come ogni anno” è stato il primo commento di molti, ed anche dei più speranzosi, poi si sono iniziati a diffondere numeri diversi, situazioni e infezioni hanno peggiorato la situazione, diffusione del virus e contagi in serie hanno fatto il resto, portando il mondo intero a confrontarsi col virus. Ed anche la nostra Italia ha dovuto fare i conti con questa nuova situazione, difficile e pericolosa, visto il numero di contagi ed anche di morti, aggiornati giorno per giorno, partendo dai primi due casi in Italia, con la coppia di cinesi ricoverati a Roma allo Spallanzani, e con i primi contagi nostrani che si sono avuto in Lombardia, prima che ci rendessimo tutti conto che non serviva allarmarsi ma che il far finta di niente, almeno inizialmente, era lo stesso deleterio, come fosse l’altra faccia di quella stessa medaglia che il virus ha trasferito nel mondo, anche se non si tratta proprio di un premio…
“A ben guardare forse, inizialmente, si è un po’ sottovalutato il tutto, pensando che fosse solo un qualcosa che attenesse solo alla Cina” questo appare forse commento adatto in questo momento se si vuol considerare il tutto ma, è chiaro che, dopo i due casi a Roma, nel frattempo guariti, e che non vi era un vaccino pronto per affrontare l’espandersi dell’epidemia alla nostra Italia ed a tutti i paesi europei e non solo, si è guardato alla cosa con sempre maggiore attenzione, da parte di medici, degli specialisti virologi, del Governo, delle forse politiche e sociali, delle varie regioni e dei vertici delle stesse, partendo proprio dalla Lombardia, dove il tutto è nato da noi, partendo dalla chiusura delle università, dei musei, di luoghi di aggregazione sociale e culturale come gli stadi, i palasport, tutte le strutture che, proprio per la presenza massiccia di persone fruenti delle stesse, potesse sviluppare il contagio in maniera sempre maggiore. Sospese riunioni sindacali, manifestazioni sportive, spesso annullate manifestazioni carnevalesche anche di grido come per i maggiori eventi in maschera della penisola, chiese che sono state chiuse a loro volta prima che, nel resto d’Italia, e partendo dal giorno delle Ceneri, inizio della Quaresima, si indicassero a preti e fedeli, regole di comportamento come il non scambiarsi il segno di pace, il non starnutire o presentarsi se si era già influenzati, prendere sul palmo della mano l’Ostia Consacrata per evitare a preti, monaci, suore e ministri straordinari di aver contatto con la saliva di coloro che si presentavano all’altare, soprattutto con la volontà di chiedere a Nostro Signore, alla Santa Vergine Maria, ai Santi tutti di intervenire, grazie a maggiori preghiere in tal senso di tutti i cristiani, per ridurre il virus e le sue conseguenze su tutti, visto che, intanto, le notizie e gli allarmismi crescevano, con scene da “fine del mondo” per i supermercati letteralmente presi d’assolto in varie regioni, al pari di farmacie e sanitarie per fare scorta di amuchina o di altre sostanze disinfettanti e di mascherine. E poi guanti, protezioni varie, il calcio che, al pari di altri sport come basket e volley, che si ferma e crea tutta una serie di problemi e difficoltà, di proteste e di sollevazioni popolari visto che si era alla vigilia di una partita che poteva decidere il destino della nostra Serie A come Juventus – Inter, delle semifinali di Coppa Italia e di gare di coppe europee, per arrivare poi, dove il classico tira e molla per interessi economici di singoli e squadre, tra incassi, diritti televisivi e negare l’accesso a chi andava in trasferta o arrivava dalle cosiddette zone rosse in cui vi erano maggiori casi di Coronavirus nostrano, a riprendere dopo una settimana di stop ma solo a porte chiuse fino al 3 aprile, per tutti, dopo che alcuni avevano giocato regolarmente a porte aperte o vi erano stati anche lunghi viaggi dei tifosi per le trasferte, come nel caso di Lecce – Atalanta. E per sport a porte chiuse si intende sia il calcio che tutti gli altri, in Italia e nel confronto europeo, con altri come il motomondiale che rinvia alcuni impegni ed in tanti iniziano a temere per il potersi regolarmente svolgere delle finali di Coppa del Mondo di Sci a Cortina, i prossimi Europei di calcio tra Italia ed altri paesi, a giugno o addirittura le Olimpiadi a Tokyo.
Non dimenticando certo, come ha più volte ricordato l’Oms, Organizzazione Mondiale della Sanità, che tutte le precauzioni e tutte le attenzioni, i divieti, le ordinanze messe in campo, nella vita, nello sport, nella scuola, nel sociale e nella vita di ognuno di noi, non devono far dimenticare a nessuno quello che resta uno dei fattori di maggior contagio, ovvero i soldi, il passaggio di mano in mano di banconote e monete, tra gente di paesi e nazioni diverse e persone di cui non sappiamo nulla, soprattutto a livello di igiene e se ha messo in atto le precauzioni minime indicate ormai da giorni, per chiunque. E quindi, per tutti, dopo aver fatto uso di denaro, per pagamenti, o soltanto ricevuto banconote e monete come resto, diventa ancora più doveroso il ricorrere al lavaggio delle nostre mani con sapone e per un giusto tempo, dai 20 ai 40”, per evitare che sia un bene prezioso per tutti come il denaro, ad essere occasione ulteriore per allargare il contagio già presente, in Italia e nel mondo. E la nostra cara Basilicata? Anche qui un po’ di caos c’è stato prima che ci si adeguasse al resto della penisola, e se è vero che una maggiore attenzione, il prevenire, il mobilitarsi al meglio, l’evitare che tutto poi si trasformasse in qualcosa di ancora peggiore o più grave è sempre positivo, come i tanti messaggi diffusi attraverso i social ed i gruppi di whatsapp, come nel caso dell’intervento dei giorni scorsi da parte del Consigliere Comunale di Melfi Nuccio Flammia proprio per chiarire alla gente tutta una serie di cose utilissime in questo momento di grande difficoltà per il diffondersi del Coronavirus, si è arrivati spesso ad una serie di situazioni paradossali, forse perché il tutto non è stato seguito da puntuale informazione in merito. I comuni, le regioni, gli organi sportivi, la chiesa, le istituzioni, le scuole, il governo e i medici, senza dimenticare il ruolo strategico della nostra Protezione Civile, hanno fatto tanto ed in tempi diversi, sempre e solo al fine di evitare il proliferare del contagio e mettendo tutti sul più classico dei chi va la per prevenzione ed incremento di attenzione igienico sanitaria, ma forse, quel che è davvero è mancata inizialmente, è stata la classica “cabina unica di regia”, una sorta di entità superiore a cui tutti potessero far riferimento, aggiungendo del proprio ma sempre in sintonia con il resto del paese Italia. Poi, come detto, il Governo con il suo apposito decreto, le regioni che già si erano adeguate ed agivano in simbiosi con Roma e con la Protezione Civile, lo sport che si è potuto finalmente adeguare ad una modalità unica per tutti, superando gli interessi di qualcuno, ed infine le scuole, chiuse per un po’ di giorni per permettere la disinfestazione dei locali e per preservare sia i docenti che gli studenti dai contatti/possibili contagi, fino ad individuare nel saluto da lontano, non con lo stringersi la mano o peggio baciarsi che già era stato superato da giorni ormai, ma con i piedi a diventare protagonisti incontrandosi per strada, il modo per sentirsi amici ed uniti in questo stato di cose ed in un momento così particolare della nostra storia italiana, europea, mondiale, dovuto alla presenza del Covid 19, altrimenti noto come Coronavirus…Senza dimenticare gli sfottò sui social, e in particolar modo contro i cinesi, ritenuti responsabili pagandone in termini di assenza massiccia da attività commerciali loro e ristoranti, contro i supporters delle due squadre calcistiche di Milano, entrambe legate a proprietà cinesi e con il simbolo del serpente in vista, o contro la povera ma nota birra che ha per nome proprio la parte iniziale del virus del momento, messa da parte in frigo dagli altri prodotti in esso presenti ma con la mascherina addosso. Certo, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, gli allarmismi e l’esser stupidi oltre misura di pochi, non aiutano certo in casi simili ma, è chiaro, il contributo fattivo di tutti, davvero di tutti ed in ogni parte del mondo, e per noi italiani ovunque si è presenti, tra città, piccoli borghi, paesi o metropoli dello stivale tricolore, deve davvero servire a far quadrato per evitare il peggiorare della situazione.
Soprattutto ora, visto che i virologi continuano a dare segnali positivi, come le tantissime guarigioni dei contagiati in tempi rapidi, l’attenzione per bloccare il diffondersi del virus da alcune zone è stata rapida ed è totale, anche se vi sono pochi casi per fortuna in cui qualcuno non ha rispettato quarantene o stato di isolamento per virus contratto, tutte le componenti viaggiano dalla stessa parte, ad ogni livello per aiutare la gente a non contratte virus in maniera ulteriore, le scuole sono chiuse ovunque, lo sport contribuisce a riprendere l’attività con ben 21 regole da dover ma senza peggiorare il contagio con le porte chiuse in ogni situazione o zone in cui si gioca, donne, uomini, bambini, giovani, anziani, sono tutti attenti a far bene, lavandosi spesso le mani rispettando anche tutte le direttive sanitarie ricevute dagli organi competenti per ridurre i rischi di contagio. “Mi fa molto piacere vedere che tutti si adoperano in questi momenti per il bene comune dell’Italia” il commento di un anziano che aveva vissuto le tragedie della guerra ed altri momenti no della penisola, oltre ad altri virus o influenze ben più gravi susseguitesi nei decenni, compresi la pericolosa influenza suina di cui pochi ormai più parlano mentre per un altro ultraottantenne, speranzoso che il virus non porti altri danni, a se ed al resto delle comunità locali, lucani, del sud, dell’intera penisola e del mondo, si è prontamente detto “sorpreso in maniera positiva perché davvero la nostra Italia si conferma molto efficiente in situazioni gravi come queste che, per me, sono come una sorta di grande esercitazione di Protezione Civile, ma dal vivo, vera, che può essere utile oggi, per verificare il tutto ma anche, in previsione futura, sperando che mai la si debba attuare nella realtà, e nell’aiuto del Signore”. Anche se, in conclusione, se è vero che “prevenire è sempre meglio che curare” e, in ossequio a quanto stabilito dalla Commissione Scientifica del Ministero in Italia “uniti ma a distanza” significa tutti uniti contro il contagio da Coronavirus ma almeno ad un metro di distanza e senza contatti tra le persone, certo non vedere pubblico negli stadi, niente più i bimbi accompagnare i calciatori all’ingresso in campo o scambiarsi il cinque o i gagliardetti tra due capitani o al sorteggio con arbitri ed assistenti, fa perdere un po’ del fascino del calcio vero, ancora di più se non si potrà festeggiare un gol abbracciandosi con i compagni per le nuove regole, dopo il doverlo fare senza sentire l’urlo dei propri tifosi sugli spalti o il proprio nome gridato dallo speaker.. Ma al tempo del Coronavirus tutto ciò è stretta attualità e, come tutti, ci si deve adeguare perché non vi siano nuovi casi nella nostra Italia, pronta a soffrire insieme, per tornare presto alla normalità!!!
Antonio Baldinetti
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Premessa
Gli aspetti di seguito illustrati possono costituire un punto di avvio per una riflessione ragionata sulla
situazione della scuola italiana oggi e su possibilità di intervento. Scaturiscono da momenti di esperienza
diretta e riflessioni spesso condivise tra il personale della scuola. Sono però particolarmente specifici in
quanto il punto di osservazione non è quello del docente o dell’utente, spesso privilegiato dalla stampa e dai
social, ma quello meno mediatico del Dirigente, che però ha la possibilità di interfacciarsi continuamente
con tutti i soggetti del mondo scolastico.
Gli aspetti di seguito commentati possono essere assunti come punti programmatici di intervento per
migliorare la governace delle scuole anche al fine del raggiungimento degli obiettivi Lisbona 2030.
La chiave degli interventi dovrebbe ispirarsi alla centralità dell’apprendere ed ai principi di essenzialità e
semplificazione burocratica, con coerente identificazione di funzioni e responsabilità dei diversi enti/settori
di vita pubblica che interagiscono con il mondo della scuola.
Per attuare un piano di valorizzazione delle risorse scolastiche esistenti, che presentano punte di eccellenza
sparse sul territorio nazionale a macchia di leopardo, è importante evitare di inseguire le mode e le influenze
dettate dai social. Per migliorare il sistema scolastico italiano non serve distruggere alcuni organismi o
procedimenti, quanto renderli coerenti fornendo, a chi ci lavora, anche gli strumenti per poter agire.
Per esempio, non serve discutere sull’utilità o sui vincoli dell’INVALSI, quanto chiedersi cosa
effettivamente si fa per innalzare il livello degli apprendimenti in italiano, matematica e lingua straniera.
Chiedersi quali debbano essere priorità e modalità formative più efficaci per il personale docente, come si
realizza una efficace continuità didattica; se per ambienti di apprendimento motivanti si intende solo
attrezzare aule digitalmente o predisporre anche una pianificazione strutturale degli edifici, consona alle
nuove esigenze formative; se le esperienze dei ragazzi vengono adeguatamente supportate da educatori che
siano capaci di motivarli e di comprenderli.
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Viva i nonni, meno male che ci sono i nonni, nonno ti voglio bene… e potremmo continuar a lungo. Alzi la mano chi non ha mai detto una frase simile o non l’ha sentita ripetere più volte negli ultimi anni, visto che la nostra popolazione invecchia sempre più e, finalmente, si inizia a comprendere e ad assegnare un valore forte a coloro che hanno compiuto almeno 65 anni di età. Da un mondo che è giovane, attivo, vitale si è passati rapidamente ad uno, ed anche la nostra Italia non è immune dal fenomeno, fatto di anziani, sempre più presenti ed attivi, impegnati a riempire la loro vita di spazi e di attività proficue, per se stessi e per gli altri. Il 40 per cento degli italiani con almeno 60 anni sono attivi e vitali, vanno a messa tutte le domeniche, si impegnano in parrocchia o per la comunità della zona in cui risiedono, sono di aiuto alle loro famiglie per accompagnare i nipotini all’asilo, a scuola, a fare catechismo o attività sportive, diventano compagni di giochi dei più piccoli sostituendosi ai loro genitori, che si dividono tra lavoro, turni ed ufficio, evitando anche le spese da devolvere a tata e baby-sitter, assistenza bambino.
Sono questi i dati diffusi dall’Istat che fotografano una nostra patria sempre più avanti negli anni, come del resto l’Europa ed il resto del mondo industrializzato, e la situazione peggiorerà con l’andare del tempo, visto che si parla di oltre 700 milioni di over 65 per ora nel mondo ed una stima che punta a raddoppiare tali numeri tra solo 30 anni, nel 2050. Stime di certo non in eccesso, se ascoltiamo sociologi, medici di geriatria, studiosi di antropologia e di tutti i fattori che, con l’aumento dell’età media degli uomini e delle donne di oggi, parlano di popolazione italiana e mondiale sempre più vecchia, e di numeri grossi che chiedono riflessione attenta e contromisure per non ritrovarsi spiazzati, da qui in avanti. Il loro ruolo nella società, spazi in cui agire e sentirsi ancora vivi e vitali, attenzione ai loro bisogni in termini di accompagnamento e di assistenza, cure mediche, maggiori oneri sociali per un welfare sempre più fatto da gente avanti con gli anni e sempre meno giovani, i problemi che questo comporterà per il mondo del lavoro e per la pensione, il bisogno di nuove figure al servizio di tali anziani, di residenze e di badanti per loro… sono solo alcuni degli aspetti che tale problema comporta e che, certo, non possono essere sottintesi o ignorati davanti alla rivoluzione della longevità umana, per comprendere anche la missione di tali soggetti e di tutto ciò che intorno ad essi ruota, e sempre più dovrà ruotare negli anni a venire. Ma, in considerazione del loro essere ricchezza e non peso, di risorsa per il mondo d’oggi anche per quel che rappresentano in termini di saggezza popolare, conoscenze, esperienze pluriennali e valori, quei valori che loro hanno trasferito a noi figli e nipoti che tutti dovremmo far nostri per passarli poi al futuro generazionale rappresentato da chi verrà dopo di noi, ecco che tutti siamo chiamati a dare un segnale forte in tal senso, rendendo sempre più “i nostri anziani” valore aggiunto della società che è l’oggi per far si che diventi anche quella certa e valida del domani.
Come fare? Sembrerebbe una di quelle domande difficili da interpretare. Invece è la cosa più giusta, ovvia, semplice che si può fare dando soltanto il giusto valore a chi non vuol di certo sentir dire “sei vecchio, non servi più, vattene in una casa di riposo e restaci” ma semmai “a te papà e mamma, nonno o nonna, grazie per esserci, per l’aiuto che potete darci, per essere i portatori sani di valori, amore, dialogo ed esperienza, a cui noi possiamo attingere per farci sentire ancora più vivi che mai”. Il nonno va ad accompagnare ed a prendere i bambini all’asilo ed a scuola, e ci evita di dover fare i salti mortali con gli orari per esserci, magari finendo con il fare tardi quasi sempre ed i piccoli lì, come anime in pena, ad attenderci speranzosi e con il bidello o la maestra a fargli da balia nell’attesa del nostro arrivo. Già questo basta ed avanza, ma sono sempre più i nonni che accompagnano i bimbi anche a fare sport, a scuola calcio o basket, a danza o a pallavolo, senza dimenticare che, con loro a fianco, i bambini sono impegnati nel fare i compiti con attenzione e diligenza, prima dell’appuntamento fisso con una sana merenda, fosse essa con pane, burro e confettura, con una amichevole fetta di torta ed un bicchiere di latte, con una bella spalmata di amica nutella su fetta biscottata o pane fresco, e sempre meno ricorso alle merendine ed alle patatine, amiche fedeli dei piccoli cresciuti di fretta ma molto meno di quelli accompagnati, e in tutto, dalla presenza di nonno e nonna, legati alle buone, sane tradizione di un tempo, come biscotti appena sfornati e panini deliziosi. Se poi ci aggiungiamo l’attenzione dei nonni per i nipoti, che per loro è qualcosa di magicamente vitale, nella loro seconda, o terza vita, magari in pensione, ecco che li vedremo sempre vivi, contenti di esserci e di sentirsi utili alla causa, pronti a dare una mano ed un aiuto concreto in casa, in famiglia, nella vita dei loro piccoli discendenti, certamente meno adatti ad essere “ricoverati in case di riposo” perché presenza viva della famiglia, dei figli, dei nipoti che alla loro educazione ed esperienza sono affidati per necessità dei genitori lavoratori. Così cresceranno e si formeranno con le ultime novità scolastiche, sportive, sociali e tecnologiche, ma godranno di una esperienza che viene dal vissuto dei loro nonni, dai tempi passati, dalle loro storie, dai loro racconti che aiuteranno molto più i bambini rispetto alle favole moderne lette dalle baby-sitter, belle, brave e magari giovani, e senza grande pazienza se non per raccattare quattro soldi per necessità ma che non possono vantare l’amore di un anziano per i propri nipoti né tantomeno il loro vissuto di vari decenni e la crescita di figli che li hanno già resi speciali, in passato. Ed i giochi di una volta? Altro che videogiochi ed ore alla tv con i cartoni supertecnologici giapponesi, ed i consigli? altro che tutti i migliori pediatri da consultare. E se i piccoli hanno la febbre o il mal di pancia? I rimedi di nonna sono efficacissimi per guarire presto e con amore, come del resto tutto quello che, dagli anziani poi a loro viene trasferito, e recepito al volo, perché arriva dal proprio angelo speciale chiamato nonno. Quindi anziani in casa come valore aggiunto, non peso, a cui poi aggiungere l’attenzione di essi nei pressi degli istituti scolastici o agli incroci al pari di ausiliari del traffico speciali, accompagnamento di classi e gruppetti in gita ed ai musei, sostegno ai catechisti nella preparazione parrocchiale per le varie fasi sacramentali della crescita dei bambini in chiesa, l’aiuto che possono dare nel diffondere la passione per un bel libro o le ricerche in biblioteca, e non col copia ed incolla su Wikipedia, per i genitori e gli uomini di domani serve il supporto reale di chi in passato è già stato bambino e padre.
Potremmo continuare a lungo, ma ricordiamo che l’anziano è davvero una risorsa, in ogni senso, ed il nostro saperlo coinvolgere in una vita di famiglia e sociale attiva, permetterà loro di sentirsi vitali, veri, vivi, necessari, impegnando al meglio il loro tempo ed il loro essere, sentendosi partecipi di un mondo che crede in loro, si fida di loro, gli riconosce esperienza e saggezza, utilità e valore, e non è pronto a metterli “in un istituto o casa di riposo” anzitempo, come si ripone in garage o in soffitta, tutto quello che è vecchio, superato, che non serve più perché superato dal tempo…no, il vecchio, l’anziano non sarà mai realmente vecchio e superato, se gli daremo modo di sentirsi ancora utile!
Antonio Baldinetti
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(Una stazione ferroviaria, un giovane, una valigia al lato, una mano nella tasca, sfila un foglietto, legge).
Voce femminile fuori campo, legge solo “Amore mio, tu vai via?”
“Amore mio, tu vai via? Via dove, al nord, oltre l’Italia, dove? E per fare cosa? Il lavoro, qui non lo trovi, quale lavoro, ciò per cui hai studiato, studiato per realizzare il tuo sogno? Si, il tuo sogno, professore nei licei, straordinariamente affascinato dal tuo professore di riferimento. Come parlava bene il tuo prof., tu mi dicevi, e come ti consigliava bene. Ma tu niente, dicevi che le sue erano tutte stronzate, eppure ne eri attratto, di lui mi parlavi con entusiasmo, per la sua capacità di ascoltarvi e di capirvi, ma di farvi studiare non solo le sue discipline ma tutte tutte, e tutte bene bene. Diceva che lo studio nella scuola superiore va fatto al top, in cima sempre più in alto, al meglio possibile anche come preparazione di base per affrontare l’università, senza distrazioni. E anche in università nessuna distrazione, lui consigliava: ci sono cose che attraggono e ti tengono legato a un mondo di appartenenza, ci sono cose che distraggono e ti allontanano dal tuo mondo per assaporarne altre, proprio come l’Erasmus. Te ne ricordi, amore mio? Io non ero d’accordo con te per quel tuo progetto di formazione a Francoforte, in Germania, quasi un anno con l’Erasmus, acronimo di European Community Action Scheme for the Mobility of University Students, quel programma di “mobilità studentesca” creato nel 1987 dall’Unione Europea. Già, la “mobilità studentesca” che ti muove, lasci un posto vai in un altro anche se temporaneo, lasci il tuo mondo di appartenenza e ti trasferisci per un anno in un altro mondo che non ti appartiene, anzi ti lusinga, ti affascina, sei libero, mi dicevi, finalmente libero e autonomo, ti danno un tot per vivere e per mantenerti senza dipendere dai tuoi. Le sirene di Ulisse, te le ricordi, con quel loro canto ammaliatore stregato? Se non si fosse fatto legare a corde strette, le sirene lo avrebbero condotto a rovina certa. Odissea di Omero, amore mio, libro XII, come raccontato da Ulisse: “Così cantavano modulando la voce bellissima, e allora il mio cuore voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi, coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano. E subito alzandosi Perimede ed Euriloco nuovi nodi legavano e ancora più mi stringevano. Quando alla fine le sorpassammo, e ormai né la voce più delle Sirene udivamo, né il canto, in fretta la cera si tolsero i miei fedeli compagni, e dalle corde mi sciolsero”.
Amore mio, ora vai via? Le mie corde, quelle dei tuoi, gli altri affetti, i luoghi dei nostri segreti, dove tu mi portavi a fare l’amore oltre le siepi che ci ferivano e i rovi laceranti, e poi pane e mortadella al chiaro di luna coi ranocchi tra i giunchigli, e ancora ore e ore di studio insieme al liceo che sarebbero serviti a dare forma alla nostra mente, ore e ore su matematica, fisica, chimica, biologia, letteratura, greco e latino, filosofia e storia le tue preferite, quanto tempo insieme noi due, amore eterno, noi due insieme legati nei nostri mondi di appartenenza, i nostri racconti, spesso un intercalare dialettale inserito a dare colore al nostro mondo, dialetto come segno distintivo di appartenenza. Il nostro dialetto. Spesso non riesci a tradurlo mai abbastanza correttamente nella sua straordinaria portata semantica, la lingua italiana non riesce a cogliere il suo significato più autentico, ogni termine dialettale racconta un mondo interiore, il suo spirito, il suo sentire, è ciò che il popolo sente. Il dialetto è la religione più interna del popolo che lo parla. E a te in particolare piace parlarlo. O ti piaceva? Legami o legacci i nostri quasi fossero stringhe utili solo per scarpe?
Ma tutto questo non dà pane. Ne hai davvero certezza? E cosa dà il pane, 800 euro al mese altrove per un lavoro a mezzo tempo, poi se ne vedrà per uno più duraturo e meglio remunerato! La tua laurea in Basilicata vale di più. Ma io rinuncio a convincerti, oramai il biglietto l’hai fatto e mentre mi leggi sicuramente sarai già in viaggio. Rinuncio a convincerti. Offeso perché non sono venuta a vederti partire avendo io preferito farti consegnare questa lettera di addio? Certo, addio non arrivederci amore mio. Sicuramente le mie corde non erano buone, tu le hai potute spezzare.
Hai voluto rompere col tuo mondo, il nostro mondo, perché chi ci governa ha impegnato il suo tempo per clientele e lavoro improduttivo anziché studiare, pianificare, progettare, inventare, fare ogni sforzo per creare lavoro utilizzando i fondi disponibili per la crescita, per rendere attrattivo il nostro territorio, per creare sviluppo. Certo, hai ragione da vendere. Chi ci ha governato finora ha riempito di impiegati la regione e le province e gli ospedali e le altre strutture, e poi regalato soldi per posizioni organizzative, e altri soldi ai dirigenti, e soldi per progetti-obiettivo, e privilegi per gli amici degli amici e per i compagni dei compagni, e accrescere burocrazia a burocrazia. Anche aprire una StartUp è privilegio per pochi. E’ tutto vero. Hanno bruciato risorse importanti destinate alla crescita. Mondo solidale e mondo ideale lacerati e frantumati per qualche manciata di voti. E di soldi.
Ma intanto tu scappi. E rinunci. Rinunci a inventarti un lavoro anche legato ai tuoi studi. Ricordi cosa abbiamo appreso in merito all’orientamento? La scelta universitaria sia ragionata e sappia guardare alla passione e al lavoro, due ambiti strettamente legati. Io l’ho fatto, occhi rivolti anche all’attività della famiglia “l’àrt r’ tàt’ è mezzà ‘mbaràt”. E ora metto dentro all’attività le capacità scientifiche maturate in anni di studio. Tu puoi fare altrettanto, anzi avresti potuto fare altrettanto. Con le tue straordinarie capacità di inventiva e di ingegno derivanti da applicazioni e ricerca nei vari campi dei saperi puoi costruire il tuo futuro lavorativo creando dal basso ciò che potrà diventare alto, individuando ciò che non è presente nel territorio o migliorando l’esistente. Le attività economiche presenti hanno bisogno di energie giovani e sostenute da studio, da metodo, da applicazione, da costanza, da volontà di cambiamento. I nostri studi non sono inutili, essi hanno dato forma alla mente. Trasferirli in ambiti anche diversi si deve. E si può. C’è molto da fare, qui, anziché scappare, c’è molto terreno economico da lavorare. Qui la famiglia e gli affetti, qui il territorio da migliorare, gli amici da consolidare, l’economia da indirizzare, i progetti da individuare, le risorse da utilizzare, il dialetto da non dimenticare. Qui l’appartenenza e le radici, questa la nostra storia, è qui la nostra carta di identità. E qui l’amore. Hai detto niente!
Tu vai via? Amore mio non mi chiamare, e togli il mio numero dal cellulare. Appena io ti saprò in treno, tolgo ogni cosa di te. Non solo non ti seguirò in Germania, a Francoforte, sirena ammaliatrice, voce stregata, voce assassina per tua complicità, l’Erasmus per te non lo volevo, me lo sentivo. Non ti seguirò. Vivrò a lungo di te, quanto non so. Vivrò di te e del nostro tempo, dei nostri rifugi segreti, dei sorrisi e delle complicità. Sei la mia appartenenza, il mio passato, sei stata la mia speranza. Amore mio, a corde frantumate, tu non sei il mio futuro”.
(Il giovane rimane perplesso con la lettera tra le mani per qualche attimo, si rivolge al pubblico).
Il mio cuore è a pezzi. Che faccio, parto, resto, che faccio… e voi che dite, pubblico, vado via? Il treno arriva, ho poco tempo. Dicono: partire è un po’ morire. Fate presto il treno arriva. Resto? Ditemi qualcosa. Voi che dite?
Pasquale Tucciariello
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<<Le foibe sono un terribile, selvaggio, crudele delitto, che peserà per sempre nei cuori e nelle anime degli assassini. Ma il delitto più grande, più spregevole, è quello di aver costretto 350.000 persone ad abbandonare le loro case, dove per secoli avevano vissuto laboriosamente, sotto il dominio di Venezia e successivamente dell’Impero Austro-Ungarico e del Regno d’Italia. E dove ogni pietra parlava italiano>>. Così narra Toni Concina nel film Red Land-Rosso Istria. E’ la storia di Norma Cossetto, studentessa istriana presso l’Università di Padova, violentata e uccisa dai partigiani comunisti jugoslavi; il suo corpo martoriato fu gettato nella foiba di Villa Surani.
Ma è anche la storia della ferocia con cui agivano i titini contro gli italiani solo perché italiani, la storia di Fiume, di Pola, di Zara. Fra il 1943 e il 1947, nelle foibe dell’Istria (cavità carsiche di origine naturale con ingresso a strapiombo), furono gettati 10.000 italiani. Legati l’uno all’altro con un lungo filo di ferro stretto ai polsi, venivano collocati sugli argini delle foibe, quindi si apriva il fuoco contro i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Non basta confrontarsi con la ferocia dei titini, ma anche con il modo con cui molti italiani accolsero quei connazionali: l’epiteto più gentile fu “banditi giuliani”, per equipararli al più conosciuto dei fuorilegge.
Gli storici attribuiscono alla parola “foiba” due significati: uno simbolico e uno letterale. Secondo la prima accezione, quando parliamo di foiba, (lat. fovea), ci riferiamo alle violenze di massa a danno di militari e civili, in prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia per mano di squadre di comunisti jugoslavi guidati da Tito, filo russo. Il significato letterale, invece, rimanda a cavità naturali dei terreni carsici, profonde fino ad alcuni metri, utilizzate dai partigiani slavi per disfarsi di oggetti o di persone, o per far sparire i corpi di una serie di esecuzioni sommarie.
Nonostante questa distinzione, negli ultime venti anni le foibe sono assurte a simboli di tutto ciò che successe in quegli anni sul confine orientale.
In realtà, la storiografia italiana sembra avere avuto serie difficoltà nel collocare le Foibe all’interno di un contesto storico che le rendesse intellegibili.
Il problema del silenzio intorno alle Foibe è legato al silenzio sul confine orientale, che ha lasciato in ombra anche la storia della Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento nazista sul suolo italiano, dove venne sperimentata l’uccisione dei prigionieri con il gas e la cremazione dei cadaveri nei forni. Ricostruzioni storiche su basi ideologiche o su miti storiografici hanno favorito l’uso politico del tema tramite i media. E si è tentato di elevare le Foibe al rango di genocidio nazionale, paragonandole al genocidio europeo della Shoah e finendo per interpretare i fatti del 1943-45 con un orientamento nazionalista e vittimista. Con l’intento di promuovere una campagna mediatica che ha come fine lo spazzare via ogni ideale riconducibile al proletariato novecentesco e alle lotte operaie, finendo per esaltare figure fasciste realmente responsabili di genocidi.
Di qui, negli anni settanta e ottanta, ha avuto successo la formula di olocausto giuliano, coniata da padre Flaminio Rocchi, sostenitore dell’idea di sacrificio religioso, olocausto appunto, compiuto dagli infoibati; tesi smentita dalla storiografia. A partire dagli anni novanta, la formula del genocidio nazionale è stata soppiantata da quella più suggestiva di pulizia etnica.
Come ha osservato lo storico Fogar, è impossibile paragonare le Foibe alla Shoah o parlare di sterminio, non solo per il differente numero dei morti, ma soprattutto perché mancò ogni volontà e progetto di realizzarlo. In ciò che oggi chiamiamo Foibe non vi fu odio razziale, come quello fascista e nazista nei confronti degli ebrei, ma una profonda avversione politica, di stampo antifascista, alimentata da residue mire nazionalistiche territoriali jugoslave.
La questione delle Foibe compare più volte nella televisione italiana degli ultimi dieci anni, ripetendo gli stessi schemi: denuncia del silenzio intorno al problema; presentazione semplificata dei fatti, incentrati sugli aspetti più emozionali della vicenda, letta secondo la categoria di genocidio o pulizia etnica; polemica sul numero dei morti e sulle responsabilità politiche delle stragi. Su questa scia si collocano le tribune politiche televisive che, in occasione del Giorno del Ricordo, prestano i propri studi a dibattiti sul tema delle Foibe, presentate come una Shoah nascosta.
Anche nei due film più famosi: Perlasca. Un eroe italiano, e Il cuore nel pozzo, la continua retorica lacrimosa è basata sull’utilizzo strumentale della colonna sonora, e sull’esaltazione del concetto patriottico del “bravo italiano” a scapito del “cattivo tedesco” e del “cattivo slavo”. L’esaltazione dei protagonisti avviene per il solo fatto di essere italiani, quindi buoni, eroici e giusti. E la presenza insistente di cadaveri rimanda alla memoria visuale della Shoah.
Spostare il punto di vista dall’Italia ad un’ottica più europea ci aiuterebbe ad osservare come e quanto le Foibe possano essere considerate un tassello di un’ondata di violenze di vastissime proporzioni che coinvolse anche, ma non solo, migliaia di italiani. Come ha scritto John Foot, portare alla luce la storia divisa consente una comprensione più profonda di qualsiasi storia. Ciò che ancora manca, quindi, alla memoria italiana delle Foibe è il riconoscimento delle responsabilità italiane in ciò che accadde nei vent’anni precedenti nelle stesse zone: contestualizzare storicamente, prima di divulgare mediaticamente e commemorare pubblicamente. Questo non per osteggiare una memoria conciliata o condivisa, ma per riconoscere tale divisione come fondante e identitaria, abbandonando così la vecchia idea che una memoria debba necessariamente soffocare e sopprimere l’altra, o ridurre la storia ad una semplice dialettica tra vittime e carnefici.
La storia deve rispettare la verità dei fatti.
Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta. Il ricordo è una cosa più complicata di una melensa fiction televisiva, in cui gli esuli cantano ‘O sole mio, tipico canto del confine orientale. Il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettuale-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò torturò stuprò cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni in cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava in terra il latte destinato ai neonati affamati, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano ad un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria in mezzo alla indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi che strumentalizzerebbero la storia.
Non dimentichiamo che una qualunque mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata in prima serata, può lasciare il tormentone.
E allora le foibe? Forse chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è troppo invadente, insistente, petulante. O forse le Foibe sono un fatto assodato. O forse Foibe è un nome insopportabile.
Sanremo ci ha distratti dalla riflessione che il dibattito sulla memoria sta prendendo una direzione sbagliata. E fa male sapere che, mentre buona parte dell’opinione pubblica tace o nicchia, molti gruppi inondano il web di comunicati che annunciano iniziative dedicate ai profughi di ottant’anni fa. Segno che la memoria, nel nostro Paese, collassa per eccesso o per difetto.
Istituire il Giorno del Ricordo non può e non deve significare una verità di parte. Perché quei morti non hanno colori né orientamenti e meritano tutti il rispetto che deve essere attribuito alle vittime di una violenza di massa. Come fu violenza di massa quella subita dagli ebrei. Come fu violenza di massa quella subita da intere popolazioni nell’Europa dell’Est. Come è violenza di massa quella che oggi cerca facili bersagli negli altri e nei migranti.
Per riflettere occorre cambiare le parole. Se scaviamo a fondo, scopriamo che il lato destro dell’Adriatico era una polveriera di tensioni etniche. E tra queste etnie in conflitto, c’era anche quella italiana. Erano in conflitto per questioni di potere e ricchezza, le élite, non la gente comune, che si limitava a condurre la propria vita senza odiare più di tanto. E allora le categorie di fascismo e antifascismo lasciano il posto alla verità di uno Stato, la Jugoslavia di Tito, che aveva iniziato una guerra di annessione contro l’Italia, per sottrarle porti importanti e ricchi territori. Ce n’è abbastanza per coltivare una politica dell’odio, ma i popoli non sono colpevoli.
Le Foibe sono una profondità carsica nella nostra memoria collettiva. Un vuoto popolato di fantasmi reali e presunti che si rincorrono e non si palesano, nonché di fantasmi di tutta la storia recente che è in larga parte a servizio delle piccole beghe politiche di mestieranti della cultura.
Il 10 febbraio si celebra la Giornata del Ricordo delle vittime delle Foibe, ma qui in Italia c’è anche Sanremo. Ci sono i tronisti, ci sono i tafferugli nelle manifestazioni.
Di tempo e di spazio per questa Memoria non ce n’è. Ma d’altronde, con una scusa o con l’altra, non ce n’è mai stato: quanti, che non abbiano parenti coinvolti in quei drammatici eventi, conoscono veramente i fatti?
Proprio dalla verità storica è necessario ripartire per ottenere quella riconciliazione tra i popoli stipulata a Trieste nel 2010 alla presenza dei Capi di Stato di Italia Slovenia e Croazia, che ora sono Paesi amici e partner all’interno dell’Unione Europea. Ecco, la pace tra i nemici di un tempo è il più importante risultato del progetto democratico cristiano di De Gasperi, di Adenauer e di Schumann.
La Giornata del Ricordo è tesa proprio alla volontà di ristabilire la verità, senza pretese di rivincita, anche senza negazionismi.
Fare storia, divulgare storia, dovrebbe significare contribuire a far prendere coscienza, a chi si accosti all’argomento, del perché e del come certi eventi si siano verificati. A questo principio dovrebbe fare riferimento soprattutto chi nei media si assuma il compito di esporre una questione dando alla disquisizione una valenza storica. Non ricordo di aver mai letto negli articoli i nomi dei paesi distrutti, i nomi del lager italiani, dove vennero deportati uomini donne e ragazzi sloveni e croati, né di veder ricordato il vergognoso campo di concentramento costruito dagli Italiani nell’isola di Arbe.
Gli infoibati erano vittime. E nessun indirizzo politico ha un presente o un futuro se non lavora in difesa delle vittime. Chiunque entri in un cimitero a ridosso del confine che separa l’Italia dalla Slovenia trova un mescolio di cognomi, slavi italiani tedeschi. In quei luoghi un confine preciso non c’è, le etnie si mescolano e convivono, finché un evento esterno non le divide forzatamente. La barbarie nasce allora, le differenze diventano trincee e le persone ci finiscono dentro, si arroccano in entità forzate, smettono di parlarsi e si sparano addosso.
La storia, si sa, la scrivono i vincitori e chi ha vinto le guerre è sempre un eroe; eppure la logica ci dice che anche i vincitori possono fare errori, anzi nei momenti più tragici, quando l’Uomo si perde, l’errore, la colpa, il delitto calpestano ogni bandiera.
Il dramma del Novecento ci impone di fare i conti con chiusure intellettuali, con muri mentali consolidati e robusti.
L’esito funesto dell’odio sia da monito contro l’indifferenza e l’intolleranza che riaffiorano pericolosamente, e ci porti a vigilare sugli irrinunciabili traguardi raggiunti dalla nostra civiltà democratica e sui diritti inviolabili dell’uomo.
I giorni possono somigliarsi tutti. Ci sono giorni diversi che hanno il disegno della morte. Altri della memoria. Quando il respiro della notte diventa pesante. E le voci si fanno malinconia. Ci sono storie che si raccontano e racconti che non devono restare nella storia e non devono farsi storia. Il destino cammina tra le pieghe del tempo e tutto diventa verità o finzione.
Le parole diventano intreccio nei giorni tristi delle storie tragiche che hanno scavi di sangue. Ritorna il canto triste che non si assenta dalla memoria.
Ci sono storie, altre storie che tracciano la tragedia, e la tragedia non smette di scorrere come sangue oltre il ricordo stesso. Tanti furono sradicati. Chi rimase lasciò un urlo di sangue tra le rocce carsiche che la memoria inceppa al chiodo del cuore. Ci furono silenzi e le maschere che non smisero di tagliare le parole, e fu la storia la realtà colpevole di una verità taciuta. Tanti furono sradicati nella voce e nel destino. Altri, tanti altri i cui nomi sono nel disegno della tragedia, precipitati vivi nelle pietre della morte.
La guerra sembrava lontana o si immaginava o si pensava finita, tra i casolari della campagna dalmata. Delle case bruciate rimaneva soltanto cenere. Cenere e vento.
La storia non si ripete, ma la storia va raccontata. Una storia vera, una verità nella storia, un ritaglio di esistenza. Il tempo è una cifra che segna il nostro cuore. E ripete un canto triste. Il tempo è passato. Sempre passa il tempo e la memoria diventa di ghiaccio, ma quei massacri hanno tagliato non solo la storia. La storia raccontata è menzogna. La menzogna ha maschere di ferro, ma dell’oblio non ha senso parlare…è un vento che sventola sguardi.
Che cosa sono state le Foibe? Il massacro nei confronti di chi chiedeva il diritto di essere riconosciuto come Italiano!
Il ricordo è un dovere civile, prima che storico, ed è base imprescindibile per forgiare una società consapevole del proprio passato, quindi in grado di costruire non solo il presente ma soprattutto il proprio futuro.
Ma chi conosce ha il dovere di non tacere. Echi…come un tambureggiare nel tempo, di una storia che diventa debole. Non esiste una storia condivisa. Né un immaginario collettivo. Da una parte chi vince tradisce la verità e occupa l’immaginario. Dall’altra, i vinti ricostruiscono un’altra storia.
La colpa più grande è e rimane la nostra, che rincorrendo farfalle lasciamo che il ricordo, doveroso e sacro, della storia, si sbiadisca.
La verità è un atto di coraggio che appartiene a chi conosce la coerenza. La memoria è soggetta alle emozioni. E le emozioni annebbiano la verità.
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Parlarne perché si formino le coscienze delle nuove generazioni, ricordare perché nulla di tremendo e simile possa mai più ripetersi…questo il senso della giornata della Shoah, celebrata il 27 gennaio di ogni anno, dal 2005, per volere dell’Assemblea Generale dell’Onu. Un ricordo che, quest’anno, ha assunto un valore particolare, in occasione del 75esimo anniversario dell’entrata dei soldati dell’Armata Rossa nel campo di concentramento di Auschwitz e della liberazione di tantissimi deportati in quello, ed in altri campi, frutto della follia ariana di Hitler.
“Ricordare la Shoah per non dimenticare”, resta questo il fine vero, il motto utilizzato dal mondo in ricordo dell’uccisione di 6 milioni di persone, dal 1933 al 1945, oltre un milione e mezzo di questi erano bambini, ed i vari tour, una sorta di lungo pellegrinaggio che si concretizza con i cosiddetti “viaggi della Memoria” ad Auschwitz ma anche a Dachau e negli altri ex campi di concentramento (si contano ben 28 campi di sterminio), i quali oggi sono dei veri e propri musei a cielo aperto dell’orrore nazista, serve a far conoscere tutto ciò ai più giovani, agli studenti di tutto il mondo, alle nuove generazioni, in modo che possano prendere reale coscienza di tali atrocità perpetuate ai danni dell’uomo in quanto tale e tutto ciò non abbia mai più a ripetersi, mai più. La conferma è arrivata anche dalle varie testimonianze di spessore, dai capi di stato al nostro presidente Mattarella, da Papa Francesco al nostro vescovo Ciro Fanelli affinché le coscienze siano scosse da immagini forti e crude, come quelle delle foto e dei cimeli presenti nei vari ex lager. Sono una 15 i sopravvissuti italiani al genocidio nazista, hanno tutti intorno ai 90 anni di età ma con negli occhi, e nel cuore, quei tristi ricordi, le persone che non ci sono più, parenti, amici, compagni della più grossa disavventura che potesse loro capitare, quella di essere rastrellati dai nazisti per essere messi su dei vagoni merci, con quei treni carichi di lamenti, dubbi, assenza di umanità, senza cibo e acqua oltre che con puzza di escrementi in quantità, che aveva il solo fine di annullare ogni sembianza del loro essere uomini, donne, bambini, vecchi, per divenire carne da macello della loro follia, da poter utilizzare come lavoratori, se andava bene sotto sole, acqua, freddo, nella neve ed ogni tipo di stenti oppure essere indirizzati alle famose baracche numerate, in attesa di essere bruciati nei forni. Sono i testimoni ancora in vita che incontrano comunità, scolaresche, che accompagnano docenti e alunni nei viaggi della Memoria, che ricordano, tra le lacrime, quei momenti. Ma domani, alla loro morte, anche le loro testimonianze, dure, crude, cruente, come immagini fisse negli occhi e nei loro cuori, finiranno col disperdersi se i giovani non avranno fatto tesoro di tutto ciò per impegnarsi ad educare, se stessi ed il mondo, alla pace e non alla guerra, al dialogo e non alla violenza, al bene e non alla sopraffazione, alla condivisione e non all’odio tra i simili, tra uomo ed uomo, tra uomo che si ritiene migliore e quello che, a torto ovviamente, verrà di fatto additato come inferiore, inutile, minore, come avvenne per i nazisti nei confronti degli ebrei ed anche di preti, omosessuali, dissidenti, rom, malati, disabili, vecchi e bambini, uniti nella tragedia e nella nudità a rendere tutti uguali, a parte un numero, tristemente impresso sulla pelle, oltre che con tanto odio, nei loro cuori, in attesa del momento finale, la loro morte. E pensare che sul cancello di ingresso c’era la famigerata scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende libero, ed invece, arrivando con i treni merci stipati di uomini e donne, che finalmente scendevano e pensavano di poter avere il sollievo dell’aria libera, di un pasto, di un abbraccio con parenti ed amici, ecco che iniziava il vero dramma, il piazzale gigantesco per le adunate, che avrebbe diviso definitivamente ogni rapporto di parentela tra le persone e dove ogni giorno, due volte al mattino ed alla sera, si sarebbero svolte sia la conta che la decisione sulla sorte dei vari prigionieri, poi l’avviamento alle baracche numerate, il filo spinato tutto intorno, gli alti muri di cinta del campo a precludere contatti con l’esterno ed ogni tentativo di fuggire stante le torrette con guardie armate senza scrupoli. A Dachau, ad esempio, tanti i preti ed i cattolici arrivati dal 1940 in poi, pare intorno ai 2700 compresi anche pastori protestanti, sulle 200 mila persone che si confrontarono con quel mondo creato dal nazismo, inaugurato solo 2 mesi dopo l’ascesa di Hitler al potere, quel luogo che era a soli venti minuti di cammino in auto dal centro della Germania, da Monaco di Baviera, ma che divenne off limits per tutti, perché vero oltre che immenso laboratorio degli orrori del Reich, il primo campo di concentramento creato dai nazisti ed in cui oltre il 40 per cento dei deportati non fece mai più ritorno a casa. Anche qui, come ad Auschwitz, venne creato il museo della Memoria, con la volontà comune di far vedere, far conoscere, dare un volto, un nome, un significato ad ogni cosa legata alla Shoah, per far divenire tutto ciò come una carne viva che tocchi le coscienze del mondo, degli uomini, dei giovani, visto che saranno loro gli uomini e le donne di domani, a cui sarà chiesto di guidare il mondo con la pace e senza odio e violenze, perché qualcosa che altri hanno patito possa divenire un patrimonio reale del mondo per evitare che possa ripetersi, visto che, si dice, la memoria da sola non basta, non può bastare, ma ricordare deve aiutare a superare per non riproporre mai nulla di così cruento, di simile anche solo lontanamente. Soprattutto in considerazione di un mondo globale, nel quale trovano spazio uomini diversi ma che devono dialogare tra loro senza odio, senza differenza di lingua, razza, colore della pelle, religione.
Antonio Baldinetti
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Mio figlio dalla Spagna mi dice che un suo amico spagnolo gli ha mostrato un articolo di giornale in spagnolo dove si parla del tragico incidente in cui ha perso la vita un caro ragazzo di Rionero. Che la notizia sia rimbalzata nelle cronache di mezzo mondo qualcosa dovrà pur significare. Trasformare un gioco che dovrebbe essere festa, svago, piacere dello stare insieme ma anche competizione e "sano" campanilismo, perché no, in stupide scaramucce, non lo possiamo proprio accettare. Ora è il momento del lutto, del dolore, della preghiera e del raccoglimento attorno alla famiglia e in circostanze come queste è facile pronunciare parole fuori posto. Eppure sono sicuro di interpretare bene il sentimento dei più di Rionero e dei più di Melfi se dico che il miglior modo per onorare la memoria di Fabio è quello di lavorare tutti insieme per superare una volta per tutte lo stupido campanilismo che dalla nascita del calcio ha visto contrapposte le due comunità. Non c'è più spazio nel 2020 per stupide ripicche tra due comunità fortemente intrecciate per ragioni di studio, di lavoro e di affetti familiari. Per questo invito all'azione tutti coloro che possono fare qualcosa a dare una mano per ravvivare il sentimento di unità tra le due comunità. In questo senso propongo di addivenire ad un "gemellaggio" tra le tifoserie della Vultur e del Melfi. Non vedo altro modo per superare un lutto così triste, per dare un senso ad un fatto così assurdo, e per far si che dal male possa nascere il bene.
Michele Grieco – Centro Studi Leone XIII
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E’ stata una giornata di grande impegno politico culturale quella svoltasi sabato 18 gennaio 2020, in occasione del 101 esimo anniversario dell’”appello ai liberi e forti” di Sturzo.In una sala stracolma di rappresentanti di partiti, associazioni, movimenti e gruppi dell’area cattolico democratica e cristiano sociale, Lillo Mannino, accolto calorosamente dall’assemblea, reduce da una sentenza definitivamente assolutoria dopo oltre vent’anni vissuti dolorosamente, ha svolto una magistrale lectio storico politica sul pensiero di Sturzo e sullo sviluppo dell’idea popolare e democratico cristiana dal 1919 sino alla fine politica della DC (1994). Una fine, frutto dei nostri errori e di una ben calcolata strategia internazionale, la cui regia fu definita nell’incontro sul panfilo “Britannia”, dove si stabilì “la saga dei vincitori e vinti” nel nostro Paese.
Oggi la situazione, come ha ricordato l’amico sen Maurizio Eufemi con la sua nota uscita all’inizio dei lavori alla sala Alessandrina di lungotevere in Sassia a Roma, è caratterizzata da alcuni aspetti simili a quelli presenti al tempo di Sturzo nel 1919. Allora l’Italia era alle prese con i problemi di assetto interno con la crisi del giolittismo, che aveva esaurito la fase del trasformismo parlamentare su cui si era retto per anni, e con le conseguenze drammatiche del conflitto mondiale. Oggi siamo al culmine del più vasto trasformismo parlamentare che ha caratterizzato la stagione decadente della seconda repubblica, nella quale i partiti e i movimenti presenti a livello parlamentare sono espressione della più arida incultura politica. Regna l’incompetenza e l’improvvisazione che hanno finito col delegittimare la politica, lasciando ampio spazio alla deriva nazionalista e populista a trazione salviniana e della destra di Fratelli d’Italia.
Ecco perché Mannino ha terminato il suo intervento facendo appello ai firmatari del patto federativo popolare dei DC e a tutti i popolari affinché non si perda l’occasione che abbiamo davanti a noi, specie dopo la sentenza della corte costituzionale di rigetto del referendum richiesto dalla Lega, e la scelta espressa della maggioranza di governo per il sistema elettorale proporzionale simil tedesco.
Invito raccolto immediatamente da Gianfranco Rotondi e da Lorenzo Cesa, reduci dall’accordo appena siglato per le regionali d’Abruzzo, uniti nella scelta condivisa e sottoscritta nel patto federativo per dar vita a un nuovo soggetto politico, ispirato ai valori del popolarismo, alternativo alla deriva nazionalista e populista e alla sinistra radicale.
“Il partito del popolo italiano”, è ciò che ha indicato Rotondi per il nuovo soggetto politico, inserito a pieno titolo nel PPE, che assume il simbolo storico della DC, lo scudo crociato e si propone come luogo della partecipazione politica dei ceti medi e delle classi popolari rimasti sin qui privi di rappresentanza, disgustati della politica urlata e renitente al voto per la quasi metà dell’elettorato italiano.
Certo, come hanno detto Renato Grassi, segretario nazionale della DC e da Mario Tassone, segretario nazionale del NCDU, non sarà solo un patto duale a risolvere il caso della diaspora apertasi dal 1994, anche se esso costituisce certamente una condizione necessaria, ma, appunto, non sufficiente. Serve la più ampia partecipazione aperta a quanti si riconoscono negli obietti del patto federativo.
Ora si tratta, di ragionare con lo sguardo rivolto in avanti, preoccupati non delle possibilità di sopravvivenza personali di qualcuno, quanto della capacità di offrire una nuova speranza al popolo italiano.
A chi temeva che anche dall’incontro della Federazione popolare dei DC scaturisse l’ennesimo tentativo da aggiungere a quelli sorti consecutivamente negli ultimi vent’anni, tutti destinati al fallimento, dobbiamo assicurare che ora lo sguardo è rivolto al futuro, convinti come siamo che serva riportare in campo la nostra cultura cattolico democratico e cristiano sociale, non per un nostalgico pensiero retro, regressivo e inefficace politicamente, quanto per concorrere a costruire un grande progetto: quello di una politica al servizio e per la partecipazione di una “comunità” fondata sulla solidarietà organica tra persone, gruppi e classi sociali. Si tratta di inverare nella città dell’uomo gli orientamenti pastorali delle ultime encicliche sociali di Papa san Giovanni Paolo II ( Centesimus Annus) , di Benedetto XVI (Caritas in veritate) e di Papa Francesco (Evangelii Gaudium e Laudato SI); gli unici documenti che hanno saputo leggere “ i tempi nuovi” che stiamo vivendo e offrire preziose indicazioni, che spetta ora a noi cattolici impegnati in politica rendere operativi sul piano istituzionale. Sono le encicliche che hanno affrontato le questioni rilevanti del nostro tempo:
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la questione antropologica e demografica particolarmente grave in Italia;
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la questione ambientale;
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la realtà nuova, complessa della globalizzazione, che per noi italiani si traduce soprattutto nel tema della sovranità monetaria e della sovranità popolare e il nostro modo di restare nell’Unione europea, caratterizzata dal dominio della finanza sull’economia reale e sulla politica ridotta a un ruolo subordinato e ancillare (rovesciamento del NOMA - Non Overlapping Magisteria, come l’ha definito il prof Zamagni).
Per fare questo, però, serve l’unità più ampia possibile e, soprattutto, un partito. Serve, insomma, la ricomposizione dell’area politica dei cattolici democratici e dei cristiano sociali. Mettiamo, intanto, subito in rete tutti i nostri siti web per preparare i comitati locali e regionali della Federazione e prepariamo l’assemblea costituente in cui decideremo insieme: nome, simbolo, programma e sceglieremo la nuova classe dirigente del partito.
Come un albero antico, possiamo cambiare le foglie conservando però le radici e possiamo avanzare le nostre proposte a misura dei nuovi bisogni delle classi popolari e dei ceti medi, conservando la fedeltà ai nostri principi.
E’ un invito che rivolgiamo anche agli amici della “Rete bianca” e a quanti hanno sottoscritto “il manifesto Zamagni”. Seguiamo da osservatori partecipanti il serio dibattito che si è aperto su “ il domani d’Italia” e desideriamo ricordare che é unanime tra di noi il giudizio di alternatività alla deriva nazionalista e sovranista della destra italiana, così come anche da noi sono condivise le indicazioni progettuali offerte dal manifesto Zamagni. Con franchezza evidenziamo che se sono comprensibili, proprio date le premesse, le scelte da voi assunte per le prossime elezioni emiliane e calabresi, del tutto sconcertante, a nostro parere, ci sembra quella di un dibattito che si svolge a senso unico e ripercorre senza soluzione di continuità la già consumata strada di una corrente popolare interna al PD, di cui, semmai, ci si preoccupa solo del suo possibile sbandamento a sinistra.
Cari amici, col voto della Consulta è finita la lunga stagione del maggioritario, che riduceva i cattolici e popolari a un ruolo ancillare nella destra o nella sinistra dei partiti e si torna al proporzionale, stella polare della nostra cultura politica: il tempo del mattarellum, porcellum, italicum, rosatellum, è finito. Ora, come nel 1919 lo fu per Sturzo con risultati straordinari imprevisti, dobbiamo ragionare secondo le regole del sistema proporzionale, con lo sbarramento al 5% e ci auguriamo con le preferenze Non vi sembra una condizione più che sufficiente per mettere insieme tutte le nostre energie e sensibilità, per condividere insieme, sulla base dei nostri comuni principi ispiratori e la strategica scelta di campo, una proposta politica programmatica all’altezza dei bisogni della società italiana ed europea? Il nuovo partito politico di cattolici, aperto alla partecipazione di altre culture compatibili, non sarà mai monolitico, come non lo furono, né il PPI sturziano, né la DC degasperiana, fanfaniana, morotea e fino alla fine dello scontro del “preambolo”. Oggi è il tempo per il ritorno in campo della nostra cultura politica. Dopo e solo dopo aver costruito il partito, si porrà la questione delle alleanze, fermi nella nostra alternatività alla destra e alla sinistra radicale.
Ettore Bonalberti
Direzione nazionale DC
Comitato provvisorio della Federazione popolare dei DC
Roma, 19 Gennaio 2020
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Il primo grande poeta dell’emigrazione è stato Virgilio, colui che ha contribuito a costruire un’idea del Mediterraneo, un teatro che è storia di uomini e di donne che cercano un senso per la loro vita.
In questo mare di storie, dove più che le civiltà sono stati gli uomini ad incontrarsi, le diversità culturali acquistano una rilevanza eccezionale e dimostrano di essere individui isolati – mercanti, artigiani, contadini, crociati, disperati in fuga da guerre e povertà. La vita si incarica di mescolare uomini donne e bambini, con i loro fardelli di usi e costumi, ospiti inattesi e ingombranti, talvolta preoccupanti. E tuttavia suscettibili di curiosità: cibi che stuzzicano, colori che affascinano, musiche che coinvolgono.
Da questo punto di vista, si può dire che il Mediterraneo costituisce un campo liquido privilegiato per misurare l’ambiguità del concetto di etnia che è diventato ormai concetto ideologico di discriminazione, strumento politico di esclusioni e sovranismi, perché reso statico e congelato al di fuori della storia.
Nel mondo antico, le prime rotte commerciali furono Fenicie, Cartaginesi, Etrusche, Greche. << La Grecia del VII secolo è piena di contadini in fuga>> - narra Esiodo in Le opere e i giorni – e racconta il dolore infinito del contadino, attaccato al suo campo, stanco delle continue controversie con i vicini, e scrive una cosa molto importante: <<da questa situazione di miseria sono derivate molte cose: l’espansione delle città, la crescita dell’artigianato, ma anche la miserabile avventura dei mercenari…>>.
Questo solo per dimostrare l’inconsistenza storica del concetto di etnia.
In questo mare di storie una particolare attenzione si deve alla Sicilia che è sempre stata nodo di rotte commerciali fin dall’età antica, quando era Magna Grecia, o nel Medioevo quando, all’epoca di Federico II di Svevia, era crocevia di culture, religioni, tradizioni.
Del Mediterraneo Lampedusa è qualcosa di più di un’isola, di un frammento di terra in mezzo al mare. E’ qualcosa di più di un luogo reale, è meta turistica e insieme fata morgana per migranti disperati, un porto che è una porta ma anche un avamposto militare, un ponte che salva e accoglie ma anche una prigione che controlla e rinchiude. Un luogo ibrido dunque, uno spazio simbolico del nostro tempo, delle contraddizioni della nostra contemporaneità.
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Un inizio d’anno per il 2020 davvero molto speciale, quello che ha visto la città di Melfi e la sua possente Basilica Cattedrale, essere il centro della zona diocesana del nord regione per augurare pace ed amore a tutti. In tantissimi si sono ritrovati lì, la sera del primo dell’anno, per la S. Messa di monsignor Ciro Fanelli ma soprattutto per il bellissimo, unico, accattivante concerto successivo, sul palco, pardon, dinanzi all’Altare un gruppo storico della musica italiana di qualità, i Neri Per Caso, i sei parenti ed amici di Salerno che, dal 1992 in poi, hanno fatto grande la musica a cappella, ovvero senza accompagnamento musicale. “Melfi capitale della Pace” ha detto il mitico Ciro, leader di una formazione che ha saputo restare fedele alla sua tradizione e resistere a mode e tempi che cambiano, che ha visto il solo Diego Caravano lasciare per fare solo il maestro di musica nel 2015, sostituito da Daniele Blaquier, tra l’altro unico napoletano su di un gruppo che è rimasto di salernitani. Il tutto perché, nel giorno del primo dell’anno, da sempre dedicato alla Celebrazione della Santa Vergine e della Giornata Mondiale della Pace, il gruppo “da sempre vestito in nero” ma non per caso, come si disse ai tempi della loro apparizione sulla scena della musica italiana, con l’exploit del 1995 a San Remo dove vinsero la Categoria Nuove Proposte con il brano “Le ragazze”, ha voluto utilizzar vari brani natalizi, con tema di amore, pace, no alla guerra e voglia di stare bene insieme, per renderlo a tutti ancora più speciale, unendo le loro fantastiche sei voci a cappella con il battito delle mani degli oltre 800 appassionati che erano li, a far loro corona; ma anche coinvolgendo in alcuni brani i bravi ed intonati ragazzi che compongono il Coro Musicale Lucano, che hanno dato il meglio di sé per i presenti e per dimostrare tutto il loro valore artistico e musicale. Considerando il luogo, il giorno, la bella occasione, l’evento amplificato proprio dalla presenza del gruppo giunto ormai al 15esimo lp, appunto i Neri Per Caso (Ciro Caravano, Mimì Domenico Pablo Caravano, Gonzalo Caravano, Mario Crescenzo, Massimo de Vitiis, Daniele Blaquier), il fatto di cantare davanti al vescovo di Melfi, e poi a salutarli uno ad uno al termine ed a ringraziarli per la presenza viva lì, visto che il cantare è pregare due volte, come seppe dire Sant’Agostino, ecco che il concerto, protrattosi circa un’ora e mezzo, è stato un successo clamoroso. Oltre che la conferma di come Melfi, può e vuole essere forza trainante dell’intera zona del Vulture Melfese, come già fa a livello storico, di cultura, di forte incremento del turismo, di fede, di economia e lavoro, ora anche investendo, e tanto, su occasioni di grido per riempire spazi importanti del suo patrimonio artistico, come la splendida cattedrale. Due brani introduttivi con i soli ragazzi del coro, poi 4 tipicamente natalizi col sempre vivo, bello, attuale Jingle Bells, ancora due insieme ai ragazzi e poi via con 6 brani del repertorio di livello dei Neri Per Caso, partendo proprio da Le Ragazze, il loro brano di punta che, nonostante i 25 anni di vita resta bellissimo e dalle profonde sonorità ed effetti perché esaltato dalle sei voci a cappella che si intersecano, si fondono, si distinguono in un susseguirsi di emozioni per l’orecchio e il cuore di chi le ascolta. E poi le cover che li hanno resi famosi, da Last Christmas degli Wham che data 1984 ai brani celebri di John Lennon, come All need is Love o Give Peace a Chance, sempre e soltanto per sottolineare quel bisogno di pace, di amore, di fratellanza di cui abbiamo tanto bisogno nel mondo che, giustamente, loro, il vescovo, i presenti cantando insieme o sottolineando i diversi momenti del concerto di Capodanno, hanno voluto evocare perché diventi realtà per sempre. Quindi musica come preghiera, musica come invito alla pace, partendo, come hanno fatto loro, da alcuni di quei famosi spiritual che hanno ispirato loro e la musica gospel, sempre adattissimi per il clima che si crea nel periodo natalizio, e poi come detto successi in serie, le cover, per chiudere coinvolgendo ancora e di più tutto il foltissimo pubblico presente in Basilica Cattedrale, ovvero la cover di “Cerco un centro di gravità permanente”. Brano storico della splendida produzione artistico musicale di uno dei grandi della musica italiana, il maestro Franco Battiato, che loro come voci hanno cantato per le varie strofe, chiedendo il supporto del pubblico per il celebre ritornello, sottolineato davvero al meglio, con quel “tikiti, tikiti” che sanno rendere “letto musicale del brano” e che il mitico duo comico dei Fichi d’India utilizzò come cavallo di battaglia per i loro sketch. Senza dimenticare il bis finale, che ha creato l’apoteosi e poi la caccia al selfie, all’autografo, e loro a non sottrarsi con il ricordo forte, in termine di dichiarazione finale per i pochi della stampa che li hanno attesi alla fine dell’evento, “di come un gruppo come il nostro sia ancora oggi attuale, dopo tantissimi anni, col nostro modo di cantare, con il supporto e l’affetto del pubblico. Senza dimenticare – hanno concluso nello scambio di foto sul sagrato della Cattedrale prima di lasciare Melfi per fare ritorno a Salerno in pullmino - che luoghi come questo, ci permettono come Neri Per Caso 2.0, in questi concerti di Natale, di dare ancora di più del normale, con maggiore disponibilità e verve visto che si è nelle chiese ed in un periodo in cui è forte la voglia di stare bene insieme, con fede, speranza, il contributo di tutti nella ricerca di pace ed amore, e sono per la conferma di come sia importante cantare per amore e con amore, come facciamo noi ormai da quasi 30 anni, restando fedeli al nostro credo”.
Antonio Baldinetti
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La scuola che verrà non è mai giunta a destinazione. Forse si è persa tra i mille sentieri delle leggi di bilancio e tra le riforme di immagine dei vari Governi della Repubblica.
E comunque basterebbe poco per migliorare il mondo della scuola e di un servizio pubblico su cui l'utenza, le Famiglie e la Società intera pongono sempre maggiori aspettative.
Una pianificazione di interventi basati sull’ascolto delle parti sociali ma soprattutto tenendo conto del parere di coloro che realmente spendono le proprie esistenze per la scuola quotidianamente, potrebbe costituire la base essenziale di una politica di concreta e solida innovazione.
Chi parla della scuola e della sua crescita ed efficacia nel mondo del terzo millennio dovrebbe fondamentalmente comprendere le dinamiche dell’apprendimento in una società complessa, le variabili ed i condizionamenti derivanti dalla globalizzazione e dall’intreccio della nuova dimensione “glocale”, la dimensione dinamica dei saperi del terzo millennio che mirano alle competenze ma che devono necessariamente comprendere e ricomprendere le conoscenze e le abilità. Una scuola che guarda al futuro non può ignorare il suo passato e non può disconoscere le conoscenze disciplinari o ridurle nel frullatore della trasversalità interdisciplinare.
Innovazioni e riforme svuotate di consapevolezza pedagogica non potranno che continuare a produrre confusione nel mondo della scuola e tra le famiglie.
La scuola ha bisogno di solide fondamenta sia per quanto riguarda l’impostazione pedagogica, sia per ciò che concerne gli edifici, i luoghi dell’apprendere, gli organici e la formazione del personale.
Molto è stato fatto per l’immissione di nuovo personale docente, anche se i livelli di formazione hanno risentito di diverse e spesso contrastanti politiche di ingresso e di selezione.
Poco è stato fatto per la formazione e l’incremento del personale amministrativo che di anno in anno deve misurarsi con le innovazioni della legislazione europea, per esempio per le procedure di appalto di servizi e forniture, per le procedure di protezione dei dati, per le innovazioni digitali, per le misure di sicurezza degli ambienti, per le azioni di trasparenza ed accesso agli atti. Si tratta di un vorticoso succedersi di decreti e circolari e di una delega sempre più ampia alle segreterie scolastiche di procedure ed adempimenti che prima erano di competenza di altri enti (vedi ex provveditorati, inps, asl ecc…)
Poco o nulla è stato fatto per garantire la stabilità degli organici del personale docente al fine di realizzare una concreta continuità nelle classi e rispettare i tempi di avvio dell'anno scolastico. Sarebbe utile individuare dei criteri per vincolare la mobilità del personale per alcuni anni e per creare figure intermedie e qualificate (middle management).
Nulla è stato fatto per istituzionalizzare alcune figure sempre più necessarie nella scuola: il pedagogista come consulente per le famiglie, per il supporto didattico e per l’inclusione educativa; il tecnico di laboratorio informatico (presente solo nelle scuole secondarie di secondo grado), il medico scolastico, in passato presente, ma da diversi anni figura eliminata, o come gli operatori socio sanitari per supporto igienico e somministrazione di farmaci per alunni diversabili. Queste professionalità renderebbero più equilibrate e serene le relazioni nella comunità scolastica, fornirebbero utili supporti e minor speco di energie nella gestione della dirigenza che spesso supplisce alla loro mancanza con risorse professionali proprie o con dispendiose procedure di appalto quando si trovano i finanziamenti.
La scuola e la figura del Dirigente scolastico sono state inoltre sommerse da nuove responsabilità come quelle relative alla sicurezza degli edifici ed alla privacy, ma spesso queste nuove normative, nate per realtà lontane e diverse dalla scuola, non hanno visto l’emanazione di linee guida specifiche che invece il Ministero dell’Istruzione avrebbe dovuto emanare. Pertanto le leggi vengono applicate non tenendo conto delle specificità delle scuole e del personale che vi lavora. Questo accade per effetto del Decreto Ministeriale 21 giugno 1996, n. 292. A seguito di tale legislazione il dirigente scolastico ha assunto compiti, funzioni dei datori di lavoro, assumendone le responsabilità e spostando la sua linea d’azione e le sue competenze quasi esclusivamente nell’ambito gestionale, facendo scomparire la dimensione didattica del suo lavoro.
Le azioni di intervento su esposte per il miglioramento della scuola sarebbero prevalentemente a costo zero o implicherebbero finanziamenti minimi.
Ciò che invece richiederebbe un maggiore investimento sarebbe la riqualificazione della maggior parte degli edifici scolastici. Riqualificazione non solo strutturale in termini di sicurezza ma anche ambientale ed ecosostenibile, per la realizzazione di spazi più consoni ad una vita comunitaria in cui gli apprendimenti siano occasione di crescita esperienziale, alternati a momenti di incontri relazionali. Questo fornirebbe le scuole di mense adeguate, spazi di socializzazione per il personale, spazi per praticare sport, per incontri tra famiglie e personale scolastico, ambienti di apprendimento attrezzati e stimolanti.
La scuola che vorrei…che forse vorremmo tutti per i nostri figli ed i nostri nipoti, potrebbe essere un luogo più confortevole e stimolante, più sicuro e ben attrezzato, in cui i tempi di apprendimento siano distesi e ci possa essere spazio per l’ascolto e non un frenetico susseguirsi di adempimenti burocratici. Potrebbe essere un luogo in cui anche chi ci lavora possa stare bene e sentirsi accolto, sapendo di crescere in una comunità solidale e pacifica.
La scuola che vorrei dovrebbe bandire l’aggressività, il contenzioso tra personale, dirigenti, utenti, alunni, fornitori, e dovrebbe essere un luogo di persone e per le persone e non di atti, di carte, di dati, di strutture, e di decreti.
In sintesi i punti di innovazione
- Organi collegiali stabili
- Rivedere il ruolo del dirigente e le varie responsabilità
- Formazione docenti e middle management
- Non riproporre nuovi programmi ma rivalutare i saperi
- Non confondere la trasversalità e le competenze con lo svuotamento delle discipline
- Non proporre nuove articolazioni relative agli ordini di scuola (i docenti sono stanchi delle mille rivisitazioni ingegneristiche)
- Rifondare il settore di edilizia scolastica con una nuova architettura pedagogica
- Inserire la figura del pedagogista a scuola
- Incrementare gli organici ATA ed introdurre figure specialistiche
Prof. Rosella Tirico - Centro Studi Leone XIII -
Dirigente Scolastico, Bari
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Chi mi conosce sa quanto io ami le isole. Si tratta di mondi a parte. Se vivi su un’isola molto probabilmente sai o hai la percezione di portare avanti un’esistenza che quasi sempre si profila “appena un attimo indietro” rispetto al resto del mondo. Pianeti di mare con il loro sistema autosufficiente, spesso direi quasi autoregolamentato. Perle da scoprire, legami da vivere con la loro illimitata geografia da sogno, geografia che oltrepassa di gran lunga, dentro un incantesimo del quale ancora non si conosce l’esatta alchimia, il limite e il segno finito della loro stessa materia di terra e di mare. Le isole sono richiami fortissimi, piccoli miracoli, custodi di leggende e di storie recenti che diventano poi subito tali. Artefici, sempre e comunque, di complesse nostalgie.
Tutte le volte che mi si presenta l’occasione non esito a visitarne una, e pur nella consapevolezza di un viaggio appena un po' più complesso del solito o nella precisa coscienza di vivere quasi sempre i limiti naturali e i naturali problemi legati alla permanenza su di esse, non posso che sentirmi ogni volta felice di raggiungerle: questi fascinosi lembi di terra hanno insomma il potere di farmi ritornare ogni volta a casa carica di un bagaglio nuovo, un bagaglio del cuore difficilmente distruttibile.
Dalle Tremiti - di cui con Maria Carmela Mugnano ho parlato la volta scorsa - ad una piccola isola della Croazia dal nome multiforme, il passo è veramente breve.
Breve per vicinanza argomentativa ma anche geografica.
E così questo articolo che devo per amicizia ad Ermanno Dodaro, autore (assieme a Tullia Ranieri) di “Un biglietto per l’isola” è altresì una “scusa” e un’occasione per raccontarvi di tutto l’amore che con mio marito e mia figlia da sempre nutro per questi pezzi di mondo staccati dal mondo e ricongiunti al mondo con la forza del sogno.
Quando Ermanno - di cui tempo fa ho recensito sulle stesse pagine di questo blog il lavoro discografico “Avenidamerica” - mi ha invitato a leggere “Un Biglietto per l’isola”, non avrei potuto essere più entusiasta. Il mistero di un’isola fatta romanzo e tutta da leggere, ancora una volta, per me. Mi sono venuti in mente tutti i libri con soggetto “isolano” che avevo consumato fino a quel momento: da Stevenson a Michel Tournier, passando, lo ammetto, finanche per le guide turistiche che qua e là sbucano come “scherzi improvvisati” fuori da scaffali e cassetti della mia libreria domestica. Nel giro di pochi giorni il libro era nelle mie mani ma mi ripromisi di leggerlo in vacanza, proprio davanti al mare. Non era il mare di un’isola quella volta, va bene, ma il clima sarebbe bastato ugualmente a creare l’atmosfera.
Credo che Ermanno Dodaro abbia una visione del concetto fisico ed emozionale di “Isola” almeno un centinaio di volte più forte del mio. Per lui esistono ragioni molto più vaste e profonde rispetto a quelle nate dalla mia testa, ragioni che lo hanno spinto a viaggiare e poi a scrivere un libro che parli appunto di un’isola. Perché, è chiaro, questo libro non parla solamente di una macchia di terra con la sua sbalorditiva geografia. Questo è un libro che, oltre a parlare di un’isola, narra di una storia veramente personale.
Una storia di famiglia.
Se proprio devo creare un po' di suspance, comincerò col dirvi intanto che, conoscendo il dinamismo di Ermanno, ho ritrovato la sua vitalità, il suo modo di essere e la sua schietta simpatia un po' dappertutto in queste pagine di “Un Biglietto per l’Isola”, esattamente come quando ti accorgi che una persona molto versatile, più che monotonamente scrivere di sé e dei suoi, voglia in tutta confidenza, parlare ad un gruppo di cari amici, amici che egli stesso avrà voluto immaginare intorno a sé, magari seduti a un tavolo per un’allegra riunione interrotta qua e là da qualche accenno musicale al basso o alla chitarra, suoi strumenti di vita e di lavoro. Questo il tono del volumetto, un tono confidenziale che Dodaro stesso tiene a non definire “romanzo” ma che nondimeno del romanzo assurge a levatura e a dignità: solo ottantasette pagine, una volata, parole che ben si sono prestate, per queste ragioni, ad un recente adattamento per il teatro.
Fin qui l’aura e il prospetto di queste pagine.
Il contenuto però, quello è un’altra cosa. Sul contenuto desidero andarci piano. Parlarne con doverosa delicatezza, direi quasi con religioso rispetto. Al tempo stesso però mi piace il modo con cui Ermanno ami quasi “scherzare” sull’ enorme responsabilità di un argomento tanto unico quanto affettivamente complesso come le radici, l’identità familiare; tantopiù se queste passano attraverso quel “setaccio grigio” che è la Guerra. Perché “Un biglietto per l’Isola” parla (e il cerchio si chiude sui tre indizi fondamentali) della famiglia di Ermanno e di come essa abbia attraversato, su un’isola che pochi conoscono, il dramma della guerra. Anzi a dirla tutta e bene, il dramma di “una doppia guerra”. Con il conseguente dramma di un esilio. Anzi di un doppio esilio.
Un classico “romanzo familiare”?
Non proprio
“Questa dovrebbe essere una sinossi” scrive Dodaro, “ma il condizionale è d’obbligo perché credo non lo sia. Forse dovrebbe essere considerata un diario di viaggio, ma a guardare bene, i diari procedono in ordine cronologico, cosa che questo scritto non fa.
Il libro è bizzarro, salta di palo in frasca, zompa, ride, piange. Si avvolge su sé stesso, cerca parafrasi, si avvita in argomentazioni e argomenta motivazioni, inciampa e cade, sussurra e si contorce, dà l’addio definitivo e bussa alla porta del cuore dopo tre secondi. E’ finito nel cestino tante di quelle volte che contarle è impossibile. […]
Non è facile catalogarlo, dargli un codice, mettergli un’etichetta, affibbiargli una qualifica.
Vorrei che vi leggeste dentro la storia di una famiglia, una storia raccontata attraverso un viaggio reale e onirico ma mai cronologico, un viaggio dalle tappe strane ed inconsuete e mai preordinate se non dal fato.
Il punto di partenza è un’isola dell’attuale Croazia, Lastovo, ma la stessa isola ha anche un nome italiano, Lagosta.”
Lagosta, Lastovo, Angusta Insula, Ladeston.
L’isola, confida Ermanno al lettore, a dispetto dei suoi molteplici nomi: “non sono nemmeno sicuro che esista”.
Un puntino sulle carte nautiche che, via catamarano, dalle Isole Tremiti, lo scrittore, che è anche uno dei maggiori protagonisti della storia, raggiunge in una sera di fine Luglio del 2004.
Un puntino sulle carte nautiche. Che per i più non ha nessun evidente significato (di questo egli stesso ne è consapevole). Ma che sarà il punto di partenza per rompere l’afasia e tornare a parlare di un pezzo di storia personale importante, un necessario ricongiungimento con i legami di sangue, il quale trasformerà una enigmatica, muta fotografia, nell’inizio di un vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo a scorrere i fotogrammi ancora vivi nella storia di un nucleo familiare.
La storia di Nicola Romita, il nonno di Ermanno, è storia così tanto singolare che nemmeno la seconda e terza generazione dei Lagostani è riuscita a dimenticare. E non è riuscita a cancellarla la guerra che da Mussolini a Tito ha smorzato le voci e i suoni di quest’isola, diluendone colori e richiami: un mondo che - sebbene non potrà più tornare fisicamente - rivivrà però con la forza del ricordo. La piazza della Radio, la scritta cancellata dei Grandi Magazzini Lagostani fondati nell’isola da nonno Nicola, le stradine che dal porto immerso in un verde accecante dalla bellezza sovrumana, si inerpicano su fino al borgo antico oggi ormai quasi del tutto disabitato … ma soprattutto una foto, quella foto da cui la ricerca di Ermanno è partita, l’immagine che, piena di forza comunicativa, ritrae Nicola da giovane, un uomo colmo di vita e di speranze nel pieno della sua esistenza familiare e sociale sull’isola: un uomo nuovo, diseredato ma rifatto da sé, fuggito con coraggio e determinazione da Bari, dalle regole paterne e dal retaggio della sua benestante famiglia di origine, avendo sposato con la forza di un amore supremo ed intramontabile una donna che per la famiglia non era quella giusta ma che da lui era stata messa innanzi ad ogni regola o imposizione “di casato” di dote, di eredità. Ermanno, che non ha mai conosciuto Nicola, non può resistere al richiamo di quella vita così singolare, così diversa, non può non fantasticare su quello sguardo così unico e penetrante: quell’anima e quel sangue richiamano per forza di cose un ricongiungimento sia storico che famigliare. Già da troppo tempo quell’appuntamento è stato rimandato: è ormai ora di partire per Lastovo come fece il nonno un giorno tanto lontano per rifarsi una vita. E’ tempo di ricongiungersi, di sapere, di riscoprire e di riguardare, giacchè è proprio lo sguardo di Nicola che posandosi su quello di Ermanno dall’angolo di quella vecchia foto, invita il nipote ad intraprendere “il viaggio”. Entrambi sembrano osservarsi dalle profondità di un secolo all’altro: “Vieni, ti aspetto”. E’ un’irresistibile richiamo: “Andiamo”.
Non svelerò, non sarebbe giusto, altri particolari di questa bellissima storia, scritta con limpidezza di cuore, scioltezza argomentativa e così piena di passaggi pittoreschi, intimi, freschi, emozionali come solo un nipote avrebbe potuto fare nei confronti non solo di un nonno ma di tutti gli altri membri della propria famiglia. E non c’è nessun tono celebrativo in queste pagine, ma una verità che si evidenzia da sola. Si tratta di una storia che appare ed è in definitiva specchio uguale e diverso di tante altre storie famigliari e comunitarie travolte dall’uragano della Seconda Guerra Mondiale. Quanti equilibri sono stati sconvolti, quante possibilità di vivere sono state smorzate, quante esistenze deviate per sempre: noi non lo sapremo mai davvero e questo perché non tutti, dai resoconti orali, hanno voluto poi raccontare, documentare, dare vita e corpo, lasciare in eredità attraverso libri o scritti di varia natura.
Se Ermanno non avesse deciso di ripercorrere la strada fisica dei fondali rocciosi di Lagosta, delle sue case sbrecciate e del cimitero che guarda al mare per poi percorrere quella a ritroso nel fondo del suo cuore, forse Nicola Romita sarebbe rimasto per sempre fermo lì, lo sguardo pietrificato sul bordo della scogliera del porticciolo, la canna da pesca in mano e l’ombra come un miraggio di chi gli fu strappato alla vita. Se non lo avesse fatto, forse zia Pina sarebbe rimasta bloccata nel paesello, cacciata fuori dalla sua scuola - per ordine del tribunale del popolo “liberato” da Tito - a pulire gabinetti, “le mani rosse e spellate” ma la testa in paradiso a sognare e risognare i tuffi e il verde del mare da cui nessuno aveva il potere di distoglierla. E l’esodo dei Romita, via da quell’isola così come dalla Dalmazia insieme a tutti gli altri italiani per ordine del “Generale” sarebbe rimasto un ennesimo film muto da guardare, fotogrammi senza alcun commento, come in una lontana e sbiadita controluce, uno scatto fotografico consegnato alla storia senza la dovuta didascalia.
“Sai” dice zia Dina ad Ermanno davanti a quella che un tempo sull’isola era la casa di famiglia “Tu guardi questa casa e la vedi in rovina, noti le crepe sui muri, le erbacce continuano a crescere negli interstizi del portico. Per te è la visione reale di una cosa, ma per me è differente. Io la vedo ancora con lo sguardo di una volta, sento i passi di chi l’ha vissuta e amata e sono felice.”
Il segreto della vita risiede sempre nella forza di uno sguardo che va oltre lo sguardo, proprio come quello di zia Dina sopra quella casa sbrecciata e solo apparentemente senza calore.
E’ uno sguardo “ricreatore” che risponde a comandi ed istinti ben precisi, che ignora gli scherzi e le angherie della storia, le bieche vicende ed i più bassi sentimenti degli uomini. Quello sguardo ricreatore ha saputo scavalcare ogni barriera temporale, ridonando una forza e un vigore talmente potenti che né la guerra, né la morte, né la disperazione, né le traversie potranno ormai più distruggere. E’ un “saper vedere” che è un “saper amare”; è in definitiva uno sguardo che vince sempre e che sempre spera. Ed è uno sguardo che, credo, zia Dina sia riuscita a comunicare interamente al nipote. E che mamma Tilde aveva già passato a suo figlio “con il latte” e “attraverso le canzoni di culla” cantate in quella antica misteriosa lingua appena al di là del nostro Adriatico. E così Ermanno che ha saputo nutrire pian piano quello sguardo, non ha fatto altro che alimentare un desiderio a mio avviso molto più forte della semplice curiosità familiare, poiché la forza di un ricongiungimento, anche se solo simbolico, anche se solo guidato da un abbraccio che dopo tanti anni non potrà che essere solo per metà reale, ha dato però ugualmente vita alla “registrazione di qualcosa” che non è solo e semplicemente una “nota” ed un “appunto sulla famiglia” ma è bensì un prodotto artistico passibile di diventare “di tutti”, ovvero di chiunque avrà la bontà e la volontà di leggere ed apprezzare.
E se è vero, così come scrive Ermanno, che per la famiglia Romita “… da quel momento Lastovo-Lagosta affonda nella memoria […] ed il tempo inesorabile ne ricopre persino il mare” è ancor più vero che per la legge della vita e dell’amore, nessuna innocente, pura e bella storia di famiglia può consumarsi eternamente al fuoco dell’oblio, perché come fenice dalla cenere e per una strana ma incontrovertibile legge del desiderio e del destino, essa ritornerà a rivivere.
Per ogni fuga c’è sempre un ritorno, per ogni partire un ritornare, per ogni desiderio un solo sublime attimo:“un momento che” scrive - anzi confida - Ermanno “non potrei spiegarvi, neanche se volessi”.
Non si può spiegare perché succedano le guerre. Neanche se uno volesse. O perchè poi sopravviva l’amore. Neanche se uno lo volesse. O perchè la musica accada - neanche se uno lo volesse- o perché sopraggiunga la morte, o perché un bel giorno si compiano le rivoluzioni. Possiamo però, se vogliamo, innamorarci di un’isola, scrivere un libro, metterci a contare le onde del mare. O sapere che il tempo e lo spazio sono infondo faccende della nostra testa, poichè chi scompare può vivere con noi ogni giorno e, infondo, un’isola che pochi conoscono può racchiudere per te l’intero paradigma e significato dell’esistenza.
Ermanno, sai, credo che forse presto andremo a Lastovo, e da lì, se ancora le vendono, ti manderemo una cartolina.
Ma la più bella l’hai già mandata tu a tutti noi quando hai deciso che avresti fatto il tuo viaggio.
ANGELA DE NICOLA
(Centro Studi Leone XIII)
NOTA: Ringrazio Ermanno Dodaro per l’amicizia e per la rinnovata fiducia riposta nei confronti del mio lavoro.
Questa mia recensione arriva in realtà ad un bivio temporale decisivo l’opera. “Un biglietto per l’Isola” infatti è attualmente in fase di ampliamento e sta per varcare le soglie di una distribuzione editoriale classica, di tipo professionale, a livello nazionale.
Per gli amici del Centro Studi e per tutti i lettori del nostro blog, l’anteprima dunque di una bella notizia legata al libro, il quale lasciando la sua attuale veste di pubblicazione, darà vita, sotto un nuovo titolo, ad una rinnovata versione editoriale nella primavera del 2020. La nuova edizione che vedrà un numero maggiore di capitoli rispetto a quella attuale, godrà - si auspica- di una fruibilità certamente più ampia, così come tale lavoro merita.
Un po' di pazienza ed i colori delle parole e del mare, i sapori della Storia mischiati a un lessico famigliare, la musica dei ricordi vicini e lontani, il velluto seppiato di una vecchia foto che rimescola la sabbia dell’esistenza saranno nuovamente disponibili alle menti dei lettori.
Seguiranno dunque presto in questa sede indicazioni e notizie, per chi fosse interessato, su come acquistare la versione definitiva del libro di Ermanno Dodaro.
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Dopo il voto trionfale per Boris Johnson e la riconferma della maggioranza degli inglesi per la Brexit, in Italia, Salvini e la Meloni, la destra nazionalista e populista, hanno immediatamente salutato gaudenti questo risultato. Ora non ci sono più né dubbi né alibi: la Gran Bretagna esce dall’Unione europea e ci saranno conseguenze sia per gli inglesi sia per l’Unione europea. Anche sull’assetto dei partiti italiani s’imporranno scelte non più eludibili, soprattutto in Forza Italia, partito aderente al PPE che, con Berlusconi, segue una strategia di alleanza a destra, proprio insieme ai due partiti nazionalisti e anti europei della Lega salviniana e di Fratelli d’Italia. La distinzione tra partiti europeisti e partiti schierati contro l’Unione europea diverrà sempre più netta e crescerà l’esigenza di un nuovo centro democratico, popolare, liberale, riformista, europeista, trans nazionale, ispirato ai valori dell’umanesimo cristiano, alternativo alla destra nazionalista e populista e alla sinistra. Un progetto al quale noi “ DC non pentiti” stiamo lavorando, con l’avvenuta formazione della Federazione popolare dei DC e con l’adesione di altri amici popolari al manifesto Zamagni. Comprendiamo che, per esigenze collegate alle leggi elettorali di alcune regioni, gli amici dell’UDC abbiano deciso di collegarsi al nome e simbolo di Forza Italia, superando l’impegno della raccolta delle firme, ma deve essere chiaro che si tratta di una scelta tattica, tale da non pregiudicare la strategia che abbiamo concordato nel patto-statuto della Federazione popolare dei DC. Alla fine dovremo presentare liste della Federazione unita e/o del nuovo soggetto politico di centro che intendiamo concorrere a costruire. Gli amici di Forza Italia, sempre più divisi tra quanti sentono forte l’attrazione a destra, in un’area cioè sempre più a netta dominanza salviniana, e quanti rivendicano la propria autonomia, sarebbe auspicabile si impegnassero, almeno questi ultimi, nella costruzione del nuovo soggetto politico di centro suddetto. Costruire un gruppo parlamentare autonomo di centro dovrebbe essere il primo passo da compiere, come vanno richiedendo alcuni parlamentari di Forza Italia. Un gruppo nettamente schierato sulle posizioni europee del PPE, distinto e distante dagli amici che hanno deciso di allearsi con la Lega.
La Federazione popolare dei DC, intanto, assuma come suo obiettivo a breve, il raggiungimento dell’unità con gli amici del manifesto Zamagni, per concorrere a costruire, nei tempi politicamente possibili, il nuovo soggetto politico di centro di cui l’Italia ha bisogno. Ciò porrà fine finalmente alla diaspora politica dell’area popolare e sarà la premessa indispensabile per uscire dall’attuale condizione di irrilevanza politico istituzionale. Sulla riforma della governance europea abbiamo scritto le nostre idee nel saggio: “ Elezioni europee: la visione dei Liberi e Forti” editato alla vigilia delle recenti elezioni per il Parlamento europeo. Sono due i temi essenziali per indicare una seria proposta riformatrice di ispirazione popolare, europeista e trans nazionale, secondo i principi dei padri fondatori. Il primo è quello del rapporto da rinegoziare nei trattati, al fine di superare i conflitti rivelatisi insanabili con la nostra Costituzione, specie quando, come nel caso del fiscal compact, quella decisione, nettamente in contrasto con gli stessi trattati liberamente sottoscritti, è stata il frutto di un regolamento di grado normativo inferiore ai trattati, redatto da euro burocrati, con l'avallo irresponsabile anche di nostri autorevoli esponenti di governo. Fatto quest'ultimo ampiamente dimostrato dai saggi del Prof. Giuseppe Guarino, ahimè, sin qui volutamente e colpevolmente misconosciuti. Il secondo è il tema della sovranità monetaria che, nei modi in cui si è sin qui realizzata a livello dell'Unione e in quasi tutti i Paesi componenti della stessa, con il controllo de facto della BCE e delle banche centrali dei diversi Paesi da parte degli hedge fund anglo caucasici (kazari), riduce la "sovranità popolare" a un ectoplasma senza sostanza; con le politiche economiche prone al dominio degli interessi dei poteri finanziari, che subordinano ad essi tanto l'economia reale che la politica. In sostanza, annullano de facto la democrazia e le fondamenta stesse su cui si regge il nostro patto costituzionale. Noi non crediamo sia utile né opportuno uscire dall'UE che i nostri padri hanno voluto, ma sappiamo che è assolutamente necessario cambiare rotta se vogliamo che l'Unione europea possa progredire verso un progetto di autentica confederazione di stati e regioni, con un Parlamento eletto a suffragio universale e un governo centrale eletto dallo stesso Parlamento, superando in tal modo l'attuale insostenibile costruzione artificiosa, inefficiente e inefficace, funzionale sin qui solo agli interessi dei poteri finanziari dominanti. Questo, a nostro parere, dovrebbe essere uno degli obiettivi di tutti i Popolari europei che si riconoscono nel PPE e di tutti i democratici che si sentono impegnati nella costruzione dell'unità politica dell'Europa. L’alternativa, altrimenti, sarà la progressiva dissoluzione della stessa Unione. Questa azione riformatrice dell’Unione europea, in ogni caso, non può essere condotta da posizioni isolazioniste come quella salviniana o della destra estrema, ma all’interno delle grandi forze politiche europee che, per quanto ci riguarda, sono quelle che si riconoscono nel PPE. Avanti, dunque, da “Liberi e Forti”, eredi della migliore tradizione europeista dei padri DC fondatori dell’Unione europea: Adenauer, De Gasperi, Monnet e Schuman.
Venezia, 14 Dicembre 2019
Ettore Bonalberti
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Mi capita tra le mani, era l’altro ieri, una vecchia riflessione che tempo fa affidavo “en passant” ad un taccuino riposto in fondo alla libreria, un piccolo block-notes giallo che faccio per buttare nella spazzatura.
Lo leggo però prima un attimo, non si sa mai: lo faccio in realtà più per scrupolo che per amore di ciò che vi possa essere ritrovato (o rintanato) a inchiostro.
“Aspetta” mi dico, “non gettarlo … a qualcosa forse può servire: siamo in un periodo, questo di Avvento, che richiama il grande mistero del Silenzio, della riflessione, dello “gnoti seautòn”, il “conosci te stesso” di socratica memoria … è una riflessione quotidiana, piccola piccola- è vero - e non ha, né vuole avere, così come è ovvio, alcuna pretesa di massimi sistemi.
È una voce come tante. Una biro che scorre tra un ritaglio di tempo e l’altro, come molto spesso capita nella vita così piena di tante, troppe cose. Ma quel che più conta è che il pensiero in questione è venuto fuori così, semplicemente, come effetto – e questo lo ricordo bene - di un sentimento che negli ultimi anni spesso mi era parso di scorgere quale costante valoriale in netta crescita tra i discorsi di chi tra i miei coetanei si era sempre posto quella particolare “domanda in più sulla vita.”
È bello sapere che infondo c’è stanchezza nei confronti di questo nulla che ci sta fagocitando.
È positivo sapere che stiamo per perdere la bussola, perché la ritroveremo.
La stanchezza è uno start positivo.
C’è una nuova urgenza di identità.
Urgenza di ritornare, ripartire, ricominciare.
Urgenza di ritorno a forti identità personali e comunitarie, perché senza essere ed appartenere non si può esistere.
E allora, perché l’esistenza non scorra via tra le mani scivolando rovinosamente come sabbia, senza forma nè ragione, è necessario prepararsi, riflettere, leggere tra le righe del sociale, capire il passato, emanciparsi dalla massa (soprattutto quando questa forgia idee poco chiare, poco etiche e molto fuorvianti) e in ultima istanza è necessario agire, anche solo come goccia che piova nel mare.
Quelle qui sotto potrebbero apparire a primo impatto parole di condanna nei confronti dell’”ultimissimo oggi” ma sono parole che ricordo anzitutto un po' sofferte…e anche un po' “arrabbiate”.
In una tale occasione, poiché esse sono piaciute all’amico Pasquale tanto da pregarmi di inserirle nel blog, mi piace farle precedere da una “pars costruens” che ne attenui il tono di scoraggiamento, tono che ritengo comunque conseguenza di uno sradicamento sociale tale da essersi reso colpevole di un ormai mancato riconoscimento dei tratti umani nel vissuto odierno.
È veramente questa insomma - vale la pena ripeterselo- la società e la civiltà che volevamo costruire?
Possiamo risalire la china, perciò è necessario oggi più che mai:
Conoscere se’ stessi;
Leggere di più;
Condividere più sentimenti e meno hastags;
Guardare nuovamente negli occhi la gente;
Parlare faccia a faccia con i propri simili, senza farsi scudo né abusare dello schermo della tecnologia;
Ricordare e conservare ciò che ci insegnarono gli anziani;
Non perdere il patrimonio della Fede;
Tramandare l’espressione locale delle nostre peculiarità socio-etno-linguistiche;
Difendere l’arte, la musica, la cultura;
Non far passare nessuna idea senza sottoporla al vaglio del proprio giudizio critico adeguatamente curato, nutrito, educato;
Avere il coraggio della propria diversità e delle proprie opinioni;
Provare a non considerare l’altro come un potenziale rivale ma come qualcuno che ha certamente qualcosa da regalare, poiché tutti siamo portatori sani di buone idee nascoste nel profondo;
Abbattere il muro del pregiudizio, dell’invidia, dell’insoddisfazione personale;
Sentirsi piccoli di fronte al mondo e all’universo ma grandi nella capacità di amare, fare e pensare;
Coltivare la speranza contro ogni speranza.
E poiché stiamo vivendo:
Una società dell’edonismo e dell’insoddisfazione
Una società dell’ego e del disinteresse
Una società assuefatta ed annoiata
Crassa, obesa del nulla e diffidente
Una società del chiasso, che teme fortemente il silenzio
Una società che abbassa la guardia ma che al tempo stesso pretende ogni specie di vuota attenzione
Una società frettolosa, velocissima da stordire, che ti ruba l’anima in un soffio e nemmeno te ne accorgi
Società antisociale affogata in una confusione da Social
Che spia ed è spiata
Una società dell’inflazione dell’immagine, della sovraesposizione mediatica, dell’iper-appiattimento
Società la cui competizione spietata ed abnorme annienta l’intrinseca, innegabile, nascosta bellezza e peculiarità della persona
Società soffocata, schiacciata, ridotta ai minimi termini e ai minimi storici, confusa e stordita da voci contrastanti e dispersive che rimandano ad un pugno vuoto sfociante nella rabbia e nella frustrazione
Società che bandisce i libri e la cultura
Società che quota il diverso come fenomeno da baraccone
Società degli elogi alle masse, alle violenze, all’ebetismo finale
Un punto vuoto di milioni di persone proiettato nel nulla, che non leggono, che s’informano poco e male, che puntano il dito senza sapere dove puntare davvero, abituati e ciechi difronte all’invasione di un’ormai pericolosissima frammentarietà dell’anima…
In questa società ci è dato di fare ormai solo due cose: affogare con essa o scegliere di nuotare controcorrente.
“Conosci te stesso ed abbi la consapevolezza di essere inferiore a Zeus”
Era la scritta che campeggiava sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi.
La tecnologia non ci renderà mai dei superuomini, semmai degli ominidi, dei surrogati. E i surrogati, per loro stessa definizione, si sa, tendono ad essere alquanto pericolosi. L’adattamento alle cose nuove è certamente essenziale, innegabile, vitale e presuppone la forza energetica, osmotica e contagiante della curiosità, senza la quale non saremmo mai arrivati sulla luna né avremmo mai osservato i buchi neri all’interno di una galassia. Ma non possiamo dimenticare che c’è stato un lungo viaggio prima di tutto questo: ed è il viaggio dal quale siamo provenuti, il viaggio che ci ha permesso di essere e pensare esattamente nei termini in cui oggi siamo e pensiamo.
“Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche da te stesso. Tendi là dove si accende la luce stessa della ragione.” (Sant’Agostino, “De Vera Religione” 39, 72.)
Mai come in questi strani giorni l’uomo risulta assetato di una profonda spiritualità. C’è in noi una sete di grande luce e di immensa giustizia. È una sete talmente forte, che a tratti diventa irrazionale ma è così tanto vaga che ancora (e questo è grave) non gli si è riuscito a dare un nome. Ad ogni modo esiste il pericolo di morire assetati: dunque siamo in una situazione di emergenza assoluta.
Spesso nelle situazioni di pericolo è l’istinto a salvarci. E così, in questo momento storico che molti concordano essere grave non tanto per le contingenze, quanto per l’ignoto cui ad ogni livello sembriamo tendere ed essere proiettati, a livello sia globale che personale, è proprio l’istinto a dirci di fare marcia indietro, di tornare a casa.
La casa siamo noi, la casa è ciò che abbiamo costruito dentro.
“Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.” (Josè Saramago, “Viaggio in Portogallo”.)
È ora di fare ritorno nella nostra casa. È ora di accendere le luci che abbiamo lasciato da troppo tempo spente. È ora di aprire la porta che dà sulla strada buona, quella che rimaneva chiusa e sbarrata per timore. È ora di ritornare. È ora di non sentirsi più gli stranieri di noi stessi. È ora di fare ritorno. Non per distruggere ma per salvare ciò che è buono. E per poi riprendere, ancora e bene, ricominciare.
Angela De Nicola
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Scuola e territorio ma soprattutto scuola e collegamenti con il mondo del lavoro. Scriviamo ora sull’Alberghiero di Melfi, davvero uno degli istituti superiori di maggior valore in tutta la Basilicata, divenuto polo di eccellenza, in grado di offrire specifica, completa, puntuale, vera formazione che consenta di avere accesso al mondo di una professione molto richiesta. Sarà anche dovuto al made in Italy, al sempre maggior affermarsi di tanti chef italiani a livello nazionale ed internazionale, al fatto che siano richiestissimi per eventi mondiali e buffet tra capi di stato, che i loro locali o ristoranti abbiano sempre qualcosa di speciale da offrire per tutta la clientela che fa la fila per prenotarsi o per un tavolo a cui poter cenare, di certo il mestiere di chef, di cuoco, di gourmet, e tutto quello che concerne ristorazione, servizio in sala, accoglienza, ha avuto un boom incredibile negli ultimi decenni. Così facendo, in tanti, soprattutto giovani studenti oltre ad adulti e persone con altre specializzazioni scolastiche, si sono rivolti e sempre più si rivolgono agli istituti alberghieri per imparare un mestiere, pardon, una bellissima e qualificante professione, che li permetta poi di essere ricercatissimi sul mercato del lavoro, fossero essi alberghi di lusso, ristoranti alla carta, locali all’ultima moda, aziende di produzione alimentare, hotel in posti di vacanze oppure centri in cui il visitatore è attratto dalle bellezze del luogo ma anche dal sano mangiar in salsa italica con i nostri migliori prodotti tipici.
Melfi, da questo punto di vista, non ha nulla da invidiare ad altri posti, vista la sua posizione strategica tra due regioni come Puglia e Campania, i suoi prodotti tipici, la sua storia millenaria, il lustro che le seppe dare il periodo svevo con l’illuminato Federico II e le sue Costituzioni Melfitane per tutto il regno, i cinque Concili Papali, le tradizioni, l’economia forte che è rappresentata dallo stabilimento Fca di San Nicola, da 25 anni produttivo e riferimento vero di un gruppo internazionale dell’automotive, e con numeri enormi in termini di addetti, di indotto, di trasportatori e movimento di vetture in Italia e nel mondo da Melfi, anche tramite treni speciali. Per questo, ma anche per dare ulteriore sostanza allo sviluppo dell’area, in termini economici, turistici e occupazionali, Melfi ha trovato nell’Istituto Alberghiero, da alcuni anni fusosi al meglio con quello storico del Gasparrini, che ha sfornato intere generazioni di ragionieri, tecnici, geometri negli anni, il punto forte per dare ancora più valore a tutto ciò che è cucina, accoglienza, bar, pasticceria, voglia di turismo e servizi alberghieri di qualità, e dal sicuro sbocco lavorativo in tempi rapidi.
Nato negli anni 70 come succursale del Di Pasca di Potenza, con gli anni ed il duro lavoro di dirigenti, docenti e personale, è cresciuto e si è affermato come punto di forza di Melfi e dell’intera area, arrivando ad avere un suo plesso centrale, in affitto da privati per mano della Provincia, e poi col crescere di sue attività e di classi composte di anno in anno, ad avere un secondo plesso con il convitto, poi anche il plesso presso Vitucci ed ancora un quarto. “Una crescita enorme, che ci ha fatto molto piacere – poi ci ha riferito l’attuale dirigente scolastico, il professor Michele Masciale, dal 2011 all’Alberghiero e dall’anno scolastico successivo a capo dell’intero complesso che unisce questo al G. Gasparrini – di cui andiamo fieri anche perché, da scuola per chi aveva meno feeling con lo studio, in questi anni di duro ed intenso lavoro e di crescita esponenziale, siamo divenuti il top nel settore ed anche un polo di eccellenza, come unico Istituto Alberghiero d’Italia che ha il riconoscimento del Ministero, per la nostra iniziativa Basilicata a Tavola, da 4 anni evento di eccellenza con imprinting del Ministero”. Insomma quanta strada ha saputo fare l’Alberghiero di Melfi, grazie ad una forte riqualificazione ed una profonda selezione, ridando valore a chi si iscrive a tale istituto superiore, dapprima scelto dagli alunni meno avvezzi allo studio ed ora, come detto, polo di eccellenza nelle scuole lucane e del sud, oltre che sicuro approdo lavorativo per i suoi qualificati studenti visto che, come confermano i dati dell’ultima sessione di esami di stato, tutti i ragazzi diplomatisi a giugno 2019 sono tutti occupati e, all’istituto melfitano, sono arrivate anche tante altre richieste per nuovo personale, da strutture della Basilicata e di altre regioni, purtroppo rimaste inevase dalla direzione per mancanza di altri studenti appena diplomati. “Un qualcosa di eccezionale, di bello, di qualificante per noi e per chi opera qui” questo il sincero commento di Masciale, arrivato a capo di tale istituto quando gli alunni erano poco più di 400 ed ora a gestire oltre 600 alunni, inclusi anche i 3 corsi serali e quello al carcere, che son il modo migliore per confermare la crescita e l’affermazione di tale istituto e come, davvero, chi ha voglia di trovare una sicurezza economico lavorativa in tempi brevi non ha che da scegliere proprio il frequentare l’Alberghiero di Melfi. Soprattutto dopo che, nel 2012–2013, c’è stata l’unione, con il proficuo intervento dello stesso Michele Masciale a Lavello in occasione di una sorta di forum da cui si doveva riscrivere l’accorpamento di alcuni istituti superiori di Melfi e della zona, proprio per le materie in comune come economia, gestione aziendale, le lingue, il turismo. Quindi sì alla razionalizzazione di spazi ed all’accorpamento, in ossequio anche all’idea di fare in zona scuole a Valleverde, una sorta di campus, ma anche alla qualificazione della scuola, come detto, all’inserimento del Pranzo di Gala con un menù completo per iniziare l’interazione col territorio, poi uno spazio sempre maggiore per fornire catering, accoglienza, buffet e servizi ai vari convegni ed eventi, fino alla collaborazione con l’Università, stabilita in ricorrenza del 150° anniversario della Costituzione, da cinque anni con un convegno scientifico con l’Istituto Superiore di Sanità, oltre al Ristorante Didattico con un occhio attento all’utilizzo di particolari prodotti come zucca, legumi, il pesce azzurro, il melograno, l’inclusione sociale scolastica con una quarantina di ragazzi con varie disabilità presenti per arrivare, come ciliegina sulla torta, al riconoscimento del Ministero per quel “Basilicata a Tavola”, iniziato con la presenza di 7/8 scuole od ora arrivato ad ospitarne 23 e con il diretto contatto con il nostro territorio e con l’abbinamento con enti, vini locali e giuria composta da tutti esperti del settore di fama nazionale ed internazionale a giudicare i lavori proposti dalle scuole. Il tutto, come ribadisce fiero il dirigente Masciale, in conclusione del nostro incontro “grazie ad un clima di condivisione forte che esiste da noi, con docenti e ragazzi che operano anche fuori dall’ora di studio mattutina, per preparare anche buffet ed assicurare la nostra presenza in vari convegni sul territorio, a cui siamo legati tanto come scuola, affinché la preparazione data ai ragazzi sia completa e totale e possa loro garantire, come succede sempre, di poter trovare subito lavoro e di fare, come altri ex studenti, che sono a Bergamo, a Londra, in altre parti d’Italia e del mondo, ritagliandosi così spazi importanti per un loro futuro eccelso nel campo della ristorazione e delle attività alberghiere”.
Antonio Baldinetti
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l 21 novembre scorso presso il Chiostro Nina Vinchi del Teatro Grassi, Piccolo Teatro di Milano, tempio storico del Teatro italiano, si è svolta la premiazione del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia “Tragos", dedicato alla memoria di Ernesto Calindri, con il patrocinio del Comune di Milano e della Camerata dei Poeti di Firenze.
Il Premio, nato nel 2000 da un'idea di Maria Gabriella Giovannelli, che ha presentato l'evento, è giunto quest'anno alla sua XIV edizione configurandosi tra i più importanti Premi del panorama teatrale per risonanza, partecipazione e divulgazione dei testi premiati.
Tra gli autorevoli membri della Giuria, esponenti del mondo culturale e teatrale, vi è Marilena Verri, artista e soprano, moglie per 36 anni del compianto Vincenzo Di Lalla, poeta, scrittore, compositore e musicista nato a Vico del Gargano, in onore del quale è stata ideata la segnalazione speciale “Vincenzo Di Lalla".
Quest'anno la segnalazione è andata alla drammaturga, poetessa e scrittrice termolese Maria Carmela Mugnano per l'opera teatrale “Frammenti d'amore", premiata, in nome dell'amato marito, dalla stessa Marilena Verri.
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Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), o European Stability Mechanism (ESM), nasce come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro, ed è molto discusso in questi giorni, infatti, il fondo creato per aiutare gli stati europei che adottano l’euro e che sono in crisi per eccesso del debito sovrano è da modificare in alcune clausole che tra l’altro scatterebbero in automatico.
Il punto critico del MES, non è situato nella possibilità che un debito sovrano venga ristrutturato (già avvenuto per la Grecia), ma nell’ipotesi che la ristrutturazione del debito, diventi poi, una precondizione automatica per condizionare i finanziamenti e i ria-acquisti del debito stesso.
Il cosiddetto, fondo salva stati, avrebbe un potere tecnico enorme rispetto al potere politico della Commissione Europea.
Per il nostro paese, (con un mostruoso debito pubblico) il MES così come è stato strutturato fin qui, collocherebbe il sistema Italia in un discreto pericolo. Basterebbe una semplice notizia sulla difficoltà del governo o di collocamento dei titoli di stato e lo spread aumenterebbe immediatamente e il MES, a quel punto, dovrebbe cominciare a interessarsi a noi da vicino.
Anche un annuncio da parte dell’Italia di necessità di ristrutturare il proprio debito pubblico potrebbe scatenare la speculazione sui nostri titoli di stato e dunque ancora lo spread e il successivo rischio default. Proprio su questo punto è scoppiata la polemica con la richiesta di una modifica del MES che invece imporrebbe una perdita finanziaria a tutti coloro che acquistano titoli di stato rischiosi a partire dal 2022. Questa imposizione, ovviamente, causerebbe una richiesta di maggiori rendimenti per acquistare i rischiosi titoli di stato italiani.
Prof. Antonio ROMANO
www.antonioromano.org
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Si è costituita ieri, mercoledì 30 ottobre a Roma presso il Centro studi Leonardo da Vinci la Federazione tra i partiti e i movimenti che si ispirano alla tradizionale popolare della DC: hanno aderito 25 organizzazioni che si sono dati come programma la preparazione di un nuovo soggetto politico unitario per superare la diaspora e le divisioni che in questi lunghi anni hanno compromesso una presenza culturale e politica nel nostro Paese.
I firmatari del documento come manifesto politico della federazione, sono consapevoli della particolare situazione politica che attraversa il paese e della presenza di una destra estrema, eversiva e xenofoba che si è sviluppata per la crisi che ha attraversato il centro e la sinistra.
Con l’incontro svoltosi si mette la parola fine alla diaspora democratico cristiana durata oltre venticinque anni.
Presieduta dall’on Giuseppe Gargani, l’assemblea ha approvato il documento con cui nasce la federazione di centro sottoscritto dagli on. Lorenzo Cesa (UDC), Mario Tassone (NCDU), Renato Grassi (DC), Gianfranco Rotondi (Forza Italia), Publio Fiori (Rinascita popolare), Paola Binetti (Etica e Democrazia), Ettore Bonalberti (associazione liberi e forti) unitamente a parlamentari, e 25 rappresentanti di associazioni, movimenti e gruppi dell’area cattolica, del volontariato e della famiglia.
La nuova formazione si ispira ai valori dell’umanesimo cristiano e vuole inserirsi a pieno titolo nel PPE, in alternativa alla deriva nazionalista e populista.
Nel deserto delle culture politiche che caratterizzano la politica italiana, prende finalmente avvio un progetto di ricomposizione dell’area politica cattolica popolare, aperta alla partecipazione di movimenti, che si ispirano al popolarismo per la difesa della Costituzione.
I firmatari del documento costituiscono il Comitato provvisorio della Federazione. Nei prossimi giorni verranno organizzate in tutta Italia iniziative regionali e locali per presentare l’iniziativa e strutturarla sul territorio, mentre i membri promotori lavorano ad un’Assemblea costituente che approverà il programma, il nome, il simbolo e gli organi dirigenti della Federazione a conclusione delle adesioni nazionali e territoriali.
“Solo se saremo uniti saremo forti, solo se saremo forti saremo liberi“ (Alcide De Gasperi)
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… Nocturnasque faces caeli sublime volantis nonne vides longos flammarum ducere tractus in quascumque dedit partis natura meatum? Non cadere in terras stellas et sidera cernis?
(… E le notturne fiaccole del cielo che volano nell'alto, non vedi come disegnano lunghe scie di fiamme in qualunque parte la natura determini il loro percorso? Non vedi cader sulla terra stelle e costellazioni?)
(Tito Lucrezio Caro, De rerum natura)
Un dato interessante, alla scoperta di territori e città, è il significato dei loro nomi, una chiave originaria per entrare in contatto con l'anima dei luoghi attraversogli elementi che anticamente hanno dato loro definizione. Elementi storici, geografici, o anche miti e leggende, che servono a gettare una luce importante su questa strada di conoscenza.
In quanto a Storia il mio recente viaggio a Siderno, Città della Calabria Jonica appartenente al territorio della Locride - così denominata dai Locresi, i Greci che nel VII secolo a.c. lo colonizzarono fondandovi Locri Epizefiri - non poteva non ridestarmi echi e memorie della Magna Grecia, splendida per cultura e arte, e per le attività e i commerci che vi fiorirono. Ma, pensando al nome di Siderno, senza voler dimenticare questa determinante impronta culturale, mi era parsa, invece, suggestiva e in qualche modo naturale, una derivazione di matrice latina da ricollegare al termine sidus - sideris, “astro”, “corpo celeste”, usato perlopiù al plurale sidera, “costellazioni”.
Questa interpretazione sembra quasi curiosamente specchiarsi nella topografia del territorio che evidenzia una mappa di centri abitati sparsi in un ampio raggio, una costellazione terrestre di contrade e insediamenti, molti dei quali, più prossimi alla Città, sono stati inglobati in essa nei secoli precedenti.
Ma, aldilà delle suggestioni e alla ricerca di notizie certe intorno a un nome che pare comparire ufficialmente per la prima volta in un documento del 1220, si scopre, come avviene per tanti altri Luoghi, che una certezza non esiste e si aprono, invece, delle possibilità legate alla matrice greca del termine sider, “ferro”, poiché qui pare fossero ubicate le fonderie dell'antica Locri. Quel che è certo è che i rinvenimenti archeologici nell’area sidernese testimoniano la presenza di altre culture, oltre quella greca, come la bizantina dei monaci basiliani greco - ortodossi che, a partire dal VI secolo d.c., per sfuggire alle invasioni arabe e alle lotte iconoclaste, ripararono in molte zone dell’Italia meridionale. Ma soprattutto, fra queste due ondate di civiltà provenienti dall’Egeo e dall'Oriente, qui si insediarono i Romani, di cui sono state scoperte le caratteristiche sepolture lungo la costa, o i resti di quella che doveva essere una villa prediale, legata alla terra e alla coltivazione dei fondi rustici, tipica della cultura romana.
Tornando all'origine del nome di Siderno, e continuando in questa divagazione, se dobbiamo credere che essa oscilli tra le due importanti matrici culturali, greca e romana, dovremmo leggervi derivazioni antitetiche tra “il ferro”, che vediamo localizzato nella terra, da cui il minerale si estrae, e le “costellazioni” del firmamento. E, invece, potendo esaminare i residui di alcuni corpi celesti, è stato scoperto che non sono termini così estranei tra loro, in virtù di un anello di congiunzione offerto dalla Scienza, che talvolta ci fa comprendere l'immenso collegamento che esiste in natura tra ambiti diversi e lontani. Tale è il cosiddetto ferro stellare, le cui evidenze fanno parte ormai del patrimonio scientifico consolidato, che offre risposta alla provenienza dei manufatti in ferro, rinvenuti in varie parti del nostro pianeta, e risalenti ad un'epoca ben precedente all'età del ferro in cuii progressi raggiunti consentirono l'estrazione e la fusione del minerale terrestre. Dall’analisi di questi manufatti si è rilevato che quel ferro, asportato e utilizzato senza problematiche particolari da antichissime popolazioni, era quello delle meteoriti ferrose piombatesulla terra e presenti un po' ovunque già dall’epoca preistorica, avendone la medesima particolare composizione, diversa dal ferro terrestre. D’altra parte nell’antichità la fonte di questo minerale doveva essere ben conosciuta se un geroglifico egizio si può tradurre con l'espressione “ferro dal cielo”, quindi proveniente dai corpi celesti, sidera (Non vedi cader sulla terra stelle e costellazioni?).
Pertanto, se l'ultima parola sull'origine del nome di Siderno spetterà agli studiosi e ricercatori, nel segno di una visione unitaria cerchiamo simbolicamente di raccogliere, in una breve visita del territorio, elementi “stellari” artistici e culturali che ci guidino verso l'alto, ad sidera.
A cominciare dall'occasione che ha portato a Siderno poeti giunti da varie parti d'Italia, per la seconda edizione del Premio Internazionale di Poesia in lingua italiana Città di Siderno, ideato e promosso con grande capacità organizzativa e di accoglienza, dall'Associazione Culturale Volo, molto impegnata nel territorio per la diffusione della cultura come veicolo privilegiato di elevazione umana. Un obiettivo che, per l’Associazione, si traduce anche in una presa di coscienza sociale con iniziative a favore della collettività.
Il Premio, che si pone, pertanto, come un rilevante progetto culturale votato a dare a Siderno una connotazione di primo piano nel panorama dei Premi di Poesia, ha visto un'enorme partecipazione di componimenti poetici, giunti anche dall’estero in virtù di un carattere “internazionale” che di fatto si propone di non porre limiti geografici e culturali.
Ed è in questo contesto che la visita a Siderno è stata un'occasione per salire alla scoperta dell'antico nucleo, quello Superiore, il cuore storico della Città.
Eccoci, pertanto, al suggestivo “borgo delle meraviglie”, fatto di strade e vicoli che si snodano tra case e muri di una pietra che riluce sullo sfondo di buganvillee e aranceti; o tra i muri “nobili” in cui si incastrano gli splendidi portali dei Palazzi sei-settecenteschi sovrastati da stemmi e blasoni che hanno consegnato al tempo il loro anelito di eternità. Strade in cui i profumi degli agrumi dai giardini incontrano sugli usci delle case quelli quotidiani del pasto preparato sul fuoco, o del ceppo che brucia nel camino. E, insieme, accompagnano i nostri passi verso i percorsi dell'anima, le Chiese, attraverso le quali sono passati secoli di storia e di devozione, scrigni di bellezze artistiche che testimoniano un passato culturalmente importante, frutto di un tessuto sociale ben descritto in antichi documenti.
Domenico Romeo, studioso ed esperto di storia calabrese, riporta nel suo libro del 2000 “Apprezzo di Siderno del 1707” le condizioni economiche ed ambientali di Siderno espresse in una competente relazione di quel tempo: “… Fra detti abitatori vi sono da 20 famiglie molto civili, e commode, che vivono d'entrate ed industrie, alcune de' quali anche di fondo decine di migliaia di ducati, che compariscono nobilmente con abiti, et ornamenti così li mascoli, come le femmine ad uso di alcune città principali del Regno. Vi sono anche da venti altre famiglie di minor facoltà e civiltà, che parimenti vivono delle loro entrate et industrie… Vi sono similmente il sopraddetto numero di massari che fanno terreni e campi di vettovaglie, che più, e meno tengono bovi e vacche… Il restante degli abitatori sono bracciali, che vivono pochi con arte urbana e l’altri colonica nei campi, o propri, che possedono, o pure d'altri alla giornata, e per lo più quasi tutti possedono le case dove abitano… In detta Terra nelle genti infime non vi è pezzenteria, perché tutti... vivono d'entrate… tutti faticano… Gli abitanti in Siderno ci stanno bene circa il vitto e salute...”
Testimonianze di epoca successiva, comunque, aggiungono a questo quadro le ristrettezze di chi coltivava una terra non sua, perché i contratti relativi all'uso dei fondi, dove talvolta le famiglie restavano per diverse generazioni, portavano quasi sempre vantaggio ai soli proprietari, lasciando a chi li coltivava oneri e obblighi che non si potevano non accettare.
Alla ricerca del piccolo mondo che viveva lontano dai fasti nobiliari, basta addentrarsi in brevi fughe a ridosso dei Palazzi, in vicoli dove risuona ancora l'eco di un'antica cultura popolare che si intrecciava strettamente ai riti delle magàre, donne che praticavanol'arte occulta della magia. Ed ecco che pare di sentir affiorare, tra crocicchi, archi di supporto e pietre molto vissute, le antiche formule con cui si compivano sortilegi, gettandonel marelimoni trafitti da spilli, o accendendo candele su alberi di ciliegio, per procurare mali alle persone che si volevano colpire. Inoltre qui era molto temuta una strega, la malefica Coraìsima, altissima, vestita di nero e dai capelli corvini, che incuteva terrore specialmente se, come si diceva, la si incontrava di notte vicino a un pozzo. Per “ucciderla” le donne ne facevano un altissimo pupazzo a sua sembianza trafiggendolo con spilli e penne di gallina. Accanto a queste figure malvagie, nella fantasia popolare ve ne erano anche di buffe e bizzarre come i fudditti, i folletti che si divertivano a nascondere oggetti e spostare mobili in allegra confusione, e a vivere essi stessi negli angoli più nascosti della casa da dove uscivano per fare dispetti. Talvolta, invece, la cultura magica fioriva intorno a elementi sacri dando vita a interessanti personaggi come la sanpaulara, il cui nome evocava il Santo Protettore degli incantatori e guaritori dei morsi di serpente. Era questa una donna tenuta in grande considerazione , che girava per le strade con un rettile di cui si serviva, con molta dimestichezza, nei riti magici in cui recitava formule arcane e scongiuri per rendere innocui i serpenti e guarire dai loro morsi.
Ma ora ci lasciamo alle spalle i vicoli incantati per gli sprazzi limpidi di cielo, intravisti tra una casa e l'altra, una scalinata e l'altra, che ci portano a riprendere la strada di questa elevazione per giungere alla sommità di alcune piazze panoramiche. E lì i profumi, i colori, le suggestioni che ci hanno accompagnato finora non possono che fermarsi, prima di guidarci per un'altra meta, e rimanere in silenzio ad assistere alla nostra meraviglia, all’abbraccio che i nostri occhi rivolgono allo spettacolo della natura che si estende davanti a noi : un’ampia visuale di colline verdi da cui si innalzano cime e prominenze di pietra bianca, declivi che scendono dolcemente, e pian piano arrivano alla costa, alla striscia azzurra di mare che lambisce Siderno Marina, facendo risaltare la luminosità di una Terra che tutti i giorni incanta i suoi figli. E ad essa sono dedicati, nel dialetto locale come lingua del cuore, i versi pieni di amore del Poeta sidernese Martino Ricupero, versi che rispecchiano la bellezza e la profonda serenità di questo paesaggio.
( Da “Senteri” 2019) CCA Jeu restu ccà cu ttia mò terra mia,/ fermu ccà stessu, pe cchjù di na raggiuni./ No vvogghju u pensi ca t'abbandunai/ ca decidia pe quattru sordi u fujiu./ Puru accussì, cu tutti i così storti/ cu chigli chi t'offendunu a ogni locu/ non tornu arretu non penzu u m'arripentu/ ca nta vilanza mi dasti assai e non pocu./ Sulu pe matinati chi mi rigalasti,/ nu paradisu i chigliu chi n'ce n'tornu/ senteri i paci chi mi cunzegnasti,/ chi mi 'ncurunanu principi ogni jiornu./ Si i supa u cielu jeu ti vidarria/ i certu subitu ti canusciarrìa/ pe stu richjamu chi forzi è nostargìa/ da vita mia… ligata fitta a ttia.
(QUA/ Resto con te, o terra mia/ fermo qui stesso per più di una ragione./ Non pensare che ti abbia abbandonata/ che per quattro soldi ti abbia svenduta./ Pure così, con tutte le cose storte/ con chi ti offende in ogni loco/ non torno indietro,/ non penso di pentirmi/ ché sulla bilancia mi hai dato assai e non poco./ Solo per le mattinate che mi hai regalato /un paradiso è quello che c’è intorno/ sentieri di pace che mi hai consegnato/ che m'incoronano principe ogni giorno./ Se su dal cielo io ti potessi vedere / di certo subito ti riconoscerei/ per questo richiamo che forse è nostalgia/ perché a te stretta ho legato la vita mia.)
Continuiamo la nostra passeggiata per scoprire, con grande meraviglia, che questa Terra, oltre alle sue bellezze naturali ed artistiche, custodisce, nella Chiesa della Madonna dell'Arco di Siderno Superiore, le origini locali di questo culto Mariano, nato nel '400 in Campania, dove è molto vivo, e diffuso in varie parti d'Italia. Questa Chiesa cinquecentesca, fatta costruire dalla marchesa di Castelvetere, Livia Spinelli, madre del Principe Fabrizio Carafa, custodisce due preziose tele sugli altari laterali e, in una nicchia sopra l’altare maggiore, la magnifica statua lignea ottocentesca di scuola napoletana della Madonna dell'Arco, vestita con abito e manto stellati, che regge il Bambino che si protende verso i fedeli per benedirli. La statua, commissionata a Napoli, dopo un fortunoso viaggio per mare fece il suo trionfale ingresso a Siderno il 21 giugno 1828, accolta con tripudio e grande devozione dalla popolazione giunta da ogni dove. Ogni anno la Confraternita di Maria SS. dell’Arco, dal 1901, data della sua costituzione, organizza i festeggiamenti in onore della Madonna, che richiamano, o vengono seguiti, da innumerevoli devoti dall'Italia e da molti Stati esteri. Un culto religioso che è andato sempre più crescendo negli anni, travalicando molti confini, ed è di tale importanza che la processione della Madonna dell'Arco a Siderno è stata catalogata dal Mi.BACT tra “i beni antropologici” nell'Atlante dei Beni Culturali della Calabria.
Con gli occhi ancora pieni di tanta celestiale bellezza si prosegue per il Palazzo Falletti che vanta un magnifico portale dichiarato monumento nazionale. Dall’antico portone si entra in quello che già sull’uscio appare come un piccolo atrio in ombra con volta a crociera… irradiato dall'alto. Appena entrati si rimane sbigottiti dal fiotto di luce che irrompe scenograficamente dalla sommità di una stretta e alta scalinata con volta a botte, in cui la luce stessa resta incanalata. E non si può che esserne attratti e salire verso la fonte di quella luminosità, per scoprire in cima una balconata incorniciata da un arco e centrata sulle scale, da cui arriva lo scorcio di tetti e terrazzi circostanti. Il Palazzo fu fatto costruire nella seconda metà del ‘600 dal conte don Simone II Falletti, e dal figlio don Gaetano, del casato il cui ceppo principale pare fosse in Piemonte, da dove alcuni nobili della famiglia scesero al Sud dando vita al ramo calabrese. Di certo Simone II Falletti ricoprì la carica di Sindaco di Siderno dal 1670 al 1674, anno in cui il Principe Carlo Maria Carafa lo nominò primo Governatore di Giustizia della Città. Palazzo Falletti è proprietà del Comune di Siderno ed è stato oggetto di un importante recupero edilizio per poter essere adibito, nei suoi enormi spazi, a sede museale e ad esposizioni ed eventi artistici di grande impatto culturale.
Ma non si può avere un’idea completa delle bellezze artistiche custodite nel “borgo delle meraviglie” fino a che non si giunge alla Chiesa Matrice di San Nicola di Bari, Patrono della Città di Siderno, costruita in epoca normanna intorno al 1000 ed elevata nel 1664 ad Arcipretura, conservando il titolo di Protopapale. La Chiesa, di impianto basilicale a tre navate, è stata ricostruita nel secolo XVII con ispirazione tardo rinascimentale e con imponenti contributi barocchi.
Barocca è la Cappella della Madonna del Lume, in fondo alla navata destra, incorniciata da uno scenografico arco marmoreo, come anche un capolavoro dell'arte barocca napoletana è l'altare centrale, un'ascensione di marmi policromi con intarsi e rilievi. Nell'abside dietro l’altare una grande tela riproducente Maria SS. della Consolazione, tra San Giuseppe e San Nicola di Bari, è al centro di un'importante e fastosa “cornice” in legno dipinto e dorato della fine del '600, opera di valenti intagliatori, che sviluppa figure decorative di tralci, motivi floreali ed angeli lungo le assi laterali di due colonne tortili. Ai due lati di questa composizione sono appese pregevoli tele seicentesche napoletane. Tanti sono i tesori artistici custoditi nella Chiesa fra cui importanti reliquiari, uno dei quali contiene resti dei Santi Sergio ed Erasmo, Compatroni della Città di Siderno.
Ma una delle sorprese più interessanti, per la finalità che abbiamo voluto dare a questa breve passeggiata, giunge dalla Cappella del SS. Sacramento in fondo alla navata sinistra, anch'essa barocca e splendida di marmi policromi. Qualche anno fa, a seguito di lavori dietro detto altare, è stato rinvenuto uno stemma ligneo, facente parte dell’antico pulpito risalente alla fine del secolo XVII, e riproducente quello che è lo stemma della Città : tre grandi stelle sulle onde del mare, di cui quella centrale ha una coda simile a quella di una cometa, una scia luminosa tracciata come una via che sembra nascere dal mare da cui è giunta tanta civiltà su queste coste (… E le notturne fiaccole del cielo che volano nell'alto, non vedi come disegnano lunghe scie di fiamme in qualunque parte la natura determini il loro percorso?) Ci sembra che il cerchio si chiuda, insieme al nostro breve viaggio, per essere in qualche modo arrivati ad sidera, partendo dalle culture approdate su questa Terra e giungendo al cospetto di antiche stelle con le quali si è voluta rappresentare la Città nel suo stemma.
Nel fare ritorno a Siderno Marina uno splendido sole di ottobre illumina l’elegante e arioso lungomare delle Palme. Seguendo la traccia dei corpi celesti che danno luce alla notte, ecco sul mare il sole che illumina le nostre giornate… ed è una stella, la più importante del nostro Sistema. Il sole sembra dirci che la nostra ricerca di elevazione, attraverso gli elementi siderei che incontriamo lungo il cammino della vita, non può prescindere da lui perché la sua luce ci scalda infondendoci forza e coraggio e rappresenta la nostra speranza… che domani sorgerà ancora su questo cammino, sulle difficoltà che incontriamo, sui nostri problemi, a volte la nostra unica certezza. Ed è l’invito che ci rivolgono i versi di una bella poesia che Martino Ricupero ha dedicato a un suo amico:
( Da “Senteri” 2019) SEGUI U SULI …Segui u suli e non sbagghij, drizza a faccia ped'igliu,/ cridi ancora na vota ca gira mata sta rota./ Non c’è nugliu nto mundu chi non poti cuntari/ 'nta glia luci a matina pemmu poti sperari./’Nta sta forza luntana chi ti duna coraggiu,/ 'nto caluri chi dduna e prepara pe mmegghju./ Ndo capisci ch’è appigghju, ch'esti ganciu n'to celu,/ soprattuttu 'nte jorna chi gira tutto pe malu./ Chesti portu sicuru, quandu a navi è sperduta,/che è rihjatu chi pigghj doppu natta fujuta./ Ma se u suli esti i fora e non è dinta i tia,/ si chigli umbra t'accuppa e non duna palora,/ non dassari l'affetti e i tanti cosi chi sai,/ teni cuntu du suli chi ndavisti e chi ndai. / A chigl'ura domani è sicuru co trovi,/ poi m'abbertu da veru…e rinesciu di novu.
(SEGUI IL SOLE /…Segui il sole, non sbagli, porgigli il viso/ credi ancora una volta a un nuovo giro che porta./Nessuno al mondo c’è che di mattina non possa contare/su quella luce per poter sperare./In questa forza lontana che coraggio ti dà,/ col calore che dà e prepara al meglio,/ capisci, è un appiglio, è un gancio nel cielo,/ soprattutto nel giorno che più vedi nero./ È un porto sicuro quando spersa è la nave,/ è rifiato che prendi dopo una corsa campale./ Ma se il sole è fuori e non dentro di te,/ se quell'ombra ti soffoca e una parola non dà,/ non lasciare gli affetti, tutto quello che sai,/ tieni conto del sole che hai avuto e che hai./ A quell’ora, domani, è sicuro, lo trovo,/ poi m'accorgo che è vero… e rinasco di nuovo.)
Ed è importante che questo percorso stellare, nato come divagazione sulle costellazioni terrestri nel territorio di Siderno, e in occasione di un Premio Poetico, si chiuda con l'immagine della nostra Stella madre, racchiusa in una poesia e in un profondo pensiero di Epitteto : “Come il sole non aspetta preghiere e lusinghe per sorgere, ma sorge spontaneamente ed è amato da tutti, così tu non attendere applausi, critiche e lodi per ben operare, ma elargisci i tuoi doni spontaneamente e, come il sole, sarai amato.”
Maria Carmela Mugnano
Ringrazio la Città di Siderno e l'Associazione Culturale Volo, nella persona del Presidente avv. Giuseppe Caruso, che mi hanno fornito l'ispirazione per questa passeggiata ad sidera, nel corso della quale il mio sentito grazie va agli architetti Rosalba Romeo e Alessandro Amato, al poeta Martino Ricupero, ai rappresentanti della Confraternita della Madonna dell'Arco, sigg. Antonio Guttà e Angelo Massara, al Parroco della Chiesa Matrice di S. Nicola, don Giuseppe Alfano, e ai contributi dell'avvocato Domenico Romeo e della Presidentessa del Sidus Club di Siderno, sig.a Albarosa Dolfin.
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Presidente Bardi, il grido di allarme di un imprenditore metalmeccanico, 50 anni di attività, oltre 20 dipendenti (ma abbiamo avuto anche punte di trenta ed anche più), non può continuare a rimanere soffocato e senza risposte pratiche. La situazione di grave crisi del settore artigianale in particolare che la sinistra ha determinato in circa trent'anni di potere ininterrotto è preoccupante; molto spesso incontriamo povertà anche in altri settori delle attività produttive, in agricoltura, nel commercio, nell'industria, tra le partite iva in generale, nonostante la nostra sia una regione ricca di risorse monumentali, paesaggistiche ed ambientali, agricole e forestali, immensi giacimenti petroliferi. Ebbene questi valori economici non hanno determinato ricchezza ma stranamente povertà, anche perché i nostri giovani sono andati quasi tutti via. Quali cambiamenti sono stati introdotti ora con questo nuovo governo regionale? Quali politiche per evitare che i nostri giovani continuino ancora ad andare via?
Solo accuse? No, anche proposte.
Una legge sull'apprendistato nelle attività artigianali e commerciali darebbe un mestiere e concrete possibilità lavorative: tre anni di apprendistato, con una spesa mensile a carico dell'imprenditore di non più di 500 euro ed oneri contributivi sostenuti dalla Regione darebbe fiato alle attività economiche, riattivazione di arti e mestieri, formidabile incremento occupazionale.
Eliminiamo gli appalti al massimo ribasso, ritorniamo alla media mediana, affidiamo le responsabilità di controllo di lavoro, di progetto e di collaudo con compiti precisi e rigorosi e con sanzioni severissime per furbi e per corrotti.
Per lavori di grossa entità sul territorio regionale conviene spezzettare i progetti per favorire le imprese locali, queste sì che non tradiscono il mandato perché sono radicate sul territorio e facilmente controllabili anche dalle forze dell'ordine, anche per evitare che lavori importanti vengano lasciati interrotti per anni.
Facciamo in modo che le nostre città ed i nostri paesi siano attrattivi, gradevoli, che vi sia capacità ricettiva verso i flussi turistici mediante corsi formativi veramente tali aperti al grande pubblico anche diffusi dai social, cioè un grande sforzo educativo della nostra gente e dei nostri amministratori. E che le nostre strade vengano finalmente curate, provviste di segnaletica (soprattutto tracciate le strisce bianche, che consentono maggiore visibilità anche con la nebbia). Facciamo in modo che il nostro territorio sia ben governato, che le periferie dei centri non restino selvaggiamente in abbandono, che i lavoratori forestali siano controllati nel lavoro (per pulire 100 metri di cunette spesso non bastano una decina di operai per una settimana, che scandalo sotto gli occhi di tutti, viene voglia di lasciare tutto e scappare via anche dall'Italia).
Le aree di insediamento produttivo, pip e paip, vengano dotate di strade di collegamento, segnaletica ed illuminazione e non lasciate in degrado, altro spettacolo allucinante. E magari qualcuno rammenti che il pip di Rionero, nelle contrade Vesciolo, Braida, Scavoni, non ha una strada che possa dirsi tale, perché dal 1983 mai progettata. Ma dove continuate a farci vivere, voi amministratori regionali e locali, ma che diritto avete voi di continuare a tenerci in queste condizioni selvagge? O volete veramente che cominciamo a gridare ai quattro venti il nostro disprezzo?
I bandi regionali a valere sul P.S.R. (Piani di sviluppo rurale) 2014-2020 sono tanti ma c'è stata la solita lentezza nella loro preparazione ed approvazione. La data indica che si sarebbe dovuto partire dal 2014. In realtà, poiché si dovevano ancora chiudere quelli del settennio precedente (2016-2013), si sono persi oltre due anni. A parte la misura 6.1 (incentivi alla costituzione di nuove aziende agricole da parte di giovani agricoltori) partita nel Maggio 2016, tutte gli altri bandi sono partiti tra il 2017 ed il 2018. Evidentemente non ci saranno i tempi per chiuderli entro il 2020 con il rischio reale, come già in passato accaduto, di dover restituire i fondi europei inutilizzati. Il mancato rispetto dei termini di pubblicazione dei bandi, come sottolineano i tecnici, è dovuto alla eccessiva complessità e poca chiarezza per gli stessi funzionari regionali. Troppi sono i ritardi nelle risposte ai quesiti interpretativi posti dagli imprenditori e troopo lunghi sono i tempi di erogazione dei contributi. Se tutto va bene, tra la presentazione della domanda e l'erogazione del saldo finale del contributo, passano almeno due anni e questo rende lo strumento P.S.R. un ostacolo anziché un incentivo a nuovi investimenti.
Presidente, dia una sterzata alla nostra regione, leghi il suo nome a fatti importanti e rammenti: il buon nome della famiglia Bardi nella zona del Vulture continui ad essere sinonimo di cordialità, di capacità, di intraprendenza, a favore dei destini della nostra regione.
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LA SCRITTRICE TERMOLESE, AUTRICE DEL ROMANZO “L’ISOLA DI CRISTALLO”, PREMIATA PER LA SECONDA VOLTA A POTENZA IN OCCASIONE DEL MEMORIAL “TONINO SANTARSIERO”.
La forza dirompente di una donna che scrive. Che scrive appassionatamente di una terra di cui si è pienamente, e fin dal primo sguardo, innamorata. Di questa terra che per di più è la mia terra, la Lucania. Terra di luce e di boschi, terra di forze ancestrali, terra di fascino e di misteri nascosti, terra che cela dietro umili veli le sue grandi e sconosciute storie: storie destinate, per quello che sono, così come sono, a non morire mai. La forza prorompente di una donna che scrive. Una forza che ho toccato con mano. Un onore, un bel privilegio. Sono cose che non capitano tutti i giorni.
Sto scrivendo questo articolo dopo una lunghissima telefonata. Un dialogo aperto, cordiale e disinteressato, dove si è parlato di arte a tutto tondo: letteratura, poesia, teatro; ma anche ricerca culturale e demo-etnoantropologica. E sebbene la ricchezza di tutti questi dati che emergevano nel corso della nostra chiacchierata mi sorprendeva e mi conquistava a un tempo, ecco che tutte queste cose, Maria Carmela Mugnano -una scrittrice che mi piace definire da oggi in poi figlia adottiva di una “lucanità del cuore”- tutte queste cose dicevo, per un attimo, e volutamente, Maria Carmela le ha volute mettere da parte: ci ha tenuto fin da subito a precisarmi che la nostra conversazione, almeno per questa occasione che l’ha vista ancora una volta protagonista a Potenza all’interno della premiazione “Memorial Tonino Santarsiero” per la poesia “I fiori di Serenella” avrebbe assunto tra di noi quel forte ed unico connotato che l’aveva spinta a conoscere, amare e viaggiare qui in Basilicata e dunque ci teneva a dirmi che con me, lucana, avrebbe voluto parlare anzitutto della Lucania. E ho trovato tutto questo bellissimo.
Dice bene Marco Tavassi in un recente articolo su “La Pretoria” a proposito del primo incontro di Maria Carmela Mugnano con la Basilicata, quando parla dello sguardo di noi autoctoni spesso e volentieri velato di pregiudizio sulla nostra terra e sulle nostre cose, sguardo che ancora più spesso di quanto noi possiamo pensare o immaginare, ci viene sapientemente “svelato” e “illuminato” da qualche forestiero che vuoi per caso, vuoi per ragioni di lavoro, vuoi per puro piacere o per curiosità si trova per la prima volta a che fare con la nostra regione. Sono pienamente d’accordo con Marco: quante volte abbiamo avuto bisogno di un “altro” che ci aprisse un varco su quello che abbiamo, su quello che ci circonda, su quello che siamo e che possediamo e come sempre, poi, sotto i nostri occhi, improvvisamente, si è “aperto un mondo”.
Siamo ricchi e non lo sappiamo: e a volte basta la sincerità di un trasporto culturale verso il nostro territorio proprio come quello di Maria Carmela, per farci riflettere su quanta bellezza abbiamo da custodire, da tramandare, da preservare. Senza orgogli di sorta, senza miopi campanilismi, ma aprendo lo sguardo, così, tanto sapientemente quanto semplicemente, armandoci di quella “sacra curiosità” che spesso una sorta di tendenza endogena alla chiusura -quando non alla stessa disperazione- sulle piaghe e sui problemi dei nostri paesi ha contribuito ad ammorbare e a spegnere direi quasi del tutto.
Maria Carmela Mugnano ha raccontato anche a me, e lo ha fatto generosamente, del suo primo arrivo a Potenza in un giorno di pioggia di fine Ottobre del 2018 in occasione del conferimento di un premio a lei assegnato nell’ambito del Memorial “Tonino Santarsiero”, promosso dal Gruppo Creativo Rossellino per un’ altra sua poesia: “Piuma d’inverno”. Per quanto una giornata particolarmente uggiosa impedisse fisicamente di proiettare lo sguardo sulle peculiarità architettoniche del centro storico del capoluogo, Maria Carmela, con un occhio ed uno spirito pieni di curiosità e di trasporto affettivo, è riuscita a scorgere un primo “raggio di luce” che è si è poi trasfuso in maniera plateale al momento della contemplazione “quasi religiosa” (e sono parole sue) di quelle due “città presepe” che sono Pietrapertosa e Castelmezzano. Da lì e con l’aiuto di tanto materiale fornitole generosamente da amicizie nate nel contesto di questa sua prima breve permanenza in Basilicata è poi nato un primo affascinante articolo pubblicato su questo blog, dal titolo piuttosto emblematico: “Verso la Luce. Percorsi Lucani.”, articolo che a sua volta le è valso un ulteriore premio, quello del Memorial “Antonietta Rongone” a Grottole (Mt) lo scorso 28 Settembre 2019.
La scrittrice termolese non è certamente nuova a premi e riconoscimenti che da anni miete in tutta Italia. Autrice dell’acclamato romanzo “L’isola di Cristallo”(2010) di una raccolta di monologhi poetico-teatrali (“ La sorgente del Mare” del 2013) nonché di un volume in versi “A Camenànte” (2015) per non parlare di altri numerosi testi ed adattamenti per il teatro, Maria Carmela Mugnano è da sempre impegnata su vari fronti (dallo studio, promozione e conservazione delle arti letterarie in vernacolo - è membro infatti dell’ANPOSDI- Associazione Nazionale Poeti e Scrittori in Vernacolo) fino alle intense letture e documentazioni sugli aspetti antropologici del Sud. Membro dell’ACCADEMIA ALFIERI di Firenze e del CENDIC (Centro Nazionale Drammaturgia Italiana Contemporanea) la Mugnano è da sempre propensa ad incontrare appassionati di scrittura e di lettura, ma anche semplicemente gente che sappia apprezzare e comunicare la bellezza dell’arte e dell’esistere. Il viaggio è per lei strumento di approfondimento del cuore e della mente ma credo che, quando si parla del Sud, questo le sia gradito in maniera particolare. Non si spiegherebbe altrimenti questo slancio di penna verso le peculiarità antropologiche, geografiche e leggendarie della nostra regione, illustrate con accuratezza di studio nell’articolo di cui ho detto sopra: una scrittura di puro trasporto, dove un’enfasi piena, sincera eppure priva di qualsiasi retorica, potrebbe benissimo essere scambiata per “tutta lucana” a dispetto delle origini non lucane che la generano. Né si spiegherebbe la passione con cui la scrittrice stessa mi ha parlato di Maratea, la perla del Tirreno col suo Cristo vegliante - secondo solo a quello di Rio de Janeiro - di cui pure ha scritto lo scorso Maggio in occasione del congresso nazionale ANPOSDI tenutosi proprio nella Città delle Cento Chiese, e che presto vedremo pubblicato sulle pagine del nostro blog.
Ho chiesto a Maria Carmela qual è stata la causa scatenante di tanto sincero entusiasmo per la nostra regione. Ecco la sua risposta:
“Ciò che mi ha affascinato a prima vista della Lucania è stato la bellezza costitutiva di questo paesaggio insolito, nascosto, che non ti aspetti di trovare … una sorpresa fortemente impattante. E poi non posso non sottolineare quel grande e generoso senso di accoglienza che mi ha coinvolta fin dal primo momento. La somiglianza tra lucani e molisani è molto forte ed è questo un altro dei motivi per cui mi sono sentita subito a casa.”
Maria Carmela non ha smesso da quel momento di mantenere un rapporto costante, nutrito di eclettica curiosità, per l’intera Basilicata: si è ripromessa di essere presente alla prima occasione alla cerimonia del Rito Arboreo del Maggio di Accettura di cui presto vorrebbe scrivere, mentre mi parla con competenza ed estrema convinzione dell’importanza dei dialetti, di cui anch’io sono profonda sostenitrice.
“È necessario che le scuole inseriscano uno studio stabile e continuativo del dialetto come patrimonio culturale da mantenere e da salvare. C’è un messaggio da dare ai giovani, i quali oggi più che mai rischiano una seria e controproducente omologazione identitaria: il dialetto è una ‘possibilità nuova nascosta in un retaggio solo apparentemente vecchio’. Esso è la lingua di una più vasta libertà e rappresenta, come mi capita spesso di dire, ‘due ali in più per volare’ rispetto alla lingua ufficiale. Sono da sempre una grande sostenitrice del dialetto, una lingua fisica, materna…le poesie della mia raccolta “A Camenànte” mirano ad un gesto di amore, di rispetto e di conservazione dei ricordi legati al mio dialetto…ma è anche vero che nei miei viaggi cerco sempre il confronto e la vicinanza con qualche poeta o narratore locale che possa contribuire a gettare una luce in più sul mio sguardo di appassionata dei territori nella loro storia e nella loro peculiarità che passa certamente dal crocevia linguistico. Il dialetto è un vero e proprio ‘compagno di strada’ nella crescita di ognuno di noi che si identifica con quel programma di valori, configurando insieme ad essi una sorta di ‘anima primaria’. La vostra regione in tal senso vanta due bei primati: per prima cosa, esattamente come accade in Molise, possiede un microcosmo eterogeneo di dialetti, una geografia frastagliata e ricca dove in un solo paio di chilometri possono convivere tranquillamente due linguaggi (ed è proprio il caso di Pietrapertosa dove si parla un dialetto di derivazione araba, la cui confinante Castelmezzano ne parla un altro che di arabo non ha nulla o quasi); dopodiché essa ha avuto la ventura di vedere realizzato un progetto, quello del Catalogo AL.BA (Atlante Linguistico della Basilicata) in cui sono stati appunto catalogati tutti i dialetti dei vostri paesi e comunità sotto lo sguardo attento della loro genesi nelle loro diverse espressioni ed accezioni. Ideatrice di questo esaustivo e lodevole progetto è la professoressa Patrizia Del Puente dell’UNIBAS, dalle cui mani ho avuto l’onore di ricevere la targa-premio che mi ha insignito del titolo di “Poeta Federiciano 2019” nell’ambito del Concorso di Poesia “Jacopo da Lentini” tenutosi a Lagopesole (Pz) lo scorso 13 Agosto.”
Un ulteriore premio qui in Basilicata. E Maria Carmela me ne parla come di una grande soddisfazione.
“È stato credo il culmine del mio bel rapporto con la Lucania, l’epitome di un anno in mezzo a voi che definirei “magico” così come magica è la vostra terra. La poesia premiata si intitola “Ti porteremo il mirto e la Ginestra” ed è dedicata al professor Pio Fumo, poeta, eminente storico e narratore delle Isole Tremiti, esperto di archeologia, un sostenitore della mia scrittura che da sempre ha incentivato il mio amore per la penna. Ho avuto l’onore di vedere presentati da lui i miei due lavori in prosa, di cui uno (L’Isola di Cristallo) è stato oggetto di una poesia a sua firma intitolata “Vivere” e da allora ne è nato un grande rapporto di stima. Ho scritto questa poesia in suo onore dopo la sua morte avvenuta qualche anno fa, ma il testo ha una doppia valenza in quanto fa eco a Diomede, compagno di Ulisse, che dopo la guerra di Troia decide di esplorare l’Adriatico fondandovi molte città -tra le quali, secondo la leggenda, anche l’antica Venusia (Venosa)- ma che, sempre secondo la leggenda, si ferma definitivamente proprio in queste Isole e qui dopo un po' muore. I suoi compagni verranno tramutati dagli Dei in gabbiani o meglio in “Diomedee” (una specie faunistica esclusiva dell’isola) e quando ancora oggi, a sera, sulle isole, si ode il canto accorato di questi uccelli, si dice che questo canto altro sia se non il canto funebre che i ‘gabbiani- compagni’ dedicano al loro re scomparso. “
“Ti porteremo il mirto e la ginestra” che ci ripota, come del resto in molte delle composizioni poetiche della Mugnano, verso atmosfere classiche, pullula di incisivi e suadenti richiami ad una natura silenziosa, abbagliante e mistica, immensa, sconfinata e misteriosa come il mare e ci porta in cima ad alture tanto fisiche quanto simboliche da dove poter contemplare, insieme agli effluvi profumati delle cose che furono, il fascino indistruttibile delle celesti eternità.
Non è un caso se l’arte in versi di Maria Carmela spesso ama soffermarsi sull’incanto della natura e del paesaggio: e se è vero che il mare è da sempre per lei un’irresistibile, profondo ed ancestrale richiamo, credo altresì che i climi, i colori e le sfumature incontrastate dei boschi, della montagna, dei campi, tipici della nostra regione, lo siano in maniera ugualmente vasta. Ed è per questo che, colpita dal racconto di Pasquale Tucciariello: “Il Fosso della Signora”, non solo ne scrive, lo scorso 15 Luglio, un notevolissimo commento (“Una discesa nel fosso della Signora” presente anch’esso nelle pagine del nostro sito, è a mio dire una perla tra i commenti lasciati in occasione della pubblicazione e presentazione del racconto di Tucciariello) ma si spinge anche oltre, producendo ancora una volta , e generosamente, un lavoro poetico di indiscussa forza ispirativa che torna ad essere premiato una seconda volta -come a chiudere un cerchio e a suggellare un nuovo ritorno nei luoghi amati- proprio dal Gruppo Creativo Rossellino e per di più appunto nel medesimo Concorso, il Memorial “ Tonino Santarsiero”.
La poesia in questione, “I fiori di Serenella” premiata, come già accennato all’inizio, a Potenza nel corso di una cerimonia presso il Salone “C. Paternoster”, lo scorso 20 ottobre 2019 è un omaggio al Vulture, a Rionero e ad una delle sue leggende più conosciute ed emblematiche, quella appunto della “Signora del Fosso”.
Alla domanda su quali siano stati i sentimenti e i valori che hanno animato questo lavoro in versi successivo alla lettura del racconto di Pasquale Tucciariello, Maria Carmela non ha esitato a rispondermi con profondo calore e con altrettanta schiettezza d’animo:
“Il tema del Concorso di quest’anno era l’Amicizia, per cui ho cercato di rappresentare in versi il rapporto e il sentimento di quell’amicizia elettiva e direi istintiva, non proclamata, non detta ma intensamente vissuta, che intercorre tra la Signora e la spigolatrice Serenella. Le due donne, l’una in carne ed ossa, l’altra ormai anima che la leggenda rionerese vuole perennemente vagante nel luogo stesso della sua morte, si incontrano tacitamente presso il cosiddetto “fosso” e senza troppe parole, anzi nel silenzio più assoluto tra mistero e apparizione e con la forza di un singolo sguardo, si eleggono e si scelgono nell’amicizia reciproca, perché simili nella loro condizione di trovatelle.”
Il fosso che, da luogo fisico, la penna di Maria Carmela Mugnano trasforma in luogo simbolico del cuore, diventa un “baratro fosco” da cui si dipanano il lamento e la disperazione dell’abbandono amoroso da parte della Signora: il potere salvifico dell’amicizia però riesce ancora una volta a “riparare” e dare conforto e così Serenella, nel suo slancio amichevole ed affettuoso, produce il gesto redentore, l’omaggio dei “fiori dell’amicizia” che gettati nel cuore del burrone (o nel burrone del cuore) da cui fuoriesce il lamento del fantasma abbandonato, si trasformano essi stessi in altrettanti messaggi d’amore suppletivo, balsamo e medicina per le profonde ferite dell’umiliazione.
“Una brezza gentile scende a recare i fiori alla Signora…
Non si ode più il lamento, la donna li raccoglie
E asciuga il pianto dal suo viso: una giovane trovatella
Ha condiviso il suo dolore…non è sola.
La vita ritorna…e allora vola sul suo cavallo
Fuori dal burrone, bacia i fiori e,
Con emozione e gratitudine in petto
Li lancia alla ragazza con reciproco affetto. “
Credo si tratti di versi che non abbiano bisogno di ulteriori commenti: solo un legame fortemente voluto, ricercato, intessuto finemente e fortemente amato con la nostra terra ha potuto produrre “fiori letterari” di questo genere.
Maria Carmela, dietro un franco sorriso che riesco ad intravedere benissimo al di là del muro virtuale della comunicazione telefonica, mi ringrazia e mi ripete ancora una volta di non sentirsi affatto un personaggio da intervista, bensì una persona come le altre che ama la scrittura a tutto tondo, in tutte le sue sfaccettature.
La sua continua ricerca nell’arte dello scrivere deriva semplicemente, come lei stessa mi accenna, dalla corsa incontro a quell’ideale che lei chiama semplicemente: “Semina”.
“Scrivo per pura passione e per questo ho sacrificato molto della mia vita personale. Scrivo per seminare. Seminare attraverso la parola, per poi ritrovare qualcosa dentro l’animo di chi mi legge che altro non è se non la pianta della comprensione e della similitudine. Entrare nell’animo di un mio simile, incontrarlo e sentirlo alla fine ‘veramente simile’. Al di là di premi e riconoscimenti, è questa la mia più grande soddisfazione.”
Comprensione. Ricerca del proprio simile. Proprio come accade tra la Signora e Serenella.
Perché i messaggi della scrittura restano infondo i fiori più belli. Quelli maggiormente profumati, quelli atti a creare la comunicazione per eccellenza da cui possono poi scaturire incontri, stime reciproche ed amicizie. I semi che lo scrittore consapevolmente - e a volte anche inconsapevolmente- sparge, sono destinati a diventare infiorescenze che più di tutte le altre, riuscendo talvolta a colmare vuoti, ad arginare ferite, negatività, deviazioni di percorso dell’esistenza, riescono a rispondere agli interrogativi, aiutandoci nel cammino, fino, perché no, a penetrare talvolta nel baratro stesso delle nostre personali storie, per poi finire -nell’incontro con i nostri simili- col far ritrovare e far rinascere nuovamente noi stessi. E credo che alla fine Maria Carmela Mugnano sia riuscita in tutti questi anni di scrittura a raggiungere proprio questo obbiettivo: essere una “Seminatrice della bella parola”.
Una parola che noi lucani siamo orgogliosi, a partire da oggi, di aver ascoltato, fatto nostra e preso definitivamente in adozione.
ANGELA DE NICOLA
(Centro Studi Leone XIII)
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Giunge a conclusione l’edizione 2019 per il memorial letterario intitolato “Antonietta Rongone”, la cui cerimonia di premiazione si terrà stasera a partire dalle ore 17, presso il Centro “Gerardo Guerrieri” a Grottole. Il tema centrale delle opere che saranno premiate in questa III edizione riguarda “Storie di emigrazione di immigrazione”.
La manifestazione, fondata e finanziata da Enzo Giase, ha ricevuto il patrocinio del Comune di Grottole, CISL di Basilicata, Sicomoro soc. coop. soc., Garante Regionale dell’infanzia e dell’Adolescenza di Basilicata, Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Basilicata, INAS, Caritas Diocesana di Matera – Irsina, Fondazione Migrantes e Istituto Comprensivo Scolastico “don Donato Gallucci”.
Le opere in concorso per le tre sezioni sono state valutate da un’esperta e qualificata giuria, composta dai docenti Luigi Serra, Aldo Corcella, Maria Lucia Nolè, Nicola Montesano, Donato Verrastro, Mauro Vincenzo Fontana, Michele Lacetera ed Enza Lacetera. Per la sezione A, il cui tema coincide con quello della manifestazione, saranno premiate le opere di Michele Colucci, Ruggero Pegna e Renzo Maria Grosselli, mentre altre segnalazioni e premi speciali saranno conferiti a Rocco Vitacca, Eugenio Marino, Romeo Pignat e Benyamin Somay.
Gli studi e le ricerche sulla Basilicata, cui viene annualmente dedicata la sezione B, vedranno tra i premiati Italia Manolio, Mirta Emanuela Pastore e Maria Carmela Mugnano. La sezione C vedrà invece salire sul podio gli alunni delle scuola media di Grottole, con componimenti poetici dialettali dedicati al piccolo centro della collina materana che ospita la manifestazione.
fonte: http://www.genteditalia.org/2019/09/28/stasera-la-premiazione-a-grottole-del-memorial-rongone/
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VERSO LA LUCE - PERCORSI LUCANI è stata premiata il 28/09/2019 in occasione del III Memorial Letterario "Antonietta Rongone". Nello stesso giorno Maria Carmela Mugnano è stata premiata al XVIII Concorso Nazionale di poesia e narrativa "V. Alfieri"
Congratulazioni a Maria Carmela Mugnano!
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Tempo fa mi è stato messo tra le mani un libro che difficilmente per mia iniziativa, lo confesso candidamente, avrei mai pensato di leggere. Leggendolo però ci ho preso gusto e da questa lettura ho tratto poi non poco giovamento, avendo per un lungo periodo del notevole materiale a disposizione su cui riflettere, materiale che alla luce degli ultimi eventi politici italiani (parlo della recentissima crisi di governo che ha dato vita all’esecutivo poi ribattezzato “Conte bis”) si è rivelato direi molto utile, andando ad incidere in maniera trasversale e dunque non necessariamente “politica” sul mio personale concetto di che cosa sia e che cosa rappresenti oggettivamente ed ontologicamente la figura del “LEADER”.
Il libro in questione ha per titolo: “Moralità, Legalità, Socialità per una progettualità formativa” e a scriverlo è il professor Giacomo Martielli, docente associato di Psicologia dello Sviluppo presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bari “Aldo Moro”, nonché docente inviato presso l’Istituto Teologico “Reginae Apuliae” di Molfetta (Ba).
Un libro che se non ci parla direttamente della figura del leader, invita per molti versi a pensarne ad una corretta analisi ed “esegesi” ontologica.
Un assunto particolarmente “stuzzicante” ma altrettanto veritiero è quello su cui il prof. Martielli fonda in realtà la struttura dell’intero suo libro: la crisi sociale della speranza. Sembrerà strano, ma Martielli parte proprio da qui per affrontare successivamente, nel corso dell’intero consumarsi delle pagine del suo lavoro, i termini di una questione politica, etica e sociale “con e senza senso di speranza comunitaria”.
Crisi sociale della speranza dunque. Ovvero: posto che la speranza oggi possa ancora conciliarsi con il verbo “fare politica”, la domanda fondamentale è la seguente: può o meno la perdita del senso politico di una comunità, di una Nazione, coincidere con la perdita stessa di una speranza comunitaria, di una speranza sociale?
Primo Levi diceva: “La maggior forza di un uomo ad ogni età è che gli si dia una speranza”. E questo, io credo, è un assunto che può valere allo stesso modo per un’intera comunità. In un mondo in cui sembra si stia pericolosamente abdicando in maniera -sia conscia che inconscia- all’uso democratico del potere (delegandone l’esercizio a persone le quali più che rispecchiare e richiamare intrinsecamente valori di democrazia, fanno coincidere una presunta “arte del servizio” con la capacità subdola del perenne “disservizio” o dell’“anti-servizio” se così si può dire) la parola “speranza” diventa molto più che una semplice urgenza. Ma speranza di cosa? Di un nuovo cambiamento, di nuovi inizi, di nuove svolte? Certamente a questo tipo di speranze, sembra dire Martielli, siamo già stati più o meno naturalmente abituati nel corso della storia umana e non ne siamo pertanto digiuni, nutrendoci quotidianamente di discorsi più o meno formali allorquando si parla di nuova giustizia, di nuova etica, di nuova politica appunto.
Ma il pericolo reale, dice Martielli, risiede proprio nella genericità e nell’appiattimento di un tale discorso, di una siffatta urgenza. “Urgenza non urgente” direi io, che rischia appunto di trasformarsi in fenomeno qualunquistico, pericolosamente delegante, portato a generare ciclicamente, continuamente, un diffuso malessere sociale, fervido nell’humus stesso di un certo distacco se non addirittura di una latente ignoranza: è questo, in altre parole, il fenomeno del malessere, del disamore, quando non dell’odio stesso della società nei confronti della politica, una politica che per una sorta di forza centripeta uguale e contraria, finisce per allontanare se stessa dal cittadino, non solo perché chiusa negli antri dei “Palazzi” ma perché “inaccessibile” nei suoi stessi codici di decifrazione e di azione etico-comportamentale.
Perché sempre più violenza verbale nei discorsi politici e nei dibattiti etici? Perché la necessità dell’apparire massicciamente sugli schermi televisivi, colonizzando la stampa o i canali dell’odierna comunicazione mass- mediatica senza considerare quasi più la necessità del silenzioso ma incisivo lavoro di formazione che un candidato politico deve compiere perennemente, restando molto più tempo nel retroscena che “sulla scena”? E ancora: perché ogni sorta di abitudine all’imbroglio e alle forme scandalistiche di gestione delle pubbliche istituzioni, delle infrastrutture, dei servizi da parte dell’intera compagine strutturale sociopolitica? Perché, aggiungerei, la piaga del clientelismo?
Il decadimento morale e lo sfaldamento delle regole etiche sono arrivati ad un punto tale che l’onestà e l’ordinario sono visti ormai come fatti straordinari e non viceversa. E la società stessa, appunto, si limita, difronte a questo andamento endemico delle cose, a gridare vuotamente e qualunquisticamente allo scandalo, mentre il punto è e resta uno solo: esistono proposte attive per arginare l’enorme decadimento di valori che partendo dalla politica arriva ad investire l’intera società nelle sue pieghe più capillari? Esiste la possibilità, altrimenti detto, di restaurare nella società, nella politica e nell’etica una nuova frontiera della speranza?
Scrive testualmente Martielli: “[Oggi]…la riflessione è fondata sui messaggi veicolati dai mass-media. Quei messaggi, infatti, funzionano prevalentemente per scopi economici e veicolano la cultura del piacere e dell’egoismo, dello sfruttamento e della compensazione. Implicitamente, ma anche in modo sottile e potente, fanno credere che non esistono persone moralmente mature: è una favola il modello di uomo che, all’insegna dell’amore, spende la sua vita per gli altri.” (cfr.pag.131)
Ma l’invito che si scorge nelle pagine del libro è esattamente quello di abbandonare la disperazione che una tale “favola” sia finita. L’invito è quello di riprendere in mano le redini di una nuova speranza sociale.
Speranza di cosa, allora, precisamente? Non può esistere speranza di una nuova politica e di una nuova società, secondo Martielli - e nessuno può contravvenire a questo principio- se prima non esiste speranza e dunque dispendio di energie in una nuova epoca e in un nuovo concetto di FORMAZIONE per una nuova società. E la vera formazione per definizione è la formazione di tipo permanente. Ed è naturalmente in quest’alveo che nasce e si sviluppa, la figura del vero leader.
Una nuova cultura della formazione a partire da zero è possibile e può investire tutti i gradi e i modi dell’apprendimento umano. E non si tratta, si badi bene, solo di instaurazione/instillazione formativa o informativa di concetti, bensì di un nuovo modo di concepire e di strutturare la formazione.
La vera formazione, per avere in se’ stessa caratteristiche di novità e di incisività, sarà per sua stessa definizione, antitetica all’egoismo, alla chiusura interiore. Essa si aprirà per forza di cose all’altro, al connubio sociale. Di questo cemento formativo entro cui deve impastarsi la mente del bambino fin dalla più tenera età (a partire dallo stadio familiare e prescolare) si forma la costruzione societaria che si salda verosimilmente su un collante etico animato dal più vivo senso di legalità, una legalità e un’etica che diventano appunto coinvolgenti nella misura in cui vengono concepite dalle singole persone non più come un punto di arrivo di “maestri” che tramandano ad ipotetici “apprendisti” ma come percorso comunitario fatto di interscambio dove “tutti comunicano qualcosa a tutti” a partire da collaudate basi di “tradizione” e di “passaggio”.
Poiché (e cito testualmente) “È possibile […] verificare la maturità di un bambino in quanto bambino, di un fanciullo in quanto fanciullo, di un adolescente in quanto adolescente e così via.” allora ecco che: “Sul piano della realtà educativa si collocano tutti, dalla nascita alla morte. Ciascuno per il fatto stesso di esistere, con il proprio modo di essere e per tutta la vita, influenza il comportamento di coloro con i quali è in rapporto.”
E poiché, aggiungerei io, siamo tutti in un modo o nell’altro “connessi” creando oggi rapporti reali, virtuali e potenziali, sentiamoci tutti educati, educandi e responsabili gli uni degli altri. Sentiamoci responsabili dei messaggi che siamo o meno in grado di lasciare. Se abbiano essi potere reale o subliminale, se parlino o meno alla testa o alla pancia, se si nutrano di formule troppo dirette e poco profonde o chiare e soprattutto se rivelino o meno, specie in ambito politico, una vera progettualità che sottenda le “parole”. E se è vero, come afferma lo stesso Martielli, che nessuno è mai stato estraneo all’atto educativo pur non essendo educatore di professione, è altrettanto vero che in questo rapporto educativo-comunicativo che politicamente può fondare un’etica e dunque un’intera società, in questo rapporto che come minimo implica una relazione duale (ma che come si può intuire allarga il suo raggio d’azione a dismisura) si costruisce anzitutto il concetto che il singolo ha della società, con gli annessi vincoli mentali e pratici (spesso e volentieri autoimposti) per un’azione politica partecipativa della stessa.
Normalmente è in età adulta che ci si avvicina o si prendono le distanze da un rapporto educativo, dalle fonti stesse dell’educazione e della formazione, accentuandone o meno il senso di accettazione o di presa di coscienza più o meno critica. Tutto questo è tanto più possibile quanto più il soggetto educatore, consciamente o inconsciamente, agisce sul soggetto educando. In un’azione formativa e comunicativa anche duale, ed è un esempio, a mezzo - facciamo - televisivo, si può arrivare persino a plagiare l’ascoltatore. Ed è qui direi che si gioca un’importante partita, poiché se una formazione permanente ben strutturata è in grado di liberare la coscienza critica del singolo, non esiste pericolo di plagio alcuno, né personale, né tantomeno comunitario, né con l’uso di formule, né di slogan, né di parole giustapposte, né di simboli, né di codici extra-verbali (e qui parlo più per reminiscenze da Roland Barthes che da ricordi della lettura di questo libro).
Un vero leader dunque, figlio di una formazione educativa permanente, non si pone, dice Martielli, come personalità autoritaria, né come soggetto remissivo e soggiacente in maniera acritica agli svariati impulsi della vita, ma piuttosto come portatore di una tendenza collaborativa e comunitariamente condivisa e per questo stesso autolegittimantesi. La democrazia non passa attraverso nessun atteggiamento autocratico e in nessuna atmosfera autocratica, né tantomeno attraverso nessun leader permissivo in un’atmosfera permissiva, bensì attraverso personalità democratiche che conoscono la democrazia in un’atmosfera democratica che conosce ed ama le istituzioni che la formano e che ne sono alla base. (rif testo pag 167 e ssg)
Se oggi ci si trova di fronte a risultati ripetutamente deludenti e fortemente fallimentari, non solo in politica ma anche e soprattutto in società e nel campo stesso dell’etica è perché, dice ancora l’autore, si ha a che fare con una irreversibile e a lungo andare potenzialmente pericolosa “questione di emergenza”. Oggi si lavora solo per “riparare”, ed è anche giusto e lecito alla fine. Ma si finisce con l’essere sempre in emergenza appunto. Emergenza politica, emergenza sociale, emergenza etica. Contemporaneamente alla gestione delle suddette emergenze, si dovrebbe in realtà aggiungere dell’altro, cominciando ad andare un po’ oltre. Si dovrebbe, insomma, “lavorare per progettare e per sperare” gettando semi a lunga scadenza.
L’educazione permanente dovrebbe rientrare in quest’ottica, divenendo così protagonista dell’etica, della politica e della società, facendosi garante di un diffuso senso di legalità. Se nell’idea di un progetto a lungo termine, cioè, il “formatore” saprà formare con l’intero suo modo di essere, allora anche un probabile “leader” che verrà fuori da questo progetto educativo avrà le caratteristiche del suo “maestro”, caratteristiche che parleranno da sole con l’intero atteggiamento di una vita, senza le pesanti, scomode e nocive necessità di un mettere e dismettere i “panni” di un determinato ruolo sociale ( ad esempio quello del politico) per poi tornare a casa e “razzolare male “ o come si dice “farsi i fatti propri” o senza la necessità, detto ancora in altri termini, di nutrire la propria persona di “reazioni da social” alla propria immagine e senza infine la necessità di “perenni e subliminali campagne elettorali anche in tempo di pace”.
Risuonano più che mai oggi, e proprio in ambito sociopolitico, le parole di Papa Paolo VI: “In quest’epoca abbiamo bisogno non tanto di maestri, quanto piuttosto di testimoni credibili, che in quanto tali sono maestri.”
Ed è vero: testimoni che rivelino amore per la patria, non per gli slogan vincifacile; “maestri” che testimonino un percorso di lunga, aperta, “non finita” formazione, uomini di accuratissimo studio, che non si considerino arrivati ma “in arrivo e in tempo” con l’andamento storico, culturale, etico e sociale. “Leader naturali che non si autoproclamino come tali”, aggiungerei io, che non avanzino sgomitando con arroganza nei corridoi del potere ma che pure sappiano farsi strada, se occorre, in momenti delicati e difficili. Garanti della nostra Costituzione ma anche dei valori etici, morali e cristiani di cui un Paese come il nostro si nutre da secoli; forti infine, di un ruolo statutario che la Nazione ha diritto di reclamare e non di elemosinare al resto dell’Europa e del mondo: artefici, pertanto, di una relazione comunicativa che non potrà mai essere né strumentale né finalizzata a manipolare l’altro attraverso idee o azioni maldestramente e superficialmente imposte e dunque consciamente o inconsciamente contrarie allo sviluppo dell’intera società. Non modellatori ma modelli, io credo. Persone, direi, che sappiano palesare - in una relazione educativa normativamente “aperta” col destinatario - non tanto la volontà ripetitiva (pur necessaria, attenzione) di questo o quel topos etico/ politico/ sociale più o meno digerito o assimilato, quanto invece la sperimentazione coraggiosa dello stesso in una sorta di “evoluzione del nuovo nel rispetto del vecchio” e questo attraverso una grande modalità di “immedesimazione nell’altro” che faccia cioè del cosiddetto “mettersi nei panni altrui” il punto di partenza dell’atto educativo-comunicativo.
In questo libro, dunque a mio parere, sembra sia veramente possibile scorgere in filigrana la cronaca profonda della nascita di un “vero leader”. O per meglio dire di una guida. Guida che nasce in un clima di discepolato e di discernimento di tipo, come ho già detto e come si evince dal testo, “aperto”, in un clima cioè rispettoso tanto della fonte educativa, quanto del canale di destinazione della stessa. Un leader che sarà altresì “amorevole” e rispettoso nei confronti delle successive azioni educative da trasmettere alle generazioni future o a chiunque nel proprio contesto temporale abbia un desiderio profondo di connessione libertaria ed egualitaria con esso. Perché il leader sia servitore e nasca per il servizio. Perché l’altro sia sempre visto come possibilità nascente, come fonte di partecipazione, come cartina tornasole per un aspetto veramente dinamico e non assolutistico della relazione umana ed in particolare sociopolitica. Ed è in questa finissima modalità atta a recuperare aspetti di somiglianza e di differenza al tempo stesso, nella più completa reciprocità umana che distingue e unisce al tempo stesso le singole identità , che nasce, insomma, la vera dimensione sociale, il vero dialogo politico e il pieno risultato etico: dimensioni che non corrono spregiudicatamente verso un vuoto sperimentalismo ma che, al contrario, si autolegittimano e si auto-fondano in un originario patrimonio comune di cultura e di valori.
Se ancora non si è capito, insomma, come facilmente si evince dal testo del prof Martielli, la figura del vero leader/guida e quella del vero formatore dovrebbero spesso e volentieri coincidere: superate le barriere nominali, intenzionali affettive ed effettive dell’essere maestro o discente, una vera guida dovrebbe possedere tutte le caratteristiche atte a fare di se stesso una persona di grande equilibrio identitario, priva di confusione su ciò che egli è o rappresenta, una persona che non si sopravvaluta né si sottovaluta, che non ambisce al mero comando né considera l’altro come sottoposto o inferiore, bensì come semplice “compagno di percorso”, una persona che ha cura della storia/tradizione dalla quale la comunità/società proviene e che con forte spirito di generativismo ha a cuore la cura e il futuro delle nuove generazioni. Si tratta, detto ancora altrimenti, di una persona che vive appunto di un vero e proprio profondo spirito di servizio … la cosiddetta “ persona della favola accanto” se così la possiamo definire, che si nutre degli intramontabili valori di solidarietà che sono ancora il cuore e il nocciolo dell’intero concetto di democrazia/filantropia, un leader infine che esercita il suo ruolo-guida per far crescere e crescere ad un tempo. (rif. pag 66 del testo)
La questione morale che resta alla base dell’atto educativo come nucleo di partenza della leadership è questione intrinseca ad un atto di discernimento fortemente naturale e direi presente fin dagli albori del comportamento umano (e fin dalla fanciullezza del singolo). E se le stratificazioni dell’etica e della morale hanno fatto la storia, percorrendo un dato cammino ricco di traguardi e di significati, è bene che tale storia venga naturalmente tenuta in considerazione e tramandata, condivisa: sarà pertanto un atto del tutto naturale e spontaneo per l’educatore-leader vivere, interiorizzare e dare credibilità della questione morale in tutto il suo essere. Allorquando però (e questo è fondamentale e serve per fare ancora e meglio la storia) l’ordine ideale delle cose morali slitti verso un potenziale fuorviante o di effettivo pericolo del tragitto storico fino a quel momento percorso, la guida sarà immediatamente chiamata ad attivare la propria coscienza in senso -se necessario- anche svincolante e postconvenzionale (termine usato espressamente da Martielli) rispetto all’andamento comune, al preponderante pensiero sociale, al “grido di moda” del momento : ed è così che si manifesta pienamente quella grande autonomia di giudizio che distingue una guida dal resto del gruppo sociale cui appartiene e ne propone naturalmente la sua emersione e sviluppo. Una tale coscienza postconvenzionale spesso e volentieri serve da faro nei tornanti più pericolosi della storia umana e ne scrive, senza dubbio le pagine migliori. (rif pag 125,126 del testo)
Un vero e proprio “senso di sconforto” scrive Martielli, può emergere se si pensa che la maggior parte delle persone in età adulta si ferma ad una “fase convenzionale” e non come si è detto postconvenzionale nell’accettazione del sentimento comune in quanto a pensiero sociale, politico e forse anche etico e morale, mentre l’urgenza storica del momento ci chiama all’instaurazione di una vera e profonda riforma educativa che metta in moto coscienze capaci il più possibile di un sentimento postconvenzionale.
Già nel 1991 con una nota della CEI “Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese.” cui l’autore dedica un intero capitolo del suo libro, la Chiesa invitava preoccupata le istituzioni a mettersi in prima linea contro lo sfaldamento del senso della legalità nelle singole coscienze, denunciando “una carenza educativa in rapporto non solo alla formazione sociale ma anche alla stessa formazione personale” aggiungendo immediatamente quanto fosse grande la necessità “di far emergere nell’opera educativa in modo vigoroso la dignità e la centralità della persona umana, l’importanza del suo agire, in libertà e responsabilità, il suo vivere nella solidarietà e nella legalità”. In particolare, si evince come la nota invitava ad evitare con ogni mezzo l’assuefazione della società italiana alla cultura della piccola così come della grande criminalità ma anche della cosiddetta “criminalità dei colletti bianchi” laddove l’inutilità di certi proclami istituzionali stride ancora di più contro l’evidenza, alimentando un costante e frustrante senso di rassegnazione nelle coscienze dei singoli (cfr pag 152). Un necessario ed urgente passaggio “dalla cultura dell’indifferenza a quella della differenza” passa anche secondo la nota della CEI, scrive Martielli, attraverso una grande riforma strutturale dei canali della formazione ad ogni livello che prima ancora che dare come risultato un diverso modo di porsi dello Stato di fronte ai grandi valori dell’esistenza, otterrà attenzione e partecipazione del singolo alla coscienza nazionale del proprio Paese.
Esiste dunque un sogno. È lecito riprendere in mano questa speranza: la riscoperta del valore di un leader che smascheri nel suo stesso modo di essere l’antinomia del suo stesso nome, una guida che prima ancora di nascere nell’alveo del rispetto istituzionale e democratico, tradisca in senso buono l’alveo di una nuova cultura formativa, non delegante ma solidale e partecipativa, risultato di una cultura del connubio sociale di uguali differenze. Si tratta di un sogno che non può e non deve rimanere sogno ma diventare progetto. La consapevolezza della vastità e della lunghezza di un tale cammino non scoraggi il primo passo, passo che tutti (ognuno a suo titolo, secondo i propri principi e secondo le proprie capacità) dovranno compiere in connessione con l’altro, portando cura ed attenzione a se’ stesso e all’altro. La certezza che i frutti non matureranno nell’immediato ma a lungo termine, alimenti comunque la forza dinamica di un lavoro sì a lunga scadenza, ma affascinante proprio per chi getta le basi del suo inizio.
La partecipazione è un atteggiamento psicologico che va aiutato nei tempi e nei modi di ciascuno, da ciascuno e per ciascuno, elaborando e codificando obiettivi comuni e regole che saranno accettate proprio perché condivise e discusse. L’attitudine alla partecipazione dunque, pur non richiedendo che tutti facciano gli amministratori o i parlamentari (perché le competenze in merito non si improvvisano) ottiene sicuramente a lungo andare e a lungo termine il risultato di un “modus vivendi” fatto di responsabilità verso la cosa pubblica, sentita finalmente, a causa di un corretto e perenne atto formativo, come parte integrante del singolo, come bisogno-dovere di ognuno, come “tensione necessaria a conquistare un’agognata autonomia morale e di giudizio nei confronti della quotidianità”. (cfr pag 252)
Se la formazione permanente raggiungerà a mio parere l’obiettivo della nascita non di un solo leader, non di pochi leader, ma di quanti più leaders e guide possibili all’interno della nostra società, il risultato più immediato, naturale ed evidente, sarà proprio quello dell’abbandono delle cosiddette “nicchie”, che siano esse di potere, culturali, individuali e comportamentali.
Avremo in sostanza, e lo dico con Martielli, meno egocentrismo, maggiori ampliamenti di orizzonte e massimo decentramento del sé a partire dai rapporti umani per finire a quelli sociopolitici ed etico morali, con l’intrinseco risultato del piacere nel rispetto delle regole e delle istituzioni, del piacere del lavoro, del piacere del servizio e della costruzione della POLIS: una polis dove il valore umanità e il valore vita resteranno per sempre pilastri indiscutibili e fondanti del progresso.
Per non giungere a dire “ormai è troppo tardi”, per non arrivare ad un punto di non ritorno, bisogna, ognuno a suo modo e con i propri strumenti, agire subito, senza indugio, muovendo anche solo piccoli iniziali passi. Questo consentirà anzitutto di guardarsi intorno ed iniziare ad andare oltre muri, reticenze, paure, inibizioni e freni per poi giungere alle prime consapevolezze di un lento ma solido e duraturo procedere che non sarà certo semplice ma che certamente sarà entusiasmante e che iniziando a far compiere a ciascuno i propri piccoli passi, ottenga le prime necessarie prese di coscienza comune atte quantomeno ad evitare tutti i lampanti errori e le improvvisazioni di ogni genere che hanno finora danneggiato la società la politica e l’etica.
“Scegliere di operare in tal senso” scrive Martielli a conclusione del suo libro “significa riscoprire la speranza, star bene con se’ stessi e con gli altri e contribuire a migliorare la qualità di vita delle comunità di appartenenza”.
Scegliere di far ripartire la speranza significa diventare tutti, ognuno nella sua misura “uomini e donne del sogno accanto”.
ANGELA DE NICOLA
Centro Studi Leone XIII
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La “Rerum Novarum”, promulgata da papa Leone XIII il 15 maggio 1891, è considerata dagli storici la “Magna Charta” della dottrina sociale cristiana e, come tale, merita una speciale attenzione da parte di chiunque – cattolico o no, credente o non credente – voglia capire la storia mondiale degli ultimi 150 anni; anche se, fino agli intorno al 1968 era di moda leggere e discutere solo il “Manifesto del Partito Comunista” di Marx ed Engels, le opere di Lenin e Stalin, il “Libretto Rosso” di Mao Tze-Tung, i discorsi di Fidel Castro e i diari di Ernesto Che Guevara. L’enciclica giunse in forma relativamente tempestiva rispetto alla situazione sociale italiana, ove il processo di industrializzazione, e la conseguente insorgenza della questione operaia, erano stati fenomeni recenti, ma non certo rispetto alla situazione di altri Paesi cattolici, quali la Francia e il Belgio, o parzialmente cattolici, quali la Germania e gli stati Uniti, dove esisteva da decenni una moderna classe operaia e nei quali già si erano mossi alcuni esponenti del mondo cattolico, sia laici che sacerdoti, per dare vita a forme di associazionismo non solo di tipo morale e religioso, ma altresì culturale, economico e sociale. Ciò aveva significato, per i cattolici, confrontarsi con la realtà del mondo moderno: quel mondo moderno che il “Sillabo” di papa Pio IX aveva accomunato in un’unica condanna, dal liberalismo al socialismo, al comunismo, senza sfumature e senza distinzioni; e, soprattutto, senza soffermarsi a riflettere sulle radici sociali del malessere che aveva allontanato tante persone dagli insegnamenti della Chiesa e dalle pratiche della religione cristiano-cattolica. Certo, in Italia i rapporti fra stato e Chiesa erano particolarmente delicati perché, dopo la presa di Roma del 1870 da parte dell’esercito italiano, Pio IX si era chiuso in uno sdegnoso isolamento, atteggiandosi quasi ad ostaggio del nuovo Stato nazionale, del quale non riconosceva la legittimità e contro il quale aveva preso posizione, fin dal 1868, con il famoso documento “Non expedit (Non conviene), nel quale si esortavano i fedeli a non partecipare alle elezioni politiche del Regno Sabaudo e a non partecipare quindi alla vita politica nazionale. Il fatto che tale documento preceda la breccia di Porta Pia si spiega col fatto che, se la presa a viva forza della capitale nel 1870 – già il governo Cavour si era espresso sulla necessità che Roma fosse la capitale del Regno d’Italia e ne aveva gettato le basi - era stata il trauma definitivo nelle relazioni fra Stato e Chiesa. Infatti, almeno fin dalle leggi Siccardi del 1850, esisteva un contenzioso che, pur proseguendo conflitti di antica tradizione politica italiana ed europea, presentava caratteri di novità, essendo la classe dirigente piemontese prima, e quella italiana poi, orientate in senso liberale, massonico e anticlericale. Tale orientamento aveva fatto sì che, mentre il Parlamento piemontese e poi quello italiano decidevano la soppressione di numerosi ordini religiosi e la chiusura di chiese e conventi, i cattolici si erano sentiti esclusi dal movimento risorgimentale e lo avevano vissuto come diretto contro la Chiesa e contro i loro più intimi sentimenti. In Francia, invece, la ventata del secolarismo si era già abbattuta a rescindere il secolare patto di collaborazione fra le classi dirigenti e la Chiesa cattolica; e ciò non solo per effetto della Rivoluzione francese e dell’azione di Napoleone contro il papato, ma anche quale esito naturale di una vittoriosa politica di autonomia dello Stato nei confronti della Chiesa, incominciata da Filippo IV il Bello all’epoca di Bonifacio VIII e proseguita dai suoi successori, fino a Enrico IV e Luigi XIV, che avevano favorito le tendenze autonomistiche della Chiesa cattolica francese nei confronti della Curia romana.
Tutti questi fattori devono essere tenuti presenti allorché papa Leone XIII decise di porre mano ad un documento solenne e impegnativo, nel quale prendere posizione circa la questione operaia, determinatasi in Europa e nel mondo in seguito alla nascita tumultuosa e drammatica del proletariato industriale, emerso dalla crisi, dalla progressiva dissoluzione e dall’inurbamento di quella che era stata la cellula sociale più fedelmente ancorata alla tradizione morale e culturale cattolica: la famiglia patriarcale rurale dell’Ancien Régime.
L’Enciclica di Leone XIII percorrerà il suo lungo cammino con le prime parole del testo latino: Rerum Novarum. La trasformazione dell’economia da prevalentemente agricola a industriale avveniva a ritmi accelerati, a danno soprattutto dei lavoratori sfruttati senza pietà e privi di qualsivoglia tutela. I padroni delle fabbriche – i capitalisti - consideravano gli operai come appendici delle macchine senza dignità umana. E non importava se essi fossero uomini, donne o anche bambini; quei bambini utilizzati in gran numero nelle officine; quei bambini – come li descrisse Victor Hugo- che non ridono mai.
In Italia la trasformazione industriale fu più lenta che altrove. Il Paese rimaneva a lungo ancorato ad una arretrata economia agricola. La classe dei poveri era formata da contadini sui quali gravavano imposte onerose, e odiose, in quanto colpivano i generi di prima necessità, compreso il pane. I salari erano al di sotto della sopravvivenza; l’orario medio di lavoro era di 11 o 12 ore al giorno, ma poteva arrivare anche a 14 e persino a 16 ore. Il proletariato era in balia dello strapotere padronale. In queste condizioni esplode non solo in Italia ma in gran parte d’Europa, la questione sociale.
Quando Leone XIII decide di affrontarla, accoglie una richiesta che proviene dal mondo cattolico, desideroso in larga parte di contribuire alla emancipazione del proletariato.
Il Papa vuole dare una risposta autonoma ai problemi della convivenza sociale: non un compromesso tra il liberismo capitalista e il socialismo collettivista, ma il superamento di entrambi in un ordine morale che privilegi, alla luce del Vangelo, i principi dell’amore della giustizia della solidarietà e della fratellanza. Papa Pecci da cardinale aveva già condannato l’indegno abuso dei poveri da parte di quelli che vogliono sfruttarli per il loro profitto. Nel 1891, come Pontefice, Leone XIII non guarda solo all’Italia ma al mondo, e con la Rerum Novarum esprime il pensiero della Chiesa universale.
Evidenziamo alcuni passaggi fondamentali. Leone XIII denuncia senza mezzi termini lo squilibrio tra capitalisti e lavoratori. <<Un piccolissimo numero di straricchi ha imposto ad un infinito numero di proletari un giogo quasi servile. Anche a causa dell’assenza di una legislazione sociale, è avvenuto che a poco a poco gli operai sono rimasti soli e indifesi, in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza>>. Il Papa osserva poi che ai guasti di un capitalismo alla ricerca ossessiva del profitto, qualcuno vorrebbe porre rimedio con il socialismo collettivista, che pretende di abolire la proprietà privata, considerata da Leone XIII un diritto naturale, e fare di tutti i patrimoni un patrimonio unico gestito dallo Stato. <<Ma questa via – afferma l’enciclica testualmente – non risolve la contesa. Non fa che danneggiare gli operai ed è per molti aspetti ingiusta, perché offende i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e le funzioni dello Stato, turba l’ordine sociale>>. Cento anni dopo, dinanzi al crollo sociale e politico del comunismo, al totale fallimento del socialismo reale, queste parole assumono un valore profetico.
Respingendo la lotta di classe, l’enciclica sostiene che lavoratori e datori di lavoro non devono vivere in conflittualità, perché le due parti hanno bisogno l’una dell’altra. Leone XIII precisa anche i doveri di entrambe: ai lavoratori “spetta di forgiare l’opera che liberamente compiono”; ammonisce i datori di lavoro a rispettare nell’operaio la dignità della persona umana e a dare a ciascuno la giusta mercede in rapporto ai reali bisogni dell’uomo. Il Papa invoca poi dallo Stato, che è garante del bene comune, una legislazione che assicuri protezione al lavoratore e fissi una durata delle ore di lavoro commisurata alla potenzialità delle forze umane e garantisca un adeguato riposo. Nella conclusione, molto concisa, si riafferma che la carità deve essere la regina di tutte le virtù sociali, rifacendosi al famoso inno alla carità svolto da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi.
Questi sono solo fugaci accenni ai contenuti di una enciclica di ben più vasto respiro. Enciclica che al suo apparire sollevò entusiastici consensi ed aspre polemiche, le critiche dei capitalisti e quelle dei collettivisti.
Il socialista Turati, al quale non era piaciuto tra l’altro il riconoscimento del diritto di proprietà, ne scrisse in tono sprezzante. In campo cattolico, invece, l’enciclica fu accolta con entusiasmo perché si vide in essa la via da seguire nei rapporti sociali alla luce dell’annuncio cristiano, anche ai fini di ostacolare la penetrazione del materialismo ateo tra le masse.
I cattolici si impegnarono concretamente con iniziative che moltiplicarono notevolmente casse rurali, cooperative e patronati. Si aprì inoltre la stagione del sindacalismo cristiano perché Leone XIII aveva riconosciuto il diritto dei lavoratori ad unire le proprie forze allo scopo di sottrarsi all’intollerabile oppressione. Ai principi della Rerum Novarum si ispirarono nei decenni successivi i cattolici italiani impegnati nella politica. La loro azione in tempi a noi più vicini è stata decisiva ai fini di risparmiare all’Italia le tante prove inflitte dal comunismo a tanti altri Paesi.
Grandi mutamenti avvengono nell’ordine politico ed economico dopo Leone XIII: il liberismo si trasforma con forti concentrazioni capitalistiche, il socialismo acquista volti articolati e sperimentati, tra cui il comunismo. L’unità dei cattolici resta una condizione fondamentale per un programma sociale organico. Nel corso del tempo la Rerum non declina nella sua importanza, anzi acquista un valore sempre crescente. E lo trova nell’affermare il ruolo del Papa di Roma e della sua Chiesa nella società contemporanea, tra due mondi: uno che rifiuta la libertà, e l’altro che ama chiamarsi libero senza esserlo.
Nel settantesimo della Rerum, nel 1961, si nota un accentuato spostamento degli orizzonti e dei contenuti della dottrina sociale ad altri approdi, sempre più lontani dal problema del lavoro e dalla questione operaia. Infatti la dottrina di Giovanni XXIII ha in sé la grande questione della collaborazione con gli altri – anche se ostili alla Chiesa: è questo un problema attuale nell’Italia in cui si dibatte aspramente tra gerarchie ecclesiastiche e vertici democristiani sulla collaborazione governativa tra DC e socialisti. Nella “Mater et Magistra” la prospettiva della dottrina sociale, non più rinchiusa in un contesto europeo ed industrializzato, si allarga alle dimensioni internazionali: squilibri tra terra e popolazione, ruolo della FAO, paesi in via di sviluppo, aiuti di emergenza al Terzo Mondo, cooperazione tra Nord e Sud, incremento demografico e sviluppo economico. Nella “Populorum Progressio” papa Paolo VI esige una reinterpretazione. I temi della Rerum sono remoti: si parla ora della donna, dell’ambiguità del progresso, dell’attrattiva delle utopie. Di fronte ad un marxismo che si condanna, a uno sviluppo capitalistico che si sente ingiusto, il papa ribadisce che i cattolici abbiano una posizione concreta. E Giovanni Paolo II, nella “Sollicitudo rei socialis”, innalza una bandiera più moderna, ripensando la dottrina sociale della Rerum fino a divenire teologia morale. E dimostra che la Rerum vive, perché rappresenta l’esordio storico della posizione della Chiesa cattolica verso la modernità sociale: la Chiesa non accetta supinamente le logiche della società, bensì le contrasta le discute le corregge le trascende, vi collabora.
Il mito della Rerum nasconde una realtà e una coscienza del cattolicesimo moderno tutt’altro che finite pur essendo passate. La Chiesa contemporanea non erige santuari, non solo, ma santifica passaggi storici legati a topos storici, emblematici di un dovere sacro compiuto o da compiere, luoghi sacri senza perimetro ma con molta storia. Santuari storici esemplari, suscitatori di nuove energie, memorie legittimanti.
Oggi francamente non credo che possiamo leggere la Rerum sott’occhio come una qualsiasi pastorale di quaresima – come George Bernanos nel “Diario di un curato di campagna” fa dire dal vecchio curato di Torcy al suo giovane collega. Credo piuttosto, alla luce di quanto abbiamo intorno, che la Rerum ci interpelli ancora e con urgenza accresciuta.
Il contesto socio-economico odierno è caratterizzato dalla crisi delle ideologie che, aldilà di un’apparente opposizione, condividevano il sogno di poter costruire un regno di libertà su questa terra. Il sogno è naufragato. E l’economia, esaltata come il vero elemento strutturale della storia, sulla base di un lavoro senza soggetto, si volge al semplice mantenimento del genere e quindi al consumo. Quando mai la ricchezza ha condizionato la storia degli uomini come oggi? E poi, mai come oggi ci sentiamo tanto sociali e viviamo questa socialità come dipendenza. L’esperienza di essere membri di una società nella quale ogni ambito si intreccia con l’altro, e nella quale la crescente mobilità e complessità sembrano mettere in crisi ogni ordine possibile, appartiene ormai al sentimento comune. L’ardente brama di novità che agitava i tempi di Leone XIII sembra aver lasciato il posto a un diffuso senso di torpore e di decadenza, come se tutto, anche le vicende e i progressi più esaltanti, avvenisse non grazie agli uomini, ma a causa di un meccanismo di cui siamo soltanto un ingranaggio.
Il lavoro è sempre meno il nostro lavoro e sempre più un lavoro senza soggetto, nel cui processo siamo inevitabilmente assorbiti come per una sorta di necessità naturale. Ci sentiamo talmente inseriti in un complicato sistema di rapporti sociali che non riusciamo più neanche ad immaginare di essere pur sempre responsabili di ciò che facciamo.
In breve, il cittadino della nostra società capitalistica, sempre più sradicato da tutto, tende a diventare un individuo storico mondiale, come pensava Marx. Non c’è quindi da stupirsi che la nostra società sembri ormai fagocitare tutto, esorcizzando la tragedia in un grande gioco di simulazione, di retorica o di spettacolo. L’uomo non è più il metro con cui misurare la società. Quest’ultima si è liberata dal vecchio retaggio umanistico e lascia giocare liberamente i tanti sottosistemi che in essa si sono differenziati e automizzati: così l’etica o la politica, secondo questa concezione, non possono dire nulla alla scienza o all’economia. Ogni sottosistema, anche la religione, deve assolvere soltanto la sua specifica funzione.
Preoccupazioni ecologiche, guerre, mancanza di rispetto per la vita dei non-nati, caduta di professionalità, mancanza di motivazioni, disaffezione dal lavoro, sono sintomi di un grave malessere.
Altro aspetto caratteristico della odierna questione sociale è dato dal lavoro che da diritto-dovere sembra stia diventando un lusso. La vecchia lotta tra coloro che dovevano lavorare per sopravvivere e coloro che potevano permettersi il lusso di non farlo tende a mutare i suoi connotati. I primi diventano sempre più coloro che vorrebbero ma non trovano da lavorare, i secondi quelli che possono appunto permettersi questo privilegio. In questo contesto, anche in considerazione delle enormi masse di disperati che varcano le frontiere dei cosiddetti paesi ricchi, cresce il numero dei disoccupati, riprende quota il lavoro nero e certi imprenditori ne approfittano proponendo addirittura l’abolizione del riposo festivo.
E le nuove generazioni? Attualmente, sembrano soggiogate dalla cultura del mordi e fuggi che nutre l'attuale politica ed i gruppi che spingono, con scienza e coscienza, verso l'annullamento totale della persona umana fino a ridurla a semplice spettatrice passiva del loro fare. Alcune delle precedenti generazioni furono allevate nel mito dell'"Eroe" e furono facilmente soggiogate da chi riuscì a sembrare tale; le due guerre mondiali parvero aver sotterrato tale stile di vita con la ripresa della gestione democratica in tutto l'Occidente che, dai totalitarismi, aveva avuto solo lacrime e sangue. Oggi un nuovo assolutismo, addolcito dall'esperienza del passato ma rafforzato dal globalismo economico finanziario, aleggia sui popoli spingendoli verso nuovi terribili scenari di miseria e povertà.
Fortemente critica nei riguardi dell’esistente ma senza rinunciare al necessario realismo, la dottrina sociale della Chiesa rilancia oggi come sempre il paradigma della persona umana, consapevole che la promozione di una vera civiltà del lavoro costituisce la chiave di tutta la questione sociale.
La Chiesa sa bene che non esiste sviluppo senza capitale; che non esiste capitale senza profitto; che non esiste profitto senza impegno costante per la migliore utilizzazione dei fattori produttivi, dei talenti, che possiamo chiamare efficienza. Ma, esperta in umanità, la Chiesa sa altrettanto bene che soltanto un profondo orientamento al bene dell’uomo, della sua dignità, può rendere tutti questi principi, principi di una imprenditorialità e di uno sviluppo veramente umani.
Spesso anche noi cristiani abbiamo trascurato forse la centralità del lavoro nella vita umana, sminuendolo magari a semplice mezzo di sopravvivenza o arricchimento materiale. La dottrina sociale della Chiesa ci insegna che nessuna attività umana può essere considerata meramente strumentale. Richiamando di continuo la verità del mondo e di noi stessi rivelataci da Gesù Cristo, la dottrina sociale intende farsi carico dei concreti bisogni dell’uomo e invita a fare altrettanto in un continuo esercizio di fantasia creatrice, e di preghiera, questa sorta di supplemento d’azione che troppo spesso dimentichiamo.
Il 18 gennaio 1919 il sacerdote siciliano don Luigi Sturzo lanciava uno storico appello a tutti gli uomini liberi e forti che portò alla nascita del Partito Popolare Italiano. Questa data è un punto di arrivo e un punto di partenza. È il punto di arrivo di una storia corale, quella del Movimento cattolico dopo l’Unità. Una storia di preti e di laici, una storia plurale, ma unitaria. È più che mai attuale il pensiero di don Sturzo. È più che mai attuale il suo appello: presentarsi nella vita politica con la bandiera morale e sociale ispirata ai principi del cristianesimo; quella bandiera è ancora oggi un riferimento fondamentale per i cattolici impegnati in politica. C’è bisogno dunque di un impegno nuovo, non allo scopo di formare un partito nuovo, ma di realizzare un nuovo manifesto di cattolici impegnati in politica, e di ritessere un dialogo culturale e sociale che porti alla nascita di un movimento. Un orizzonte di impegno, appunto, per soggetti molteplici, che devono mantenere ognuno la propria identità ma che, se non si percepiscono e operano come parte di una comunità che un tempo si chiamava “mondo cattolico”, sono consegnati alla irrilevanza. Così come lo sono se continuano a porsi come una compagnia di reduci. Accettare la sfida implica una premessa: innescare un processo di formazione, di elaborazione critica, di rappresentanza dei bisogni e delle attese dei cittadini e delle comunità. Un processo di rilancio dei vincoli di coesione, che è oggi la vera priorità.
Utilizzare in modo non predatorio le risorse; costituzionalizzare il potere economico; addomesticare la globalizzazione. Tre punti che implicano un rinnovato ruolo dello stato come promotore di un nuovo patto sociale. E qui c’imbattiamo in un’ulteriore difficoltà che si tratta di superare. La questione sociale che abbiamo di fronte è certamente il prodotto di dinamiche capitalistiche non controllate, ma se questo controllo non c’è stato o è stato inadeguato, la responsabilità è anche di un sistema della rappresentanza democratica che da tempo ha cessato di funzionare nell’interesse dei cittadini e si è allontanato dalla loro volontà e dalle loro aspettative.
Oggi don Sturzo, come Giorgio La Pira, sarebbe in prima linea per battersi contro una economia che mira a renderci tutti schiavi dei signori del denaro per distruggere ogni umanità, ogni socialità, ogni rispetto per l’uomo e per la sua dignità e libertà.
Ma la prospettiva di un capitalismo sostenibile può essere perseguita credibilmente solo sulla base di un sistema della rappresentanza e del governo della cosa pubblica che renda efficace la partecipazione di tutti e, soprattutto, renda possibile il controllo di ciò che viene fatto in nome di un, abusato, bene comune.
Riconosciamo a Leone XIII il coraggio di aver aperto una pagina altissima nella Storia della Chiesa. E certamente molti riferimenti contestuali ai problemi del tempo, appunto le res novae, sono svaniti. Ma quella tensione tutta umana di un Papa vecchio, che offre quanto è umanamente possibile, il tesoro di una saggezza superstite, di raccoglimento e riflessione, infine di pietà che va oltre la divisione di credenti e non credenti, che avverte il rischio dell’approdo ad una modernità che vive solo di se stessa e dei suoi inarrestabili e impietosi meccanismi produttivi, è un lascito che va oltre il suo tempo.
Questa è a mio giudizio la lezione più importante che giunge fino a noi. In questa nostra epoca il tempo è come sdoppiato: c’è un tempo che appartiene alla scienza e alla tecnologia, che segnano coordinate proprie, scisse dall’ordine dei valori morali e religiosi; l’altro è il tempo della nostra mente, che fa resistenza in una perenne instabilità delle cose, nella incertezza degli itinerari futuri, culturalmente disarmata.
In un quadro di crescente frammentazione individualistica giova uno spirito pubblico passivo di spettatori arrabbiati, massa di manovra per speculatori e per propagande. Le strategie di marketing aggressivo del sistema della comunicazione e del consumo globale ci ingannano, anche in politica. Anche solo per dare voce al vero è il tempo di una nuova presenza organizzata. Che ha bisogno di nuove energie e della consapevolezza di rappresentare il puzzle di una società più giusta più libera più umana. Che ha bisogno di ristabilire l’unione e la sintesi dell’umano e del cristiano.
Antonia Flaminia Chiari
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“Il mio nome è Vittorio Alfieri, il luogo dove io son nato, l’Italia, nessuna terra
mi è Patria, l’arte mia son le Muse, la predominate passione: l’odio della tirannide.”
Fu forse quella nebbia di colline, densa di spiriti
e pungenti umori, ad accoglierti e ad entrar
nel tuo sangue prima ancor delle trine del Casato,
prima del grande “lume” del tuo tempo…
Così imparasti a guidare il cuore
oltre il clamore del secol che innalza il suo nuovo
vessillo di “ragione”, per cercar nel fondo
il solo lume ch’a se stesso e al mondo,
rende visibil l’uomo sotto il cielo: la Passione.
Ho amato il tuo Verso, quand’era acerbo
il mio pensiero, ma forte di ardore, e ho amato
il tuo viso di orgoglio fiero e di valor… ma intriso
della viva e dolce irrequietezza del Titano,
che svela il guizzo umano di rivolta da serva condizione
o da bandiere che inneggian grida di rivoluzione.
Sempre così è stato e così sarà…
E non è per volere degli uomini se nella scia dei secoli
ancor oggi nuove albe illuminano popoli trascinati…
e infine abbandonati da vili adoratori del potere.
Cosa potrà mai far quella sparuta genìa
di nobili Titani, in tempi in cui manca
“virtute e conoscenza”, se non cercar oltre la nebbia
l’Uomo con quel barlume immenso di Passione?
Per poter svelare alla sua coscienza
che quel che veramente dà piacere e reca pace al cuore
non è alcuno dei simulacri della sua stagione, ma la responsabil
cura di ognuno verso la razza umana, il suo dovere.
Ed è questo il più gran “lume” che possa
al cuore umano esser mai svelato,
quello che oltre la nebbia hai acceso sull’eterno destino
dei popoli: “né tiranni, né servi di bandiere”…
E fu questo il pensiero che illuminò
la mente di Saùl quando il suo brando
d’impeto uccise non lo sconfitto re,
ma “il rio demòn che fero gli invasa il cor.”
E, con lui risorto, la nostra voce
nella sua casa da allora risuona:
“…me troverai, ma almen da re, qui morto.”
Maria Carmela Mugnano
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La Banca d’Italia informa che il risparmio totale degli italiani ammonta a 4.374 miliardi di euro. Questa ricchezza è custodita per il 76% nelle banche. Mentre gli intermediari e i promotori attivi nella gestione dei risparmi degli italiani, mantengono 512 miliardi di euro (12% del risparmio totale). Il resto del risparmio, un altro 12% per un ammontare di altri 512 miliardi, è depositato in Poste Italiane nei vari servizi offerti. L’ammontare del risparmio privato degli italiani a volte, viene utilizzato come opportunità compensativa dell’enorme Debito Pubblico della Pubblica Amministrazione Italiana. Purtroppo le virtù private degli italiani non possono e non devono compensare la deficiente e stolta spesa pubblica dello stato.
Prof. Antonio ROMANO
www.antonioromano.org
+393357721820
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Poesia vincitrice del "Premio Jacopo da Lentini" e dedicata alla memoria del Poeta Pio Fumo dall' autrice Maria Carmela Mugnano, insignita al Castello di Lagopesole del titolo di "Poeta Federiciano 2019"
Per queste antiche scale
ti porteremo il mirto dei Poeti
intrecciato alla ginestra solitaria…
E aspetteremo che da noi salga quel vento
che manderemo a scuoter l’irto viso
di polverose cale,
per recarti aromi d’alga e di elicriso…
… Aspetteremo il vento
che salirà quassù come un destriero,
per potergli affidare la corona
che nel silente incanto della notte
verrà a posarti lieve sulla testa.
E sarai qui, con sguardo acuto e fiero,
a rimirar nel cielo quelle stelle
che, alla flotta di Diomede in gran tempesta,
pietose offrirono rotta sicura
su queste perle nel pelago sparse
… e sarai roccia viva tra pietre arse.
… E il vento tornerà con nuova storia
di antichi eroi, santi e predatori
di cui ci hai tramandato la memoria.
Sapremo allora che quello è il tuo dono…
Andremo a dire all’onda che si frange
d’esser per te il canto di una madre,
dolce a cullarti per non sentirti solo,
e forte… a sovrastare il pianto
di diomedee in volo.
Ti porteremo il mirto e la ginestra…
Maria Carmela Mugnano
Come un percorso breve e buio che conduce al cuore, così la porta di accesso al Castello di Lagopesole immette in un piccolo atrio ombroso su cui improvvisamente si spalanca luminoso il “cuore” del Castello. È il grande cortile in pietra, come propaggine naturale delle imponenti, ma armoniose mura bugnate esterne, rese ancor più eleganti da bifore leggiadre che sembrano lanciare sguardi innamorati alla valle di Vitalba, su cui il castello troneggia dall'alto.
Non si possono immaginare pietre più luminose, risplendenti nel loro rilievo di gemme incastonate nel gioiello quadrangolare, che all'interno hanno i toni caldi e conviviali del luogo più intimo, quello del cuore, appunto... pietre che avvolgono e accarezzano lo sguardo tutto intorno, ovunque si posi.
E mentre ci si ristora in tanta pace e lineare bellezza, ci viene svelata l'anima del luogo, una voce che ci sussurra che lì sotto i nostri occhi meravigliosamente vediamo realizzato quel che sembrava irrealizzabile, il felice connubio tra le esigenze logistiche di sicurezza poderosa e l'armonia e l'eleganza, la cifra con cui Federico II ha dato vita a questo e ad altri Castelli. Perché anche scopi bellici e difensivi, oltre che ludici, possono realizzarsi strutturalmente e architettonicamente nel segno della bellezza.
Federico non è stato solo un Imperatore illuminato, un mecenate al centro di una corte di sapienti nelle varie arti e scienze, ma lui stesso era artista e scienziato, studioso di vasta e capillare cultura e ingegno, e un profondo conoscitore della natura. Ed era pertanto in grado di dare, col supporto di eccelsi matematici, architetti, ma anche astronomi, astrologi, cabalisti... una personale impronta ai suoi progetti e alle sue costruzioni.
Perché i campi del sapere si intersecano, si abbracciano, si uniscono, come si univano le razze, le religioni, i diversi modelli di vita e di pensiero che il giovane Federico era abituato a conoscere e ad accogliere fin dalla prima sua infanzia, non certo aristocratica come conviene a un futuro Imperatore, ma libera, giocosa, tra le strade di quella Palermo dove si incontrava e si ascoltava il popolo, gente di ogni razza... Un grande insegnamento, molto moderno, quello di circondarsi del saraceno e del normanno, del bianco e del nero, del cristiano e dell'ebreo... e cogliere il valore delle diversità.
I suoi castelli bisogna perciò leggerli come grandi libri aperti di scienza e di sapienza, di conoscenze e formule terrene ed extra terrene... con la pietra che fa da interprete.
E l'amore per la Poesia aleggia su tutta la sua immensa costruzione, Poeta lui stesso, circondato dai migliori rappresentanti poetici del suo tempo. Anch'essi, però, uomini che non vivevano in un mondo elitario e distaccato, ma funzionari del Regno di Sicilia, come Jacopo da Lentini, “notaro” della Magna Curia, il più importante di quei Poeti della Scuola Siciliana che con le loro liriche hanno segnato un importante passaggio nella storia della nostra letteratura, una pietra miliare con nuovi canoni linguistici e stilistici. Uomini che sperimentavano nella vita reale l'amore per la natura, così cara a Federico, e le gioie, le ansie, i rifiuti, gli abbandoni dell'amor cortese.
Ed ecco il Poeta-notaro, posate le sue carte, attendere l'Imperatore in questo cortile, tra lo scalpitio dei cavalli frementi per l'imminente battuta di caccia, i richiami dei falconieri, l'affannarsi dei servitori, i fumi delle cucine messe all'opera per il pasto regale dell'Imperatore e dei suoi cavalieri di ritorno dalla caccia...
Attende l'Imperatore per declamargli una delle sue ultime liriche :
Meravigliosamente/un amor mi distringe/e mi tene ad ogn'ora/ ...
Meravigliosamente, appunto.
Maria Carmela Mugnano
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Italia, 20 agosto 2019
Gli eventi politici degli ultimi dieci giorni dovrebbero stimolare tutti a riflettere su un tema: chi ci rappresenta? L’ Italia è una democrazia rappresentativa nella forma di Repubblica Parlamentare: i cittadini aventi diritto al voto eleggono dei rappresentanti, i deputati e i senatori, che in seno al Parlamento nominano, con modalità e in tempi diversi, il Governo e il Presidente della Repubblica. Ma quanti di noi conoscono la storia personale, l’attività in campo lavorativo e politico, dei “nostri” rappresentanti? Come li scegliamo? Tra liste bloccate e scelta dei candidati su piattaforme online, stiamo davvero assistendo a uno stupro addolcito dell’esercizio del diritto di voto.
Eleggere vuol dire “scegliere tra” (dal lat. Ex “tra” e lego “scelgo”); se si deve operare una scelta tra più persone, il cittadino elettore dovrà farsi un giudizio, dovrà dire: <<per me, Tizio è migliore di Caio>>. Invece no, nel 2019 c’è gente che afferma “uno vale uno” e al massimo su questioni più spinose si fa un sondaggio su una piattaforma online. Uno vale uno? Allora non sarebbe meglio tirare a sorte invece di indire elezioni?
Et vero, in dissensione civili, cum boni plus quam multi valent, expendendos cives, non numerandos. (Cicerone) Quando i buoni valgono più dei molti, bisogna pesare, non contare i cittadini. Bisogna attribuire un “peso”, politico, a chi demandiamo il governo della nostra nazione. Operare una scelta sulla base di caratteristiche personali uniche e, perché no, successi in campo privato. Non possiamo illuderci che la condizione necessaria e sufficiente per assurgere alla carica di rappresentante del popolo sia l’onestà. Su questa tematica si è esprimeva così Benedetto Croce circa un secolo fa:
“È strano che, laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a un’operazione chirurgica, chiede un onesto uomo, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurghi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatoria, nelle cose della politica si chiedano invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini di altra natura. ‘Ma cos’è dunque l’onestà politica?’ si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze. ‘Ѐ questo soltanto? E non dovrà essere egli uomo, per ogni rispetto, incensurabile e stimabile? E la politica potrà essere esercitata da uomini in altri riguardi poco pregevoli?’. Obiezione volgare, di quel tale volgo, descritto di sopra. Perché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, ma non già nella politica.”
Oggi come non mai abbiamo bisogno di rappresentanti, deputati e senatori (finché saremo una Repubblica Parlamentare e non Presidenziale), ma anche consiglieri regionali, provinciali e comunali, onesti, in quanto capaci, e di peso, in quanto più pesanti – politicamente- di altri.
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La giustizia secondo Socrate, per bocca del suo discepolo Platone, nel secondo libro della Repubblica, è un είδος (idea) che riguarda solo il cittadino (πολίτης) e quindi lo Stato (πόλις). Anche S.Agostino ne parla in questo senso nel De Civitate Dei e la considerazione essenziale coincide nell'uno e nell'altro. Quella di S.Agostino, molto sintetica e pratica, com'era proprio della lingua latina, la riporto perché si tocchi con mano una verità politica antica e da sempre denunziata dai sdansculottes antichi e moderni nella storia...
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“Alcuni luoghi parlano con voce distinta… certe vecchie case esigono di essere popolate da fantasmi… Sembrano ancora in attesa della leggenda giusta.”
Questa considerazione di Robert Louis Stevenson, l' avventuroso Autore de L'isola del tesoro, si riferisce indubbiamente a luoghi così peculiari e facilmente riconoscibili per le loro caratteristiche, che non possono non ispirare leggende. E cosa sono le leggende se non storie affascinanti che traghettano nel tempo l'anima originaria di un luogo e, insieme ad essa, i sentimenti, le paure, le speranze della gente che ci ha vissuto, che potranno così diventare emblematiche e legarsi al territorio e al tempo in cui si sono svolte? Ma le leggende sono anche storie che attingono a caratteri universali, aspaziali e atemporali, propri dell’animo umano, se se ne scoprono tante con incredibili corrispondenze presso popolazioni di latitudini e culture molto distanti tra loro. Alla luce di queste considerazioni, credo che il racconto Il fosso della Signora di Pasquale Tucciariello realizzi un’operazione letteraria e culturale amorevolmente tesa a riempire, da parte dell'Autore, il vuoto narrativo intorno alla misteriosa località del Vulture, così chiamata dalla gente locale, con dei contenuti che si riallacciano a esperienze umane universali come “l’amore infelice”, “il sacrificio familiare”, “l’amicizia e la solidarietà tra simili”… Situazioni che, all’interno del racconto, tratteggiano storie intense, immerse in una natura che è la vera protagonista in quanto è da essa che trae nutrimento, e poi linfa di nuova vita, la vicenda principale.
Il fosso della Signora è una depressione del terreno nella pianura tra Rionero e Atella, un luogo di cui si è perso il significato originario del nome. Pertanto nessuno oggi sa chi fosse la Signora, nessuno conosce la sua vita e gli accadimenti che in epoca remota l’hanno legata a quel fosso. Si sa soltanto che, nei passaggi generazionali, la figura della donna è stata messa sempre più in relazione alla tenebrosità del luogo e si è adombrata di crescente timore o di malcelata superstizione popolare. Qualcuno raccontava di averla vista in sella ad un cavallo emergere da quel baratro nella controra estiva, come un lampo che viene fuori dalle viscere della terra… E un lampo non si ha il tempo o la voglia di guardarlo negli occhi per conoscerne le intenzioni. Per cui nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi a quel fosso, come a tutti gli altri luoghi della controra, quelle prime ore pomeridiane di calura estiva in cui il tempo si fa immobile, l’aria si posa e la vita si ferma per dar modo a folletti, streghe e altri spiriti maligni di uscire dai loro nascondigli… E allora meglio stare alla larga dalle visioni della controra.
Ma questa voce popolare, tanti anni fa, deve avere avuto una grande ripercussione nella mente di un bambino, Lino, che tutti i giorni in quelle ore si trovava costretto a passare nelle vicinanze del fosso per un' incombenza che gli affidavano i nonni : portare da mangiare ai mietitori dei loro campi. Lino è il nomignolo che veniva dato all’Autore da piccolo e forse, già da allora, per esorcizzare il batticuore giornaliero di quel tragitto ineludibile, fiorivano nella sua fantasia storie “buone” che prendevano il sopravvento su quelle “cattive” ristagnanti nell'aria lì intorno. Per popolare di personaggi e di elementi il racconto bastava semplicemente guardarsi attorno nel territorio: i campi di grano, i mietitori, una giovane e povera spigolatrice che passa a raccogliere le spighe lasciatele dalla benevolenza dei mietitori... E poi Lei, la Signora, una donna bella e facoltosa, ma malmaritata, con la sua cavalla della miglior razza avelignese a cui è molto affezionata, e che per lei rappresenta una spada mitica e dirompente visto il nome che ha dato al destriero : Durlindana. No, una donna così non può essere cattiva… ma infelice si. E perché una Signora di questo ceto può essere infelice se non per amore? E la sua corsa nel vento non potrebbe essere solo un modo per sfuggire a quanti, potendo alzare lo sguardo su di lei, riuscirebbero a scoprirne le debolezze? Tutti gli elementi erano già lì in attesa di essere raccolti, filtrati, fusi, perché se storia ci doveva essere non poteva che essere “quella”. E se quel luogo così particolare era ancora in attesa della leggenda giusta, Pasquale Tucciariello, ispirato dalla profonda conoscenza e amore per la sua terra del Vulture, gliel'ha data.
Non mi soffermerò sulle vicende narrate nella storia, quanto sull'osservazione in essa di alcuni interessanti presupposti che realizzano di fatto “evoluzioni educative” diverse nelle due protagoniste, la Signora e la spigolatrice Serenella. Nel racconto si scopre che entrambe le donne, che poi diventeranno amiche d’elezione, sono delle trovatelle. Ma, mentre Serenella acquisisce ben presto cognizione e consapevolezza della sua origine, la Signora viene a saperlo in un momento cruciale della sua vita. Nel caso di Serenella … mani pietose l'avevano raccolta e le avevano dato come famiglia tutto il vicinato, tutti disposti a sollevarla portandola ora in una casa, un altro giorno in un'altra e poi un'altra ancora. Divenuta giovinetta ella dimostra una grande capacità nella realizzazione del percorso di vita che ha scelto, stabilendosi coraggiosamente in un vecchio rudere abbandonato che viene rimesso in sicurezza e arredato con mobili e suppellettili che tutti fanno a gara a donarle… perché tutti la considerano una figlia. Serenella impara presto i lavori da cui potrà trarre sostentamento nella vita : il cucito, il ricamo, senza disdegnare il lavoro pesante manuale delle vigne, dei campi o della cura del suo orto, e a quel punto … era diventata oramai quasi completamente autonoma. La ragazza, che ha avuto diverse richieste di matrimonio, sceglie di non curarsene, almeno per il momento. Quello di Serenella è un percorso lineare evolutivo, di crescita e di autonomia, anche affettiva, e la sua maturità e stabilità emotiva dimostrano il buon risultato dell’educazione data da una comunità attenta e responsabile.
Di contro … anche la Signora, in tenerissima età, era stata abbandonata… poi allevata da una famiglia perbene e in età di matrimonio andata in sposa ad un ricco agrario del posto… che lei non voleva sposare… La ragazza è disperata e piange perché ama un bel giovane, ed è lui che ha scelto per marito. Ed ecco che quelli che ha sempre ritenuto i suoi genitori naturali le fanno una rivelazione : non è la loro figlia biologica, è stata adottata e, per convincerla a rinunciare ad ogni pretesa sentimentale, le fanno un accorato discorso “protettivo” : “ Non abbiamo altro. Sei tutto per noi, la nostra vita, la nostra speranza, il nostro futuro. Vivremo in te per sempre. Ma vogliamo andarcene sapendoti al riparo dalla miseria.” La ragazza non rispose. Abbassò la testa. Una resa. Del resto era una trovatella, stabilì. Il discorso va a toccare corde profonde che fanno leva e condizionano il suo futuro, di fatto quella rivelazione è per lei una sentenza.
Il percorso della Signora è, al contrario di quello di Serenella, involutivo in quanto a possibilità di scelta, e perdente per la sua realizzazione sentimentale. C’è da dire che un tempo accadeva spesso che fossero i genitori a consigliare o a decidere per i figli chi dovessero sposare, in nome di “un amor filiale” che spesso celava decisioni opportunistiche o di convenienza economica o sociale. Nei confronti di questa ragazza vi è un larvato ricatto affettivo alimentato dalla riconoscenza che una trovatella deve avere nei confronti di chi le ha dato una famiglia. Situazione a cui Serenella non dovrà mai soggiacere perché non vi è nessuno in particolare che possa metterla davanti a una scelta obbligata. Serenella è figlia di tutti e tutti si sentono liberi di donarle qualcosa, senza che alcuno possa utilizzare una posizione affettivamente privilegiata per imporle un matrimonio, sia pure in una previsione di ricchezza e protezione future. L’elemento che fa di Serenella una figura viva e moderna è che la ragazza è stata abituata ad attivare fin da subito la sua capacità di decisione e autoprotezione.
Le caratteristiche di crescita di Serenella sono proprie delle società che vengono definite alloparentali in cui vige, all’occorrenza, una “genitorialità diffusa” e l'educazione di un bambino è un compito sociale avvertito da tutta la collettività. Eminenti scienziati e antropologi hanno rilevato i risvolti positivi, in termini di autonomia e fiducia nelle proprie capacità, da parte di bambini allevati con un sistema di responsabilità collettiva presso le società a carattere tribale da loro osservate. In particolare è rilevante, in queste società, il tempo che viene concesso al dialogo e all'interazione tra individui, l'apprezzamento e il sostegno che vengono continuamente trasmessi al bambino, il suo contatto fisico costante e prolungato nel tempo con la madre o con quanti si prendono cura di lui, la responsabilizzazione degli individui fin da piccoli … Per quanto possa sembrarci anacronistico e fuori luogo, questo modello, con diverse modalità, ha caratterizzato la storia dell’Umanità dalle sue origini fino ai processi economici e sociali che hanno portato, in epoca industriale, all’urbanizzazione delle famiglie e alla loro chiusura in nuclei. Secondo gli studi svolti l'educazione alloparentale è stata determinante per lo sviluppo dell'intelligenza ed apertura sociale del genere umano e ne andrebbero colte, da parte dei genitori moderni, le valenze di apertura che possano aiutare i loro figli a sviluppare maggiore autonomia e sicurezza emotiva con adeguati supporti e aiuti esterni.
Mi sembra, pertanto, che il racconto di Pasquale Tucciariello, in cui si delineano chiaramente nell'Autore, oltre alle sue capacità narrative, quelle di istruttore ed educatore, ci offra diversi spunti di riflessione - anche poetica, data la suggestione dei luoghi e delle storie - sui grandi temi dell'amicizia, dell’educazione, del rispetto per le creature della terra … Tutti da cogliere perché il misterioso fosso della Signora, diventato sempre più profondo e tetro nell’immaginario popolare, non poteva essere riempito e fatto emergere dalla terra del Vulture con immagini, argomenti e personaggi più belli e appropriati.
Maria Carmela Mugnano
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Quando ruggine al corpo impedirà
anche il volo dell’ultima fenice
non cercherò più sul mio orizzonte
un nuovo grande amore, amor felice.
Quel giorno il ciel che sempre ci sovrasta
svelerà l’amore per i tempi grigi,
messo da parte un dì nell’inebriante
incanto di voci, volti di sirene e incroci
di sguardi timorosi di domande.
Che l’amore dei miei anni grigi
mi conduca per montagne antiche
a strapparne dal cuore sassi e ortiche
sui cigli di sentieri di bisce rintanate.
O sul greto del fiume, io vorrei,
una volta con lui esser viandante,
a mirar guglie di edere folte
che innalzan radici sconvolte
e forti nell’abbraccio palpitante
del limo che gli infonde nuova vita.
… E mi regali una suonata antica,
prezioso linimento ai miei dolori,
che io possa scordarli volteggiando
al suon di danza degli anni migliori.
Non più luna possente a illuminar veglie
di fiere battaglie e glorioso cimento,
ma luna sorgente su morbide dune
che accolgono, stanchi,
bianchi stormi di cigni migranti.
Come loro mi poso dal remoto mio viaggio.
Grigio splendente di brezza d’argento,
mi accarezza la chioma il tuo raggio…
tenera madre, ti sento.
di Maria Carmela Mugnano
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Ho amato la ginestra,
sole nascente sull’umido del lago,
e quel cavallo brado
che lento pascolava sulla cresta
vicino al casolare.
Ho vagato tra i rami del salice,
ciglia dell'occhio d’acqua della terra,
a scoprir la ruga di un rivo,
lacrima in fuga dalla struggente pace
che in un perfetto calice è racchiusa.
E ho visto la quercia secolare
protendere le braccia
- le sole che conoscono il passaggio
sullo specchio incantato -
a trattenere il raggio
che, ultimo, abbandona la partita
di un sopraffatto giorno…
… Fonde il silenzio i volti delle sponde,
il buio è pietra calata sul respiro delle foglie,
e toglie ogni profilo al tuo orizzonte.
Ma l’attesa, ascolta bene, trova voce
nell’accorata e quieta cantilena
di quello storno che racconta al noce
la rinnovata pena di quell’ora…
quando una triste sorte ruba l’ombra
alla bellezza, e poi la sparge intorno!
di Maria Carmela Mugnano
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Ho avuto la fortuna, grazie a un mio recente viaggio, di scoprire uno dei luoghi del nostro Sud che sono “riscaldati” da un grande e antico patrimonio culturale e popolare, un “sole” che ha dato luce e vita alle radici del passato, per farle fiorire splendidamente nel presente. Questo luogo è Castrovillari, la Castrum Villarum romana, e tutto il territorio calabro abbracciato al Massiccio del Pollino. Quando ho ricevuto l’invito dell’Associazione Culturale Khoreia 2000, in quanto premiata nella sezione teatrale della I Edizione del Premio Città di Castrovillari,mi sono subito chiesta l’origine della passione di questa terra per la cultura e, in particolare, per l’arte teatrale. Castrovillari, infatti, ospita una rassegna, di cui quest’anno si è svolta la XVIII Edizione, che dà vanto e lustro all’intero Sud, La Primavera dei Teatri, appuntamento irrinunciabile per la drammaturgia contemporanea. Ma ci sono tanti altri eventi, fiori all’occhiello della città, fra cui il Calabbria Teatro Festival (rigorosamente con due “b”) rassegna autunnale di “corti” e spettacoli. A questi gioielli si va ora ad aggiungere il Premio Città di Castrovillari, (che, oltre al Teatro, comprende la Poesia, la Prosa e le Arti figurative) Premio che l’Amministrazione Comunale, con orgoglio e nel segno dell’accoglienza verso i Premiati giunti da tutta Italia, ha voluto ospitare in questa sua prima Edizione nella Sala Consiliare del Comune. Nelle parole di benvenuto del Sindaco e degli altri Rappresentanti Comunali vi è stato l’unanime plauso e ringraziamento alle figure femminili promotrici di questa e di molteplici altre iniziative: l’infaticabile e generosa Angela Micieli, Presidentessa di Khoreia 2000,Presentatrice dell’Evento e da sempre poliedrico punto di riferimento organizzativo di progetti culturali, Rosy Parrotta, giovane ed entusiasta Direttrice Artistica del Calabbria Teatro Festival, e Ines Ferrante, Presidentessa di Mystica Calabria, l’altra Associazione Culturale promotrice del Premio, amorosa “custode” della storia e della tradizione locale.
Tornando al Teatro, e avendo a mente il passato di questo territorio, si può immaginare che la vocazione della città ad aprirsi ad un palcoscenico che va oltre i confini territoriali, abbia origine dalla cultura teatrale di antichi insediamenti qua giunti da “oltre i confini”. E vi sono varie testimonianze di queste radici. Oltre al rinvenimento di reperti tipici della cultura ellenica, il dialetto locale contiene diversi termini che richiamano la lingua greca, e il fiume che scorre ai lati dell’abitato, il Coscile, è la grande via d’acqua (terzo fiume della Calabria) che collegava Castrovillari ad una delle più importanti Colonie della Magna Grecia, Sibari, la cui piana è visibile dalla Civita, la parte vecchia della città. Lo stesso nome antico del fiume è Sybaris. Ma quando si arriva a Castrovillari ci si rende conto che il Teatro non è solo elemento di un patrimonio atavico… ma è nella stessa morfologia della città, che è come adagiata sul palcoscenico di un grande anfiteatro naturale, di cui il Massiccio del Pollino che l’abbraccia, costituisce la presenza viva di un “Grande Spettatore”. O, ribaltando la prospettiva, la Montagna è lo spettacolo vivo che si offre quotidianamente, una perenne “Presenza narrante” che nei secoli non ha mai smesso di rappresentarsi agli abitanti con i suoi scenari storici e fantastici, le sue grotte, i suoi tesori nascosti, il suo “popolo” di briganti, angeli, pastori, contadini, uomini devoti e demoni, piante e bestie mirabolanti… attori protagonisti o figuranti… di storie, leggende, tradizioni. Il Pollino, l’antico “Monte di Apollo” (il dio delle arti mediche), ha anche avuto nella coscienza popolare un ruolo rivestito di sacralità, in quanto bosco d’elezione dei rimedi offerti dalla Madre Terra, un’infinita varietà e ricchezza di erbe curative dei mali del corpo e dell’anima che venivano sapientemente dosate e utilizzate da mani esperte per essere offerte a chi ne avesse bisogno: al ricco come al povero, agli uomini come alle bestie. Ed è facile immaginare come, in un mondo arcaico, l’antica “sapienza” legata alla natura, alle cose, e alla conoscenza del cuore umano, potesse sconfinare in un terreno occulto e a tratti pericoloso, la magia, in cui tutto ruotava intorno alle emblematiche figure dei magàri, le streghe e gli stregoni dell’epoca. Pozioni e filtri magici venivano preparati da loro per compiere le magarìe, gliincantesimi, i legamenti, reti magiche che si tessevano intorno a ignare vittime e, nelle mani dei personaggi più abietti, per realizzare riti negromantici e sacrileghi.
Riporto qui antichi versi magici tramandati oralmente: “Amami bedda, si mi vu bene/ sinnò ti fazzù amà cu magarìe/ Pigghju tri pili i nù nìvuru canu/ tri pitruzzedde i ‘nu crucivia,/ i mintu a buddi ‘nta na cavudara/ e la scloma chi ni jiesse è magarìa…” (Amami bella, se mi vuoi bene/ altrimenti ti faccio innamorare con magarìe /Prendo tre peli di un cane nero/ tre pietruzze a un crocevia/ li metto a bollire in un pentolone/ e la schiuma che ne esce è magarìa…) Un patrimonio notevole questo, che non avrei mai avuto modo, non solo di conoscere, ma di comprenderne il cuore, senza la guida esperta di Ines Ferrante, Presidentessa di Mystica Calabria, ed il suo tratto profondo e amorevole nel parlare dell’antica cultura popolare, una passione di vita che arriva all’animo dell’ascoltatore e lo coinvolge. Uno degli obbiettivi fondamentali di Mystica, ad evidenziare che l’amore da solo non basta senza l’impegno, la ricerca, e tutta l’energia e il lavoro spesi per mantenere viva questa grande ricchezza, ce lo indica la stessa Ines nell’introduzione del suo avvincente libro “Le leggende popolari del Pollino” : “… Recuperare quelle tradizioni che scandiscono il vivere dei contadini e dei pastori del nostro territorio, quella religiosità che affondava le sue radici nel paganesimo, quelle feste, quelle credenze, quelle superstizioni, quella cultura orale e quell’immaginario popolare che, attraverso il calendario delle stagioni, davano senso al fluire di un tempo condizionato dagli influssi positivi e negativi della natura, testimone di rituali legati ai ritmi del lavoro quotidiano…” Nel giro cittadino che Ines ha fatto compiere a me e a Isabella Cunsolo, valente pittrice catanese premiata nelle Arti figurative, la conoscenza della Storia attraverso episodi, luoghi o monumenti, è stata filtrata da un richiamo inevitabile alle storie del quotidiano, alle tradizioni e alle leggende, come due facce inscindibili della stessa medaglia.
Attraverso il Corso principale, antico Piano dei Peri o Piano della pira (del pero) dove una volta la vecchia Castrovillari si affacciava alla campagna, delimitata da conventi, piazzette e palazzi storici, si attraversa il Ponte della catena che unisce la città nuova a quella vecchia. Qui lo sguardo si perde nella valle del Coscile, le cui acque, secondo la credenza popolare, rendevano sterili gli uomini e vigorose le donne. Questo fiume è talmente familiare agli abitanti che viene richiamato da tante poesie locali, come quella molto profonda in vernacolo di Francesco Ortale, pittore, scultore e poeta di Castrovillari, dedicata ad una quercia abbattuta, di cui riporto qualche verso : “ ‘U vintu jè rimasu senza jatu / Cuscilu s’é appuntatu c’a majurana /cchiù ‘on bbidi nt’u spicchialu d’acqua/ e gridi “Addu jè quidd’arbiru giagantu?/ Picchì c’è dducu ‘ssu vacantu?” ‘Nu vucidduzzu senza cantu mó trintulij/ e fa lu pígulu addu prima facì ancunu rígulu…” (“ Il vento è rimasto senza fiato/ Coscile s’è fermato perchè la maggiorana/ più non vede lo specchio d’acqua/ e grida “Dov’è quell’albero gigante/ Perché qui c’è così vuoto?”/Un uccellino senza canto ora trema/ e fa un lamento mentre prima faceva un gran chiasso…” ) Passato il ponte si arriva al Castello Aragonese, che a tutti gli effetti è stato concepito per essere una prigione, la più terrificante del regno di Napoli, fatta costruire da Ferdinando I di Aragona per rinchiudervi i nemici e i ribelli, luogo di indicibili torture da cui non si usciva, né vivi né morti… C’è chi, in certe notti, racconta di udire nel suo Mastio, o Torre infame, il rumore sordo di catene sbattute alle pareti o lo schiocco di frustate, o di vedere una misteriosa figura di uomo a cavallo lungo l’unico tratto rimasto del camminamento di ronda… L’animo si rattrista a queste memorie, ma basta sollevare lo sguardo dalla tetra prigione sulla piccola montagna di fronte a noi per emigrare con gli occhi e col cuore in un’altra dimensione, e rendersi conto che, in così breve distanza, si realizza un passaggio di anni luce tra il mondo delle nequizie umane e quello della sacralità che appartiene ai Santi, agli angeli e agli uomini probi, di fede. Si tratta del Monte Sant’Angelo con la piccola Cappella della Madonna del Riposo, perché sorta in mezzo alla montagna in un luogo pianeggiante, adatto a fornire riposo a chi era diretto alla vetta.
La Cappella fu costruita da un pio uomo che vi custodì l’immagine della Madonna a cui tutte le sere, risalendo la montagna, recava una lampada per illuminare il cammino dei viandanti notturni in quei luoghi. Sul Monte Sant’Angelo sono state trovate orme di piedi impresse nella roccia. Secondo la leggenda si tratta della Pidicata i San Franciscu, le orme di San Francesco di Paola in viaggio verso la Francia con i suoi confratelli, che in quel punto alto si voltò a benedire per l’ultima volta la sua Calabria, consapevole che non vi sarebbe più tornato. Una bella poesia di Salvatore Rotondaro, poeta di Castrovillari, intitolata “A Madonna du Ripusu” ci ricorda i prodigi del Monte Sant’Angelo: … cc’è ‘nna muntagnedda paesana/ addù ‘a tant’anni c’è nna chjisiedda/ ritunna, aggraziata e ttanta bbedda!/ Jè ddittu u “monticiddu” di Sant’Angilu/ picchì ci su’ vvulati ‘a supa l’angiuli/ quannu San Franciscu cc’è acchjanatu / e ss’è qua ssupa ‘u Santi ripusatu…/ Si dici ch’a da dducu ha bbinidittu/ tutt’a Calabria soja , ‘nfinu allu Strittu…/ quannu jè jutu in Francia Pilligrinu/ alla corta di rre e ddi riggine;/ ‘A tannu tantu timpu jè passatu/ e dducu puru ‘i ‘mpronte t’ha lassatu/ sup’a nna grossa petra, mazzacana/ ‘stu Santu calabbrisu, “paulanu”…/ C’è statu ‘nu divotu, da tant’anni/ chiamatu zi’ Nicola ‘u jettabbannu,/ cu’friddu, d’acqua e vvintu t’acchjanavi/ e alla Madonna l’ugghju t’appicciavi!…/ Un’altra montagna del Massiccio che ha ispirato leggende e fiabe è il Monte Dolcedorme, così denominato perché, da uno dei suoi versanti, pare una donna coricata. In corrispondenza della sua vetta, di notte, si può scorgere in cielo un grappolo di stelle che sembrano inseguirsi l’una con l’altra: in testa le due più grandi appaiate, e le altre a seguire, fra cui una stella più grande con accanto una piccolina. I pastori la chiamano “la costellazione dei ladri” e raccontano la leggenda secondo la quale due ladri rubarono di notte due buoi a un contadino, il quale li vide e li seguì. Dopo un po’ anche la moglie del contadino, con il loro bimbo in braccio, si mise sulle tracce del marito per non restare sola. Alla fine partì alla loro ricerca anche il garzone della stalla preso dai rimorsi per non aver vigilato. Camminando per ore e ore, e non riuscendo mai a raggiungersi, i personaggi di questo fantastico corteo arrivarono in cielo… Questa vetta, chiamata Serra del Dolcedorme o Cozzo della Principessa, è protagonista di un’altra storia che pare lo scenario della favola della “Bella addormentata nel bosco”. La zona ospita molti esemplari di una grande e complessa specie arborea risalente all’epoca dell’ultima glaciazione, il Pino loricato, che è diventato il simbolo del Parco del Pollino, un “fossile vivente” che in Italia è presente solo in questi luoghi, con i suoi ritmi millenari a noi sconosciuti : alcune piante, infatti, sono state datate a più di novecento anni fa. Sulla cima le sagome di questi monumenti arborei contorti e spesso ripiegati su se stessi dal vento, dal gelo e dalle intemperie, assumevano delle forme plastiche, quasi umane, per cui i pastori della montagna che, dal basso, le osservavano stagliarsi alla luce della luna, raccontavano, con timore reverenziale, che lassù vi fosse un luogo i cui abitanti erano addormentati in un sonno perenne... Sulla vetta della montagna c’è anche il luogo mitico in cui è nascosto il più antico tesoro del Pollino, custodito da famelici lupi che possono essere uccisi solo trafiggendone il cuore con uno stiletto di pietra. Così come avvolto da una paurosa leggenda è un animale mostruoso che si aggirava per il Massiccio, “u lifande-serpente”, un grosso serpente con la proboscide simile a quella dell’elefante, che risucchiava animali da pascolo ed era il terrore dei pastori. Fu ucciso proprio da questi grazie all’intervento di un magàro, uno stregone abile ad addomesticare sia i serpenti che gli elefanti. Continuando il nostro giro nella Città vecchia, Civita, la scopriamo piena di scorci caratteristici, di batacchi “apotropaici” sulle porte delle abitazioni, a forma di teste di leone o altre bestie che servono ad allontanare il male e le “fatture” dalla famiglia che vi dimora, di “supporti”, arcate tra vecchie costruzioni, che testimoniano di riunioni di magàre, e di viuzze in cui sembrano ancora risuonare i fischi dell’uomo dei serpenti, “u ceravularu” che portava con sé una cassetta di rettili che obbedivano ai suoi cenni, a tal punto che i padroni di orti e terreni gli affidavano la disinfestazione dalle serpi. Scendiamo per la Giudecca, gli antichi orti degli Ebrei che qui dimoravano e potevano tenere in base ad un’ordinanza i banchi dell’usura esclusivamente sotto un “supporto”, e giungiamo all’ultima tappa del nostro giro, la Chiesa di San Giuliano, avvolta da leggende che raccontano di messe celebrate nel passato alla presenza di un pubblico… di defunti. Ai lati la suggestiva fontana del Cavaliere o dei Templari, con tre visi di Cavalieri, di cui quello centrale ha in mezzo alla fronte un simbolo esoterico datato dagli esperti almeno a 500 anni fa, a ricordarci che Castrovillari fu anche sede di una domus dei Cavalieri Templari. Di fronte a noi il Colle dove si erge il Santuario di Santa Maria del Castello, Protettrice di Castrovillari, luogo dove la leggenda vuole che nel 1090 Ruggero, Conte di Calabria e Sicilia, figlio di Roberto il Guiscardo, ordinò di costruire un Castello che doveva dominare la città e servire da monito ai ribelli. Ma inspiegabilmente di notte crollava tutto quello che veniva costruito di giorno. Si cercò allora di scavare più a fondo per dare maggiore solidità, ma dagli scavi venne fuori l’effigie della Madonna, e questo fu visto come un evento talmente miracoloso che Ruggero si convinse a costruirvi non più un Castello, ma una Chiesa, dove l’immagine sacra nei secoli successivi fu molto venerata. In virtù di questa leggenda, alle pendici di Santa Maria del Castello si compie il percorso inverso che abbiamo vissuto finora. Non è più la Storia da cui prendono vita le storie del popolo, la sua quotidianità e il suo patrimonio culturale, ma questa strada della vecchia Civita che porta al Santuario, universo minore di povera gente, di magàre e ceravulàri, di leggende raccontate ai bambini sugli usci delle porte di ritorno dal lavoro dei campi o dalla mietitura… un giorno del 1535 è stata percorsa dalla Storia, quella che si studia sui libri. La leggenda aveva travalicato tutti i confini, e Carlo V d’Asburgo, l’Imperatore di un Universo su cui “il sole non tramontava mai”, la percorse religiosamente col suo corteo di ritorno dall’impresa di Tunisi, quando si volle recare dalla Madonna del Castello per omaggiarla e inginocchiarsi a pregare davanti all’effigie sacra. Ed ecco che giunge la risposta a ciò che mi chiedevo rispetto alla fioritura culturale di Castrovillari. Un popolo, riscaldato dalle proprie leggende e le cui tradizioni sono vive nella vita reale, è un popolo che fa fiorire l’immaginazione, che è il motore dell’apertura e del progresso. “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione” è una grande conferma che ci arriva dalla “sapienza” di un uomo come Albert Einstein.
di Maria Carmela Mugnano
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Dove? Lo sanno tutti, nelle scuole. Ma in quali? Di che ordine e di che grado? La prima volta, nel lontano 1979, la introdussero nella Scuola Media unica, quando tutte le discipline diventarono"educazione", in contraddizione con la permanente intitolazione del Ministero, quella di Ministero della Pubblica Istruzione, oggi Miur. La disciplina, "Educazione storica, civica e geografica", quattro ore in prima e seconda classe e cinque nella terza, venne modulata in due ore di Storia e Geografia per le tre classi e in una terza ora nella classe terza. Questa terza ora era destinata all'insegnamento dell'Educazione civica, essenzialmente la Costituzione. Io non so come si possa insegnare una Educazione, perché fare educazione è una cosa complicata e non si può fare solo con le parole e lo sapete meglio di me e ce ne ha dato un'attenta analisi, l’ultima, sul piano storico-pedagogico, dal tempo di Platone, Quintiliano e, se mi è permesso, Giovenale, ancora oggi insuperabile, J.J. Rousseau nell'ormai lontano XVIII secolo.
Ovviamente parliamo di educazione, nella Scuola, attraverso i saperi disciplinari e non dell’imporre, ai sempre riottosi pierini, il Galateo di monsignor Giovanni Della Casa. Com'è andata anche con i programmi del '79, quelli dell'educazione e non solo più dell'istruzione? Il fallimento è sotto i nostri occhi, sia dal punto di vista culturale che educativo. Non c'è più sia scienza che "canoscenza", o per dirla, insieme ai dotti, epistemologia e filosofia, tutti paroloni che hanno fatto fuori le miserabili “nozioni”, che hanno rovinato l’esistenza di tanti studenti del recente passato, come si dice in giro. Recente, fino ad una trentina di anni fa. Senza capire che senza nozioni, cioè senza ciò che è “noto”, non si può fare alcun ragionamento, neppure su CR7 o sul “recanatese” Messi. Figuriamoci se uno volesse “filosofare” sui massimi sistemi, senza conoscere “nomi e cognomi”, visto che è acquisito che nomina sunt substantia o consequentia rerum (senza i nomi le cose reali, a cui si riferiscono, non esistono).
“Educazione storica, civica e geografica” e tutte le altre Educazioni, quella linguistica, scientifica, religiosa, insomma quelle dette “curriculari”, divennero tutte "ancillae" (serve), non come la filosofia della teologia nel Medioevo, ma delle educazioni “extracurriculari”, in particolare quella musicale, che non ha sfornato ch'io sappia grandi musicologi e compositori, ma tanti, pur meritevoli, musicanti di bande paesane per la festa del Santo Patrono. Tullio de Mauro e Luigi Berlinguer tentarono disperatamente di riagganciarla alla madre, la Storia, quella che riflette sulle ombre della Caverna, per meglio vivere e progettare il futuro "continuo", cioè il presente, nel senso che l'inevitabile fiume del panta rei (tutto scivola via) non lo fa esistere. Strano a dirsi, dagli anni '80 in poi del secolo scorso, subito dopo i citati Programmi del '79 e senza che essi, secondo me, ne siano stati la causa, la vita quotidiana italiana è precipitata, con fluttuazioni costanti verso la risacca, nella situazione attuale, nella quale Zingaretti, giustamente e finalmente qualcuno lo dice, dopo i terribili episodi di cronaca di questi ultimi giorni, perfettamente uguali a quelli dei giorni precedenti e, ormai, di sempre, vede il disastro "anarchico" dei territori e delle periferie urbane abbandonate al dominio malavitoso. Altro che decreto Sicurezza! Sembrano Beirut di tanti anni fa, ricordando però che, dove è tornato l'ordine con la forza, non è tornata la pace, ma “l’intervallo tra due guerre”. Ma a me viene un atroce sospetto, che con gli anni è diventata certezza, che tutta questa dialettica eraclitea o hegeliana, tra "rivoluzione" e "pace", non ha portato la Storia ad avvicinarsi, per quanto le sia possibile, al cuore del problema dell'umanità, quello di uscire dalla Caverna e contemplare con gli occhi, non più nei suoi riverberi, la Verità, alla quale tendiamo come il ferro alla calamita. Sarà l'ennesima imbiancatura, il ritorno dell’Educazione civica nella Scuola, imbiancatura che, per quanto piccola, serve ai nostri legislatori, nomoteti (la politica) e fiulaches (la burocrazia apicale), per rendersi invisibili nei loro veri fini. Nella “cultura” e nella scuola, da sempre tutti gli impostori hanno trovato il loro anello di Gige per apparire e scomparire a seconda delle circostanze pur di acquisire seguaci, oggi followers ovviamente non disinteressati.
Emanuele Vernavà
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... È qui, da queste creste inchiodate al cielo, che spiccano il volo angeli e streghe all'inseguimento dei falconi, principi delle vette, sul confine incerto fra la veglia e il sonno.
(Mimmo Sammartino, Vito ballava con le streghe)
Lucania, altro e originario nome della Basilicata, che in tempi lontani aveva confini diversi dagli attuali, deriva dal latino lucus (bosco consacrato). Ancora oggi rimane preponderante il carattere boschivo di questa terra, con i suoi Parchi nazionali e regionali e le tante Riserve naturali che abbracciano gran parte del suo territorio. È anche vero, però, che la matrice di lucus è lux (luce) e, a questo punto, sembrerebbe crearsi una contrapposizione tra “la luminosità” espressa nella radice primaria e “l'ombra”, che è la naturale condizione del bosco. L'obiezione può essere però superata da un ulteriore e più profondo significato di lucus, che riguardava una zona aperta e luminosa del bosco, una piccola radura destinata al culto e ai sacrifici. Lo stesso termine, pertanto, richiama l'ombra e la luce, il chiaro e lo scuro, superando antitesi che vengono mediate in un contesto sacro.
Si potrebbe pensare che, da millenni, questa terra di boschi e la sua gente abbiano presente già nel loro nome l'immersione in una natura che viene vissuta con religiosità (e di questo danno testimonianza molti riti di origine arcaica legati agli alberi e ai boschi), oltre ad una naturale aspirazione alla luce. Una luce considerata nel suo aspetto sacrale in quanto viene dall'alto e richiama verso l'alto, non appartiene alle cose del mondo ma alla sfera celeste.
Pensando al territorio lucano molto ci parla di una sua propensione morfologica verso l'alto, quasi un volersi staccare dalla terra, utilizzata nei secoli per motivi strategici o difensivi o strutturali, ma che di fatto realizza un' elevazione verso la luce del cielo.
La stessa città di Potenza, capoluogo regionale, è una città verticale che si dipana in un crescendo di salite e scale mobili che tendono a raggiungere il suo centro storico posto a 800 metri s.l.m. E qui l'attesa di chi sale a piedi viene premiata dalla suggestiva vista del prospiciente crinale montagnoso che talvolta si erge al disopra di un nugolo di nubi basse che sembra quasi di toccare. O dall'aria e dall'atmosfera particolare che si respira nelle sue vie e viuzze intorno al Duomo di San Gerardo, a Piazza Mario Pagano, o ai tanti scorci caratteristici.
Ma, rimanendo su tracce che portino il più in alto possibile, il percorso lucano conduce inevitabilmente a una trentina di chilometri da Potenza, al cospetto delle piccole Dolomiti lucane, uno spettacolare esempio di ascensione del territorio dove ben presto però ci si accorge che l'aspirazione alle altezze è declinata sotto altri importanti aspetti.
Su rocce arenarie dell'era miocenica, sospesi in una dimensione irreale che non appartiene più alla terra, ma che, pure nella sua penetrante tensione, non riguarda ancora il cielo, i due paesi di Castelmezzano e Pietrapertosa si presentano come diademi incastonati nei massi e nei pinnacoli che li incoronano. L'impressione che si trae dall'incredibile scenario naturale che li circonda è che una parte della terra, che quindici milioni di anni fa apparteneva al mare, abbia voluto emergere e trovarsi qui ad aspettare la Storia e quella parte dell'umanità che le dessero un senso vivo e con le quali inscindibilmente congiungersi. Qui viene testimoniata al mondo, più che in altri luoghi, la felice e naturale osmosi tra l'uomo, creatura mortale e bisognosa di protezione, e la roccia immortale ed eterna. Una roccia che ripara, abbraccia e gradatamente si fonde con l'abitato e la sua vita, cedendo a questi una parte della sua eternità e assumendone in cambio una parte mortale, diventando casa essa stessa.
Ed è un senso di eterno che si riflette nel lento e cristallizzato fluire del tempo sulle piccole Dolomiti lucane e nei suoi luoghi incantati.
La prima di queste località è Castelmezzano, un paese di circa 800 abitanti, a pieno titolo uno dei “borghi più belli d'Italia”. Di più : è stato definito da un importante magazine statunitense, Budget travel, il posto più bello al mondo tra quelli sconosciuti. Difatti, sulla balconata panoramica davanti alla chiesa di S. Maria dell'Olmo, l'abbraccio fiabesco del paese, tra vette, anfratti e dirupi, alle maestose cattedrali di guglie rocciose, fa vivere una sensazione profonda che apre il cuore e vi trasferisce un'immagine che rimarrà indelebile anche nel visitatore più distratto.
Castelmezzano è sorta intorno al 900 d.c. dall'esodo degli abitanti di Maudoro, “mondo d'oro”, una località fondata nella valle del Basento da coloni greci intorno al VI secolo a.c. Per sfuggire alle incursioni saracene che dilagavano nella valle essi si spostarono in un luogo non lontano, inaccessibile e fortificato in maniera naturale dalle montagne, seguendo l'esempio di un pastore, Paolino, che con il suo gregge fu il primo a insediarsi tra questi fortilizi di pietra. Paolino trovò qui un piccolo paradiso, acqua sorgiva e abbondanti pascoli per le sue bestie, e soprattutto un importante arma contro gli invasori : gli imponenti massi che potevano essere fatti rotolare dai costoni per tenerli lontani. Questa memoria storica, tramandata in maniera viva di generazione in generazione, ha fatto sì che nel dialetto locale le rocce vengano chiamate “arm” , comedire che la loro funzione difensiva originaria si è sostituita al nome proprio ed è diventata nome essa stessa. La scelta, da parte degli abitanti, di legare i massi rocciosi a quelle che erano le antiche esigenze della popolazione rivela un grande amore per le origini e un alto riconoscimento e senso di gratitudine per queste montagne. E nel nome dell'arm, da quasivent'anni, qui si promuove un importante evento regionale : l'assegnazione del Premio “L'Arm d'argento” a una personalità o ad un'istituzione lucana che si è particolarmente distinta nel settore di appartenenza.
Ma il suo nome Castelmezzano non lo deve a quei primi abitanti che vi trovarono riparo, bensì ai Normanni nell'undicesimo secolo, che assicurarono al paese un periodo di pace e stabilità e un rafforzamento delle difese contro i nemici con la costruzione di una fortezza, i cui ruderi oggi dominano l'abitato e sono raggiungibili attraverso uno scenografico percorso naturale. Castrum medianum era il suo nome da cui deriva quello attuale, cioè “Castello di mezzo” (tra quello di Pietrapertosa e quello di Albano di Lucania, o di Brindisi di Montagna).
Dal Castello fortezza, poi, una stretta scala scolpita in una roccia, la scalinata normanna, arriva a quasi mille metri, punto di avvistamento e osservazione privilegiato con una estesa visuale della valle del Basento. Il nastro dei gradini, scavati in uno degli ultimi lembi di pietra protesi verso l'alto, può ancora essere percorso con le dovute protezioni, come se quella scala, anticamente realizzata per motivi strategici, oggi possa costituire un elemento di congiunzione con l'alto per chi vi sale con i piedi assicurati alla terra e gli occhi e la mente librati nel cielo.
Per le sentinelle normanne dell'epoca cos'altro avrebbe mai potuto realizzare la mano dell'uomo per osservare da vicino il volo dei nibbi e dei falconi, oltre quella stretta salita da cui presidiavano il territorio? Sicuramente nulla... e non avrebbero immaginato che un millennio dopo qualcuno sarebbe stato capace di riprodurre tra queste vette... il volo, proprio quello dei nibbi e dei falconi... o degli angeli.
È dal 2007 che un progetto all'avanguardia offre la possibilità di percorrere in volo, imbracati e agganciati ad un cavo di acciaio, la distanza in aria di un chilometro e mezzo tra una cima di Castelmezzano e una di Pietrapertosa, e viceversa, a circa mille metri di altezza e quattrocento dal suolo, raggiungendo la massima velocità di centoventi km orari. Sopra boschi, rocce dai profili animali, sorgenti e corsi d'acqua, a braccia aperte come un angelo... il volo dell'angelo, appunto, che qui richiama ogni anno da maggio a ottobre migliaia di presenze.
Ma anche altri voli ammaliano i turisti amanti della cultura popolare in un paese magico come questo.
Oltrepassando la Chiesa di S. Maria dell'Olmo e avviandosi fuori dall'abitato, si scoprono storie fantastiche, tramandate dalle vecchie generazioni, che parlano di creature che condividevano le altezze del cielo con angeli e falconi... ma come presenze oscure e maligne : le masciare, le streghe. In questi racconti si descrive come esse, cospargendosi di un olio magico e pronunciando un'antica formula rituale, spiccassero il volo in groppa a cani bianchi, alla ricerca di uomini e donne da attrarre e fascinare con i loro sortilegi.
Con un'operazione culturale molto interessante questa parte vitale delle radici popolari è stata impressa nel territorio, affinché la si possa conoscere o rievocare. Tra Castelmezzano e Pietrapertosa, utilizzando un antico sentiero di collegamento tra i due paesi, è stato realizzato il Percorso delle sette pietre, un cammino sensoriale segnato da suggestive pietre monolitiche e attinto dal libro di Mimmo Sammartino, Vito ballava con le streghe, che esprime la poesia e il fascino di antiche leggende raccontate dai vecchi attorno ai focolari.
Sette tappe scandiscono il percorso : Delirio, Ballo, Volo, Streghe, Sortilegio, Incanto, Destini, e ad ogni tappa sono collegati dei sensori fonici che, nel silenzioso del bosco o del paesaggio, diffondono voci arcaiche e suggestive... Sette capitoli di pietra che si dipanano tra alberi, cerchi magici, archi attraverso i quali sembra di superare dei confini, così come dal passaggio del ponte romano si attraversa il confine territoriale tra i due paesi... e ancora discese e salite che raccontano una storia :
... C'è una storia di pietra che è lunga duemila metri e molto di più. Il suo passo porta il fruscio dell'erba, le musiche dei fiori e dei ruscelli e il ritmo di ogni sasso perché questa è una storia impastata di acqua e di terra, di voci e di altri incanti. Per chi vuole ascoltare le pietre raccontano...
La storia è quella di Vito, un contadino che ha avuto una fascinazione dalle streghe, dalle quali è stato rapito e coinvolto in un ballo frenetico, e conosce la magica esperienza del volo e altro ancora, andando incontro al suo destino... Alla fine del percorso non possono che tornare in mente gli antichi versi, più volte ripetuti negli incantamenti della storia :
Haia scì nda nu vosch strem' / ndo nun si senton' / né campan' d' sunà / né cristian' d' passà / né gadd' d' cantà.
(Devi andare in un bosco remoto / dove non si sentono / né campane suonare / né persone passare / né galli cantare.)
Tornando in paese con l'anima piena di suggestione si può comprendere come tanti turisti siano stati richiamati qui dalle bellezze naturali del luogo, dal Volo dell'Angelo, dal Percorso delle sette pietre e da altri eventi tradizionali e spettacolari. E molti si fermino... e qualcuno scelga di rimanere. Nelle vie e viuzze del paese, linde e pulite, l'anima castelmezzanese si rivela anche attraverso gli odori e i sapori della tradizione : i peperoni, che, seccati al sole nella bella stagione, poi verranno fritti e diventeranno cruschi, indispensabile complemento di tanti piatti locali, o le crostole, un dolce di strisce di pasta fritta dai semplici ingredienti... ma che solo mani sapienti sanno rendere in tutta la loro genuina bontà.
All'esterno di alcune abitazioni si notano ancora i forni in cui la famiglia cuoceva il pane. La cultura del grano e del pane era l'elemento portante di questo mondo contadino, imprescindibile anche sulle tavole più povere. Il salario giornaliero del bracciante o dell'operaio veniva sempre commisurato al costo del pane, e nell'immaginario popolare per indicare gli stati di abbondanza, o di privazione e disgrazia, veniva sempre richiamato il pane.
Il ritornello di un'antica canzone tradizionale lucana, volendo esemplificare la disperazione, dice : ... Nun vole fa cchiò notte e jurne / s'è nchiummate lu pane nta lu forne... (... Non vuole più far notte e giorno / si è fatto piombo il pane nel forno.)
E il pane realizzava anche dei legami nella comunità. Non si pensava solo a prepararlo per la propria casa, ma poiché il profumo del pane cotto si spandeva nelle viuzze e attirava i vicini, si cuoceva sempre qualche pagnotta o qualche focaccia in più... Questi erano i tempi del profumo dei forni...
Si affacciano alla mente i versi semplici e immediati di una poesia di Rocco Scotellaro, scrittore e poeta lucano, che nella sua breve vita è stato vicino ai braccianti, ai contadini, alle classi più umili :
...Torna, è ora che assaggi molliche di pane, / l'odore dei forni come te lo manderemo?.... (America scordarola).
Tornando nella Storia il pane era anche uno degli elementi della carità di un importante Ordine religioso cavalleresco, nella cui Regola era prescritto di dare ogni giorno la decima parte del pane in elemosina, i Cavalieri Templari, che si pensa avessero qui una magione lungo la loro marcia verso la Terra Santa.
In tal senso vi sono importanti testimonianze, a cominciare dalla piccola effigie della Madonna della Stella mattutina nella Chiesa di S. Maria dell'Olmo, Madonna per la quale i Cavalieri Templari avevano un grande culto. L'effigie è stata realizzata nel 1117, proprio negli anni in cui veniva costituito il primo nucleo dell'Ordine Templare. E, sempre nella stessa Chiesa, si è scoperta un' architrave con una Croce attribuita ai Templari che, con con questo e altri simboli, testimoniavano la loro presenza nei luoghi. Inoltre lo stesso stemma del Comune di Castelmezzano riprende “il sigillo templare” di due Cavalieri sullo stesso cavallo. Ma questa riproduzione è stata fatta in maniera diversa e interessante rispetto all'originale che riportava allineati due Cavalieri dello stesso Ordine. Nello stemma cittadino, invece, uno dei due Cavalieri è Moro ed è rivolto all'indietro.
Poiché in tanti abitanti si è persa la memoria storica della differenziazione, pare questo quasi un segnale che si riallaccia, in conclusione, a quella dualità richiamata nello stesso nome della Lucania... il chiaro e lo scuro, l'ombra e la luce, due aspetti che convivono e si valorizzano a vicenda perché non esisterebbero l'uno senza l'altro... il Cavaliere che guida e l'altro, di diversa razza, che guarda le spalle... ed entrambi condividono lo stesso cavallo.
Maria Carmela Mugnano
Ringrazio :
Il Gruppo Creativo Rossellino di Potenza, grazie al quale è iniziata questa avventura.
Patrizia Ruggiero Di Giovanni,di Potenza (B&B Dolcedorme), per la documentazione e il gentile ed entusiastico supporto;
Michele Soldo, di Castelmezzano, musicista, compositore, Presidente dell'Associazione “La contemporanea” promotrice del Premio “L'Arm d'argento”, guida preziosa nel Percorso delle sette pietre e nella scoperta del borgo e delle sue tradizioni;
La Cittadinanza di Castelmezzano, per l'accoglienza e la familiarità dimostrate.
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Signore e signori buon pomeriggio qui a Maratea e mille volte grazie agli organizzatori di questo evento per avermi invitato a sedere tra i relatori, per esprimere una mia opinione – si tratta solo di un’opinione – in merito ai fatti storici che si sono svolti in Italia e particolarmente nell’Italia del Sud a cavallo dell’unità, pochi anni prima e pochi anni dopo.
Storia saputa e risaputa, scritta e riscritta, sceneggiata e cantata. E raccontata. Eppure, voi, cari signori, anche voi, come tanti altri, continuate a chiamare quel fenomeno sociale Brigantaggio. E non avete cura, probabilmente anche voi, come tanti altri, a ribellarvi alla denominazione che altri hanno imposto sul popolo, anche sul nostro popolo, che si è fatto scivolare sulla pelle fatti storici (fatti, non parole, si badi bene) scritti ad arte e falsamente definiti.
Il termine Brigantaggio è un falso storico. È falso parlare di brigantaggio meridionale post-unitario.
Il termine Ribellione è il vero storico. Parlare di Ribellione meridionale post-unitaria è il vero storico.
Cominciamo col dire che c’è una questione filosofica di fondo e raccontiamola con una sottolineatura di carattere etimologico.
Ernesto Miranda, filosofo, recensendo il mio racconto “Una messa per Carmine” (Crocco), così scrive: “Il termine brigante è participio del verbo brigare e allude all’attaccar briga, al far parte di una brigata militare, all’esercitare violenza. Il termine ribelle, invece, discende dal latino rebellem che letteralmente significa chi ricomincia (re) la guerra (bellum). La ribellione indica dunque la resistenza di chi non si arrende alla sconfitta e torna ad impugnar l’arme”. E aggiunge: “La differenza tra ribelle e brigante, così come emerge anche solo a livello linguistico, è una differenza di valore che cade entro il confine dell’etica e può essere così specificata: tanto il ribelle quanto il brigante fanno esercizio della violenza: ma se il secondo usa la violenza per avidità e cupidigia, incurante delle vittime del suo depredare e uccidere, il primo usa la violenza solo perché costretto a rispondere alla violenza e assegna al suo operato un significato etico. Il ribelle si difende: difende la sua famiglia, la sua casa, la sua terra, la sua dignità e non può farlo se non facendo ricorso alla violenza. Il brigante è insomma un criminale che ingiustamente fa ricorso alla violenza; il ribelle è un uomo che giustamente si ribella alla prevaricazione, ripagando l’oppressore con la stessa moneta”. E infine conclude: “Ma non riesco a leggere il libro del prof. Tucciariello prescindendo da questo riferimento alla necessità della resistenza e all’urgenza di una ripresa dell’impegno etico e politico forte. Così come non riesco a leggerlo senza assegnargli un preciso riferimento alla attualità. Io penso che la ribellione di Carmine Crocco, così come è stata raccontata e “celebrata” da Tucciariello stia lì, come un monito, ad incitarci a non arrenderci all’inerzia di un presente senza futuro e immemore del passato. Perché la passività, l’inerzia, l’accidia sono, forse, in questo tempo di resa incondizionata alle “ragioni” del più forte, la forma peggiore, benché meno visibile, di violenza”.
Ma veniamo ai fatti. Ho lunga esperienza di insegnamento di storia (e di filosofia) nei licei classici, dove ho imparato che presentare agli studenti, i fatti, sia la cosa tra le più oneste e più serie che si possano fare per rispetto di tutti, di me e rispetto per gli studenti (per taluni non sempre è stato ed è così, non si contano le omissioni, le devianze, i falsi storici).
Nel 1860 l’Italia comprendeva i seguenti stati:
Il Regno di Sardegna. Il territorio comprendeva il Piemonte, la Liguria, la Savoia, Nizza, il Principato di Monaco e la Sardegna.
Il Regno Lombardo-Veneto.
Ducato di Parma. Ducato di Modena. Granducato di Toscana.
Lo Stato Pontificio.
Il Regno delle Due Sicilie.
Proviamo a mettere i due stati a confronto
Regno delle Due Sicilie: estensione 112 mila kmq; 9 milioni di abitanti circa.
Regno di Sardegna: 74 mila kmq, 7 milioni di abitanti circa
La popolazione dell’intera penisola era di 21 milioni di abitanti circa.
I due stati, uno a nord l’altro a sud, non erano confinanti, non avevano occasioni di belligere, non avevano rapporti economici o conflitti commerciali significativi.
Guardiamo la forza militare
Regno di Sardegna, 80 mila uomini nel 1859. I soldati, circa 60 mila, venivano ovviamente pagati: 15 centesimi al giorno in tempo di pace, 25 centesimi in tempo di guerra. Gli ufficiali, circa 20 mila, prendevano il doppio. A queste spese bisogna aggiungere armamenti, massa vestiaria, cibo, spostamenti ecc., risorse economiche spese per le ambizioni sfrenate della dinastia Savoia, una dinastia bellicosa, belligerante, sempre in guerra. Quali guerre?
Guerra di successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631, siamo all’interno della Guerra dei Trent’anni), Guerra della Lega di Augusta (fine 1600), Guerra di successione spagnola (1702-1714, tra Inghilterra, Francia, Olanda, Prussia, Savoia), Guerra di successione polacca (1733-1738), Guerra di successione austriaca (1740-1748, qui vi partecipò anche il re di Napoli e Sicilia, coinvolto dall’Inghilterra che voleva allontanare dall’Italia meridionale i Borbone di Spagna; in questa modo si consolida il Regno di Napoli), Prima guerra di indipendenza italiana (1848-1849 contro l’Austria), Guerra di Crimea (1853-1856 tra Inghilterra, Francia, Austria, Sardegna contro la Russia), Seconda guerra di indipendenza (aprile-luglio 1859). Sono una lunga serie di guerre dei Savoia che miravano ad espandersi al nord-est dominato dall’Austria. E mentre i Savoia si impegnavano in questa lunga serie di guerre in cerca di territori da conquistare (il vizietto della guerra i Savoia l’hanno sempre avuto, fino a portarci in due guerre mondiali nel secolo scorso), il Regno di Napoli e di Sicilia, dal 1734, anno della sua ufficiale costituzione, si impegnava invece in una lunga e felicissima serie di provvedimenti per l’ammodernamento progressivo dello stato. Si avvertirono subito sviluppo economico, forte produzione agricola e scambi commerciali favorevoli.
Nel 1755 venne istituita nell’Università di Napoli la prima cattedra di Economia in Europa “Cattedra di commercio e di meccanica”.
Nel Palazzo Reale di Portici il re istituì il museo archeologico in cui furono raccolti i reperti dei recenti scavi di Ercolano e di Pompei.
Primati attribuibili al Regno delle due Sicilie
1735. Prima Cattedra di Astronomia in Italia
1737. Costruzione S.Carlo di Napoli, il più antico teatro d’Opera al mondo
1754. Prima Cattedra di Economia al mondo
1762. Accademia di Architettura, tra le prime in Europa
1763. Primo Cimitero Italiano per poveri (Cimitero delle 366 fosse)
1781. Primo Codice Marittimo del mondo
1782. Primo intervento in Italia di Profilassi Antitubercolare
1783. Primo Cimitero in Europa per tutte le classi sociali (Palermo)
1789. Prima assegnazione di “Case Popolari” in Italia (San Leucio a Caserta)
1789. Prima assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)
1792. Primo Atlante Marittimo nel mondo (Atlante Due Sicilie)
1801. Primo Museo Mineralogico del mondo
1807. Primo Orto Botanico in Italia a Napoli
1812. Prima Scuola di Ballo in Italia, gestita dal San Carlo
1813. Primo Ospedale Psichiatrico in Italia
1818. Prima nave a vapore nel mediterraneo “Ferdinando I”
1819. Primo Osservatorio Astronomico in Italia a Capodimonte
1832. Primo Ponte sospeso, in ferro, in Europa sul fiume Garigliano
1833. Prima Nave da crociera in Europa “Francesco I”
1835. Primo Istituto Italiano per sordomuti
1836. Prima Compagnia di Navigazione a vapore nel Mediterraneo
1839. Prima Ferrovia Italiana, tratto Napoli-Portici
1839. Prima illuminazione a gas in una città italiana, terza dopo Parigi e Londra
1840. Prima fabbrica metalmeccanica d’ Italia per numero di operai (Pietrarsa)
1841. Primo Centro Sismologico in Italia, sul Vesuvio
1841. Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia
1843. Prima Nave da guerra a vapore d’ Italia “Ercole”
1843. Primo Periodico Psichiatrico italiano, pubblicato al Reale Morotrofio di Aversa
1845. Primo Osservatorio meteorologico d’Italia
1845. Prima Locomotiva a vapore costruita in Italia a Pietrarsa
1852. Primo Bacino di Carenaggio in muratura in Italia (Napoli)
1852. Primo Telegrafo Elettrico in Italia
1852. Primo esperimento di illuminazione elettrica in Italia, a Capodimonte
1853. Primo Piroscafo nel Mediterraneo per l’America (il “Sicilia”)
1853. Prima applicazione dei princìpi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi
1856. Expò di Parigi, terzo paese al mondo per sviluppo industriale
1856. Primo Premio Internazionale per la produzione di Pasta
1856. Primo Premio Internazionale per la lavorazione di coralli
1856. Primo sismografo elettrico al mondo, costruito da Luigi Palmieri
1860. Prima Flotta Mercantile e Militare d’Italia
1860. Prima Nave ad elica in Italia “Monarca”
1860. La più grande industria navale d’Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia)
1860. Primo tra gli stati italiani per numero di orfanotrofi, ospizi, collegi, conservatori e strutture di assistenza e formazione
1860. La più bassa mortalità infantile d’Italia
1860. La più alta percentuale di medici per numero di abitanti in Italia
1860. Primo piano regolatore in Italia, per la città di Napoli
1860. Prima città d’Italia per numero di Teatri (Napoli)
1860. Prima città d’Italia per numero di Tipografie (Napoli)
1860. Prima città d’Italia per Pubblicazioni di Giornali e Riviste (Napoli)
1860. Primo Corpo dei Pompieri d’Italia
1860. Prima città d’Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli)
1860. Primo Stato Italiano per quantità di Lire-oro conservata nei banchi Nazionali (443 milioni, su un totale 668 milioni messi insieme da tutti gli stati italiani, compreso il Regno delle Due Sicilie)
1860. La più alta quotazione di rendita dei Titoli di Stato
1860. Il minore carico Tributario Erariale in Europa
Era questo un popolo da liberare dalla barbarie dei Borbone? Era forse questo il sud che andava risollevato e restituito alla civiltà dei Savoia e dei giacobini nostalgici della rivoluzione francese?
E per liberare il sud dall’oppressione dei Borbone, Cavour manda Garibaldi con i suoi mille uomini, i mille eroi (?) che sbarcano in Sicilia e travolgono la resistenza dei soldati borbonici. Ma quanti ne erano? Qual era la consistenza dell’esercito borbonico? 72 mila soldati in tempo di pace.
E contro quei 72 mila uomini del sud, la retorica risorgimentale racconta che sono bastati mille garibaldini per aver vinta una guerra, un’altra guerra del risorgimento italiano. Ora, invece, gratta gratta tra le carte, lo storico trova che due navi da guerra inglesi hanno dato appoggio allo sbarco dei garibaldini (in realtà gli inglesi erano interessati alle 636 miniere di zolfo in Sicilia, e a contrastare la potente flotta commerciale borbonica che intralciava i piani egemonici degli inglesi sugli empori del Mediterraneo). Lo storico trova anche che 20mila soldati borbonici di stanza a Messina non vengono fatti uscire dalle fortezze, rimasti chiusi dai tanti ufficiali evidentemente corrotti dai Savoia, tant’è che essi vengono recuperati nei quadri militari dei piemontesi. Piani di occupazione ben preparati, che un re inetto, il giovanissimo Francesco II, appena 23enne e da meno di un anno succeduto al padre Ferdinando II, non riuscì a fronteggiare. Un piano molto ben organizzato per mettere le mani sulle ricchezze, dico ricchezze, di Napoli, di Palermo e del Regno.
Ho cercato anche di capire fino in fondo chi erano in realtà i sovrani di Napoli, cattolicissimi, da Carlo III, primo re, a Ferdinando II nato a Palermo, a Francesco II nato a Napoli, e quali le capacità, come quella di realizzare a Pietrarsa il più grande stabilimento metalmeccanico in Italia, 700 addetti, così famoso che lo zar di Russia, Nicola I, visitandolo di persona, lo prese a modello per le sue industrie di acciaieria di Kronstadt, vicino a San Pietroburgo. Erano sovrani, per quei tempi, molto capaci, molto vicini al popolo. Non mi fraintendete. Tra il 1700 e il 1800 in Italia e nel mondo conosciuto non c’erano cittadini ma sudditi. Seppure in questo quadro, le radicali trasformazioni dello stato migliorarono in maniera significativa. Non ho tempo qui per soffermarmi oltre sulle condizioni di miseria dell’Italia (e dei paesi più noti) tra il 1700 e il 1800, di analfabetismo e di sfruttamento, al sud come al nord. Qui mi interessa ragionare sui motivi dell’occupazione selvaggia del sud ad opera dei Savoia e sulle conseguenze. Non viene altro in mente, ad uno che come me lavora sulla ricerca storica dei fatti e delle condizioni che li hanno determinati, che definire quell’occupazione la pretesa, riuscita perfettamente, di mettere le mani sulla ricchezza, sul prestigio, sull’economia del Sud per rimpinguare le casse dello stato piemontese allo stremo per le interminabili guerre che hanno affrontato, e non per difendersi. Quell’occupazione ha determinato povertà e miseria al sud (fabbriche chiuse e processi migratori) ed ha determinato la progressiva ricchezza del nord. Le radici della povertà del sud sono da rintracciare in quell’occupazione. Certo che oggi non si giustificano più. La povertà e l’economia a brandelli del sud sono riconducibili solo all’incapacità di politici ed amministratori di pensare al bene comune, privilegiando essi il bene molto privato e molto personale e le clientele per interessi elettoralistici e quindi privati (la pubblica amministrazione ne è strapiena). Povertà. Emigrazione.
Con l’occupazione del Sud del 1860, 120 mila soldati piemontesi in questi territori si stabiliscono, per combattere ed annientare tentativi di rivolta e di ribellione, che chiamarono brigantaggio quel fenomeno, e quegli uomini, definiti dalla propaganda del nuovo regime, briganti e bestie.
Basta questa brevissima premessa, per il brevissimo tempo a mia disposizione, per dire che il mio compaesano Carmine Crocco, e i suoi uomini, sono gente che si è ribellata, al vecchio come al nuovo regime, per le condizioni di miseria gravanti pesantemente sulle spalle dei più deboli? Scriveva Antonio Gramsci, filosofo e storico, nel 1920, un secolo fa:
“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”. Dopo 150 anni, l’infamia continua.
Dovrei ora parlare di Carmine Crocco, il più famoso ribelle post-unitario, che per circa 4 anni ha tenuto nel sacco un esercito di 120 mila uomini al soldo dei Savoia? Parlare di Crocco e dei suoi ribelli? È stato scritto molto, spesso il falso, sulla ribellione post-unitaria, e troppo poco sulle stragi ai danni del popolo del sud in quei quattro anni e sulle condizioni che hanno determinato povertà e miseria sul nostro popolo. Ripeto, oggi miseria e povertà qui non sono più giustificabili, perché sulla classe politica meridionale grava pesantemente la responsabilità di tali disastri (guardate, i nostri ragazzi sono quasi tutti via).
Ho scritto un racconto su Crocco, “Una messa per Carmine”, che la prof.ssa Susanna Dubosas, madre lingua, dell’Università di Basilicata, ha sapientemente tradotto in lingua inglese.
Perché ho preferito il racconto? L’ho spiegato.
“I racconti sono come il dialetto, spesso non riesci a tradurlo mai abbastanza correttamente nella sua straordinaria portata semantica, la lingua italiana non riesce a cogliere il significato più autentico, ogni termine dialettale racconta il suo mondo interiore, la sua religione, il suo spirito, il suo sentire. I racconti sono ciò che il popolo sente”. Appunto come il dialetto. Nel panorama linguistico italiano il dialetto è l’altra sponda, immaginazione invenzione creatività. Il dialetto spesso dipende da un utilizzo della lingua, quella parlata. È una modalità abbastanza singolare di percepire la realtà e di definirla in termini sintetici ed efficaci, è esercizio di parola, ossia misura la capacità di raccontare e di esprimere emozioni. Il dialetto è ciò che il popolo sente, appunto come il racconto. L’evoluzione della lingua italiana non prescinde dal dialetto. Perciò ho preferito raccontare la vicenda umana di Crocco e dei suoi ribelli. Col racconto conduco alla commozione, coltivo il sentimento, conduco a necessità etiche urgenti. Il dialetto, il proverbio, hanno a che fare col senso di appartenenza. Lo scrivevo un anno fa presentando a Potenza il libro “Proverbi, detti e sentenze” del prof. Giuseppe Biscione. “Il dialetto, il proverbio, è carta di identità, è appartenenza, è padronanza, è legittimazione. Il proverbio popolare diventa vita del popolo, è il sentire del popolo, l’ethos popolare, è ciò che il popolo sente, un’auscultazione di pascoliana memoria – il mistero che sta al di là delle cose - è il sentire più intimo, più interno, quello della coscienza che è tale perché fondata su solide radici. L’ethos è l’oggetto proprio dell’etica, parte essenziale della filosofia”. Quell’ethos, teniamolo pure sullo sfondo, come il crocifisso nelle nostre case, ma guardiamolo, attingiamo da esso ciò che di meglio comunica. Cosa? Le radici. L’appartenenza. Perciò, parlando del mio compaesano Carmine Crocco e dei suoi uomini, ho preferito il racconto. E voi, anche voi, provate a chiamarli Ribelli. Suona meglio, Crocco e i suoi Ribelli. E con me favorite il vero nella Storia.
Maratea, 10 maggio 2019 Pasquale Tucciariello
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Da queste parti si fa educazione. A volte non si comprende bene perché si vuole insistere ad educare. L'uomo sbaglia e lo educhi, offende e lo educhi, pecca e lo educhi, uccide e lo educhi. La società italiana fa ogni sforzo per recuperare alla cittadinanza anche il soggetto che si è macchiato di crimini efferati, di violenze inaudite, di oscenità spaventose sicuramente perché al fondo di ogni intervento di recupero vi è il concetto secondo cui il soggetto è persona portatrice di valori umani non negoziabili, è immagine presente riflettente altra immagine ed altre ancora a vantaggio di un tempo storico incerto quanto si vuole per i cambiamenti anche imprevedibili, ma pur sempre un'era vitale portatrice di certezze. Difatti siamo certi della possibilità di una educazione possibile per ogni persona ed ovviamente della responsabilità che la accompagna. È un ottimismo della persona non strategico, ma innaturato nella portata dell'uomo. Il pessimista non può fare educazione. È meglio che cambi mestiere. Nel corso del suo pontificato Benedetto XVI ha parlato spesso di emergenza educativa. Noi che lavoriamo sul campo sappiamo bene quanto veritiera sia la sua preoccupazione. E anche per questo il Centro Studi Leone XIII e la rivista-laboratorio "Quaderni di incontri e dialoghi" da esso edita accolgono con favore il presente studio del prof. Emanuele Vernavà “La responsabilità di essere EDUCATORI”. Chi leggerà, troverà non didattiche indiscutibili o dogmi pedagogici intoccabili. Le verità educative non esistono indipendentemente dalla prospettiva di chi le considera tali. Chi leggerà troverà invece lo sforzo di ricerca da parte di chi ha dedicato la sua vita ed il meglio delle sue energie intellettuali per l'insegnamento e per la scuola, troverà la certezza di una possibilità educativa e poi percorsi, e riflessioni, e strategie, e argomentazioni, e sofferenze, e impeto, tutte condizioni rese possibili per chi - insegnante - si lascia trascinare dalla sua natura di persona volta verso la persona.
Pasquale Tucciariello
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Qual è l’edificio pubblico più qualificante della comunità rionerese? Se escludiamo Palazzo Giustino Fortunato, in quanto casa gentiliziaa e non edificio pubblico, potremmo certo pensare al campanile dell’Orologio della Costa. E poi? Senza dubbio l’edificio scolastico del Piano Regolatore.
Il progetto originario risale al 1948 ad opera dell’ingegnere Amorosino e venne approvato in consiglio comunale con plauso per “opera veramente degna”. La costruzione è stata realizzata in più tappe e solo alla metà degli anni ’60 ha raggiunto la sua attuale forma compiuta. Oltre 15 anni di fabbricazione che non sono passati invano, se consideriamo che hanno prodotto un edificio di così alto pregio architettonico.
L’organismo edilizio si compone di un corpo centrale costituito da due torri laterali poste a guardia dello scalone monumentale di accesso. Da qui si dipanano le ali dove trovano posto le aule con spazi generosi, ben proporzionali, areati e soleggiati. Il tutto si completa con passaggio aereo coperto che conduce alla palestra, e con generosi spazi all’aperto protetti dagli sguardi indiscreti e ideali per il gioco ed il movimento all’aperto. Insomma un edificio che costituisce un ottimo biglietto da visita della città per chi arriva da Atella, tanto per il valore architettonico, quanto per quello storico.
Orbene, cosa si intende fare di un’opera così “degna”? Semplicemente la si vuole demolire!
Sulla carta lo si fa per ricostruire una scuola più bella ed efficiente, ma siamo sicuri che sia la migliore soluzione? E se invece la nostra comunità avesse maggior beneficio dal mantenimento di questo simbolo di virtù civica - oramai storicizzato - più di quanto non possa ottenerne da una moderna struttura costruita al massimo ribasso?
Ma poi perché demolirla? Certo, c’è stato un crollo di un tramezzo in tufo! Ma sappiamo che quella parete era stata impropriamente caricata con uno scaffale colmo di carta “appeso” alla parete stessa anziché poggiato sul pavimento, come normalmente accade. E se fosse stata semplicemente quella la ragione del crollo? E se la struttura fosse nel suo complesso ancora solida e sicura?
Il dubbio è pertinente, giacché il nostro eccelso edificio scolastico non presenta una sola lesione, e sarebbe questo il primo caso di un edificio in demolizione senza alcun segno premonitore di un difetto strutturale, se si eccettua il crollo della parete sulla cui singolarità abbiamo già detto.
Naturalmente l’Amministrazione, prima di prendere la drastica decisione di demolire, ha fatto le sue indagini incaricando un importante strutturista dell’Unibas. E nonostante ciò non possiamo esimerci dal rivolgere una domanda all’amministrazione comunale e alla cittadinanza rionerese: siamo sicuri che demolire sia la migliore strada praticabile?
Noi ci permettiamo di dubitare! Per tante ragioni. Perché non ci vogliamo rassegnare all’idea che quel monumento architettonico sia in uno stato di sofferenza tale da non poter immaginare un intervento di conservazione. Perché se un edificio di pregio, pesantemente ristrutturato e rinforzato dopo il terremoto del 1980, deve andare giù, allora dobbiamo iniziare a pensare che tutta l’edilizia di quel periodo dovrà andare giù. Perché la demolizione di un edificio di tali proporzioni creerebbe un disagio enorme al quartiere, basti pensare alle polveri che ammorberebbero per mesi e mesi l’abitato. Per tutte questa ragione chiediamo che venga aperta una discussione pubblica con l’Amministrazione Comunale per verificare se la decisione di demolire e ricostruire sia la più opportuna, oppure se, al contrario, sia più sensato prevedere un intervento di conservazione edilizia che consenta di salvare la scuola del Piano Regolatore.
Michele Grieco – Centro Studi Leone XIII
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La bozza del decreto Sblocca Cantieri, finalmente è diventata realtà da discutere e da approfondire prima che diventi un decreto definitivo.
Tra le tante opere italiane progettate e incompiute, parzialmente compiute, obsolete e ferme,
ci sono anche le
10 OPERE INFRASTRUTTURALI PIU’ IMPORTANTI E URGENTI IN BASILICATA,
sulle quali, fare una battaglia con grande determinazione affinché questa “importanza e urgenza” diventi priorità per il governo:
1) Completamento e raddoppio parziale della SS 95 Variante Tito (svincolo Potenza – Sicignano) – SS 598 (Brienza) – Autostrada SA/RC.
2) Velocizzazione e ammodernamento della linea ferroviaria Battipaglia-Potenza-Metaponto: Costi: 1.167 milioni di euro, di cui solamente 32 milioni disponibili.
3) Frana di POMARICO: al momento nessun progetto esecutivo, solo interventi di messa in sicurezza parziale.
4) Progetto con raddoppio della S.S. 7 tratto Matera-Ferrandina e completamento della rete ferroviaria regionale (Ferrandina – Matera): al momento solo pseudo studi senza nessuna fattibilità concreta.
5) Raddoppio e ammodernamento della S.S. 658 – Potenza - Melfi – Ofanto – Autostrada Napoli Bari.
6) Completamento, ammodernamento e raddoppio parziale della S.S. 655 Bradanica (Ofanto – Matera) con estensione a SP 380 (Lago di San Giuliano – Metaponto.
7) Raddoppio del raccordo MATERA tra S.S. 99 (MT/BA) e S.S. 7 (MT/Ferrandina).
8) Velocizzazione e ammodernamento della linea ferroviaria Potenza – Foggia.
9) Ammodernamento della E 847 Basentana (Sicignano – Metaponto).
10) Completamento, ammodernamento e raddoppio parziale della S.S 653 Sinnica (Autostrada SA/RC – E90 Ionica).
Le forze politiche, sociali e culturali lucane dovrebbero per la prima volta, fare una potente battaglia per ottenere tutto questo in tempi certi.
Roma 3/04/2019
Prof. Antonio ROMANO
www.antonioromano.org
+393357721820
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Raga', prima di votare, ricordiamo che:
- dopo il diploma e dopo la laurea siamo dovuti andare via
- chi è rimasto qui a lavorare è un predestinato, figlio delle famiglie che contano
- la povertà della Basilicata è inversamente proporzionale alle ricchezze del sottosuolo (petrolio e acque) e del territorio (storia ambiente paesaggio turismo agricoltura allevamento)
- la sinistra ha ucciso i nostri sogni
- le promesse della sinistra fatte a noi ragazzi hanno invece determinato la ricchezza di quanti le ventilavano
- se votiamo PD e la sinistra, le clientele cresceranno e le povertà aumenteranno
- Crob, ospedali e sanità, non dimentichiamo le inchieste della Magistratura molto circostanziate sul sistema assunzioni promozioni carriere
- ma voi, elettori elettrici, quando ci vedete alla sosta degli autobus o delle ferrovie con i nostri zainetti in spalla, voi, non vi si stringe il cuore?
- ragà, torniamo per votare, e poi andiamo via dalla Basilicata perché posto per noi non c'è. Qui c'è clientelismo e povertà
- Assurdo: Basilicata ricca di risorse e povera di lavoro. E noi andiamo via.
I ragazzi del Vulture che non torneranno più - Centro Studi Leone XIII – www.tucciariello.it
Caro presidente Bardi, è stata una bella battaglia elettorale la nostra. I nostri elettori hanno compreso che il tempo per cambiare era ed è questo, ora, adesso e nei mesi e negli anni a venire. Basta clientelismo, basta con le mezze calzette, con gli incompetenti, con i nullafacenti; basta con i possessori di tessere, con i clienti, con chi non ha solide radici ideali, le uniche capaci a reggere una schiena dritta e non banderuole volte alle più svariate direzioni dei venti. Il centrodestra ha vinto, noi abbiamo vinto non solo per demeriti della sinistra che – come abbiamo scritto con i nostri studenti del Vulture oramai costretti ad andare altrove, spesso all’estero – ha distrutto ed incenerito sogni millantando certezze vuote o impegni socioeconomici lungamente disattesi. Abbiamo vinto anche per meriti nostri, perché mai ci siamo piegati alle sirene della sinistra e dei suoi più suadenti predicatori mostrando invece tenacia, costanza, sicurezza in virtù di valori etici che ci derivano dalla nostra breve o lunga militanza nelle varie ramificazioni culturali della Chiesa, nostra madre. Ora presidente lei sceglierà la squadra. E nella nostra squadra noi ci sentiremo più sicuri, e non solo rappresentati perché lei generale è in grado di garantire tutti, da destra a sinistra. Ma ci sentiamo più sicuri, più al riparo con la presenza in Giunta Regionale del nostro Cosimo Latronico, in virtù delle sue solide radici e delle accertate capacità e competenze. Inutile farla lunga su Cosimo. La sua storia parla chiaro. Con lui, noi ci sentiamo più sicuri. Noi speriamo, con i nostri studenti e con i nostri amici, che la sua squadra di governo porterà vantaggi a beneficio della nostra regione. A lei, ogni attestato di stima.
Pasquale Tucciariello, coordinatore Centro Studi e padre Bernardino Traversi (uno degli ultimi allievi di Padre Pio ancora vivi)
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Dovrei dire del nostro tempo. Lo spero per noi e per Greta. I suoi nemici sono già in agguato. L'arma migliore, da sempre, da quando non si è potuto chiudere la bocca con un colpo al cuore ben assestato, l'arma migliore resta sempre l'accusa. Socrate aveva corrotto i giovani facendo perdere la fede negli dei di Omero, Cristo aveva voluto farsi re d'Israele e aveva bestemmiato dichiarandosi figlio di Dio e perciò era pazzo, e aggiungete quelli che io per necessità di spazio e per non conoscenza non cito. Ma non posso non ricordare un'altra donna, come Ipazia, che osò mettersi contro Cirillo, negli anni in cui l'obiettivo primo di Costantino, poi di Teodosio I e II, fu quello distruggere tutto ciò che materialmente testimoniasse il paganesimo. Apparentemente Greta è una ragazzina con una cultura scolastica propria dei suoi sedici anni, in realtà impersona, da un punto di vista storico, l'uomo che sin dai primordi dell'Umanità si è chiesto, tra l'altro, se la Terra non fosse la sua vera madre. Oggi, sappiamo che non è un'espressione tra il poetico e la presa in giro di chi si è mangiato un po' del suo cervello, ma una realtà drammatica di cui, la scienza astronomica e non solo, ha cercato di mettere in evidenza il pericolo imminente. Greta è stata suscitata, tra gli incatenati della Caverna, che siamo tutti Noi, dallo Spirito o dall "Amor che move il sole e l'altre stelle", ed è stata scelta, come la Maria del Vangelo, non perché dotata di una intelligenza somma,una dote fondamentale per chi vuole dominare gli altri (qui intellectu praeminent naturaliter dominantur - chi è più intelligente la fa da padrone senza problemi), ma perché nel suo animo è stata accesa fin dalla nascita la fiamma che illuminerà la sua strada verso quell' "Altissimu, bon Signore "di Francesco d'Assisi, un Dio non cattolico nel senso comune del termine, che ci guida nel ritornare a "Lui". Non ci credi che "ritorniamo a Lui"? Ricordati che aveva ragione Lavoisier che "nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma". Se così non fosse,dovremmo aver anche paura, per l'aumento enorme della popolazione sul Pianeta, che un tale peso in costante crescita crei problemi al viaggio astronomico del nostro pianeta.
Ma non divaghiamo. Io spero che il vento, suscitato da Greta sia quello, che poi forse è l'ultimo treno, che, senza estremismi "climatici", spazzi via lo smog" che sta facendo già morire piano piano ma inesorabilmente la biosfera senza che noi comuni mortali ce ne accorgiamo più di tanto. Èvero, i “rivoluzionari” da Platone a Cristo , a quelli meno "spirituali" di tutti i tempi e soprattutto dell'età moderna, non hanno avuto successo, se si eccettua il Mahatma, che comunque pagò con la vita. Contro chi vanno quelli che da sempre vogliono la "rivoluzione"? Contro il Potere, che però si avvale d'uno strumento del quale i viventi non possono fare a meno, cioè del “ pane quotidiano" o, buttando loro in bocca come a Cerbero "che caninamente latra" nell’ inferno dantesco, un po' di leccornie o di altro a seconda dei loro sensi che il tiranno vuol tenere buoni. I poveri non si sono mai uniti contro, se non per obiettivi minimi ed effimeri, come i Miserabili di Victor Hugo. Quello che dobbiamo sperare che Greta sia "tetragona ai colpi di ventura", soprattutto contro l'accusa di essere affetta dalla sindrome di Asperger, e non ha la maturità per reagire come papa Francesco. Quando non funziona l’attacco al corpo, spesso si attacca la mente. L'accusa di follia ha toccato tutti quelli che hanno combattuto, pur senza poter sconfiggere il terribile Moloch, da Cristo in poi. Ma proprio Cristo ha detto che solo “i violenti conquisteranno il Cielo”. E i violenti, di cui parla, non sono quelli che impugnano le armi per combattere contro chi ha il potere per prenderne il posto, ma quelli che fanno violenza a se stessi pur di perseguire fino alla fine lo scopo della vita sulla Terra, che noi non conosciamo, ma intuiamo come quello proprio dell'Eterno che abbraccia il tutto immerso nel “Panta rei” ( Tutto scorre). Se l’uomo non torna alla Natura e resta preda del “libero arbitrio”, per l’Umanità non c’è futuro, e non mi si accusi di oscurantismo.
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Tra virgolette perché non lo dico io. Lo dice Vittorino Andreoli, un nome che è tutto dire quando si parla dell'uomo sociale dei nostri tempi, costretto ad essere "flessibile" più di quanto la storia umana finora ci abbia tramandato. L'uomo "tetragono ai colpi di ventura" è ormai appannaggio di un Ulisse metafisico che andò oltre la sua Itaca "per cercare virtute e canoscenza” e “infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”.
Ma forse no. La resistenza fino alla fine riguarda soprattutto chi fa "carriera politica", che poi, nei sistemi democratici, se si eccettuano gli USA e in maniera similare il Regno Unito, è carriera alla conquista del potere dai livelli iniziali, a quello supremo che, nel nostro sistema, è arrivare in Parlamento, anche regionale, o al governo di almeno uno dei tre poteri. Una volta conquistata quella porzione di potere, che si è potuta “conquistare”, non si molla più e si resiste fino alla fine, che poi è quella che il Signore ha assegnata. E così il politico, per dimostrare di essere "tetragono ai colpi di ventura" è disposto, a seconda del suo livello di potere, d'infliggere sofferenze ed anche martirî, i più dei quali restano sconosciuti e lontani dalle ribalte. Ed è a quel punto, che identificandosi con la sua pubblica filosofia, si fa per dire, non "si arrende" fino alla morte. Morte che non sempre, anzi quasi mai è quella di noi comuni mortali, ma è un po' fuori dal comune, come la Storia ci ha mostrato. Per citare gli ultimi, in ordine storico e ancora presenti nella nostra sociologia, Mussolini, Hitler, lo stesso Stalin ormai ebete a Yalta. Sì, perché, secondo Andreoli ma anche secondo noi piccoli osservatori delle vicende umane, il Potere non ha mai vinto. Può uccidere, com'è successo e succede, può eliminare tutti quelli che gli sono contro lasciando in vita solo quelli che lo servono, ma non potrà comprare l'anima dell'umanità, che "ama" per natura sia secondo il pensiero antico sia secondo l'insegnamento di Colui che ha detto e dimostrato di essere figlio di Dio.
Allora? Come si fa se chi ambisce al potere è subdolo e ne sa una più del diavolo nel nascondere quello che veramente gli sta a cuore? Come si fa se il politico è più acuto di Zi' Dima nel dimostrare che la colpa è dei migranti, pardon del vasaio che da solo s'e' incastrato nella giara? Il nostro politico si dichiara democratico, rispettoso della Costituzione, ecc. Ma la nostra Costituzione, per non ripetere altro già detto altre volte, non recita all'articolo 10, comma 2, “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”, che non è una legge di polizia, come quella approvata dal Parlamento e in vigore dal 1° gennaio c.a.?
Io posso capire nostro padre Dante quando lamentava che "le leggi son, ma chi pon mano ad elle?”, ma lui visse in un periodo storico in cui non c'era la democrazia. Allora il potere, senza camuffamenti, era in mano al più forte. Ma oggi lo si esercita secondo le regole democratiche. No? Non è vero? È vero allora quello che diceva Rousseau, che da questo punto di vista l'umanità, da quando è nata la civiltà, non ha fatto alcun progresso verso la società degli uomini, “uno per tutti e tutti per uno” dell’uomo primitivo? O, come riferisce Michele Ciliberto, su il Sole 24 ORE del 17 c.m., quando fa dire a Machiavelli che i problemi fondamentali dell’uomo hanno mutato forma, ma sono stati sempre gli stessi e che tali resteranno, fino a quando la politica continuerà ad avere un ruolo centrale nell’esistenza umana? Ma, per concludere e per non glissare sulla cosa più importante, perché la magistratura non agisce " d'ufficio" contro l'Autorità che viola la Costituzione? Ricordi il referendum sull'abolizione del finanziamento ai partiti e non solo? Il potere ti prende se non continui a ricordare, o a resistere ed ad insistere. Non è costume nostrano che ognuno si arroghi il potere d'interpretare le leggi? Nostrano, perché l'altra sera per televisione, Piercamillo Davigo ricordava ancora il caso Madoff negli USA, condannato per evasione fiscale a ben 150 anni di carcere, che sta tranquillamente scontando alla bella età di ottant’anni. E poi, la Costituzione non è la legge primaria, cui le leggi del Parlamento si devono uniformare? Insomma Salvini e compagni hanno violato sì o no la Costituzione e risponderne? Come si vede, la nostra è “una democrazia vuota”, come dice Andreoli e siamo in tanti ad averlo pensato e pensarlo. Altro che Sicurezza, da noi ormai da anni chi “può” fa quello che gli pare e piace, ricoprendo il suo cuore di lupo col vello di pecora di un gregge, spesso, di un Buon Pastore.
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Con l’espressione “questione meridionale” si indica l’ormai secolare dilemma di politica interna, tra il nord e il sud della nazione, determinato dallo squilibrio economico, civile, sociale, culturale. La definizione venne usata per la prima volta nel 1873 dal deputato lombardo Antonio Billia, recependo la dolorosa situazione economica vigente nel Mezzogiorno, in confronto alle altre regioni dell’Italia unificata. Le origini di tale squilibrio sono lontane, da attribuire, secondo la storiografia ufficiale, a quella mancanza di un periodo “comunale” mai ascritto al sud; ed ancora alla presenza qui di monarchie straniere come la Spagna, di certo non evolute come lo era invece la Francia, occupante il nord dell’Italia.
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Ecco dove finiscono le risorse finanziarie regionali: nelle assunzioni pubbliche (clientelari, questa l’accusa della magistratura). Nel Veneto sono occupati 58 dipendenti su mille, in Basilicata 228 su mille. Si spendono importanti risorse economiche regalandole ai dipendenti (assunzioni, promozioni, posizioni organizzative, progetti obiettivo). Impegnando le risorse sui dipendenti, restano insufficienti i fondi per finanziare progetti per opere pubbliche, per investimenti sul territorio, per l’immagine stessa della nostra regione. Un esempio: Parco regionale del Vulture, istituito con legge regionale del 20 novembre 2017 (o altri rari progetti sparsi nei vari territori). Ma dove prenderanno i fondi se le più importanti risorse vengono impiegate su dipendenti e servizi, peraltro carenti? Mancano i fondi per gli investimenti, unica possibilità per dare occupazione produttiva, sviluppo e capacità di crescita. La “lettera aperta” del presidente del Veneto ai lucani va analizzata anche in questa direzione. Ve la proponiamo in sintesi.
Lettera aperta alla Basilicata, di Luca Zaia
"Un Sud nuovo serve all'Italia intera"
Il Veneto. "Siamo la regione italiana che spende meno per il personale: 22 euro per abitante contro la media nazionale di 35 euro. Una regione che ha 58 dipendenti ogni mille abitanti quando la media italiana è di 70 e la sola Basilicata ne ha 228. Un dato che la dice lunga sulla gestione sanitaria veneta: da noi la spesa farmaceutica convenzionata nel 2017 è stata pari a poco più del 6 per cento, in Campania, Puglia e Lazio ha superato di gran lunga l'8 per cento”.
(…)"Abbiamo costruito un sistema sanitario fondato sui princìpi di una buona e oculata amministrazione, con costi minori di altre realtà e qualità superiore (siamo stati appena riconfermati regione benchmark). (…) Per i tanti sprechi, i medici sono le prime vittime di una cattiva gestione che caratterizza molte strutture del Sud. (…) State attenti cittadini del Sud, a quello che vi raccontano i vostri rappresentanti amministrativi e politici! Controllateli bene, perché ancora una volta giocano a tenervi la testa nascosta sotto la sabbia, vogliono che continuiate a non vedere, hanno paura che qualcuno - come sta accadendo in queste settimane - metta definitivamente a nudo i meccanismi con cui hanno governato per decenni tenendovi, come sostengo io, in una condizione di vera e propria mezzadria".
Basta clientelismo, basta con il Pd e questa sinistra che governa da 25 anni. La Basilicata è regione ricca di risorse e povera di lavoro, e i nostri ragazzi sono costretti ad andare via.
Pasquale Tucciariello
www.tucciariello.it
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La Banca d’ Italia fa il punto della situazione sul debito pubblico complessivo dello Stato Italiano e delle sue amministrazioni pubbliche alla fine del 2018 in riferimento al debito pubblico alla fine del 2017.
Il risultato definitivo è il seguente:
Il Debito pubblico consolidato al 31/12/2018 su base annua ha raggiunto i 2.316,7 miliardi di euro, quindi è aumentato ancora rispetto ai 2.263,5 miliardi raggiunti a fine 2017.
Tale aumento del debito di ben 53,2 miliardi di euro è composto dall’aumentato fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche per 40,6 miliardi di euro, dall’incremento delle disponibilità liquide del Tesoro ed infine di altre spese pubbliche in via di definizione (scarti e premi all’emissione e al rimborso della rivalutazione dei titoli indicizzati), ha accresciuto ulteriormente il debito.
Quindi , anche quest’anno, si chiude con un incremento del debito pubblico italiano. Il tutto si manifesta di fronte a una riduzione del PIL e a una situazione economica stagnante. Che fare ?
Sono necessarie nuove strategie economiche, sono necessari cambiamenti culturali dell’uso del danaro pubblico in investimenti, strutture, ricerca e modernità.
Sono necessari i controlli non tanto nella società civile e produttiva, quanto nella pubblica amministrazione che continua a produrre costi improduttivi a danno dell’intera collettività. È necessaria la creazione di un osservatorio dei prezzi degli acquisti pubblici che sia in grado di confrontarsi con la media dei prezzi europei, è necessario introdurre il risultato come metodo comparativo di efficienza ed efficacia dei dipendenti pubblici, nonché la progressiva riduzione della burocrazia statale che è improduttiva e costosa.
E questo sarebbe solo l’inizio...
Prof. Antonio ROMANO
www.antonioromano.org
+393357721820
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Era di Oppido Lucano, don Antonio Giganti. Ci eravamo sentiti qualche giorno prima di Natale scorso: "Come stai?", mi chiedeva con la sua voce quasi sorda, ma chiara e calma. Lo aveva conosciuto parecchi anni fa e lo avevo coinvolto in <<Centro studi per la ricerca in educazione "Vincenzo Solimena">>. Lui si occupava delle pergamene della Ricettizia di Forenza, di quelle in particolare scritte da notai tra il quindicesimo e diciannovesimo secolo che scrivevano in maniera tale che gli attori del "contratto", povera gente analfabeta, non solo si trovava immersa in un latinorum di manzoniana memoria, ma anche di fronte ad una pelle di pecora spesso abrasa e riusata, sporca di materiale non conoscibile e con una grafia che non apparteneva ad alcun tipo di scrittura medievale di cui parla il Mabillon nel De re diplomatica. Don Antonio aveva insegnato Storia medievale all'Università di Bari. Era uno specialista di Paleografia e Diplomatica del Medioevo, in cui io credevo avere le competenze necessarie dopo l'esame universitario e dopo un supplemento di studio prima di dedicarmi alla trascrizione. Un solo ricordo professionale di Antonio Giganti sulle pergamene della Ricettizia di Forenza : "Nella provincia di Potenza, solo Pignola ha un numero di pergamene superiore a quello di Forenza. Voglio indagare perché". Ma la vita brevis non ha potuto alcunché rispetto all'ars longa, perché Atropo assolve inesorabilmente il suo compito. La storia che Antonio Giganti insegnava non era il racconto di vicende, ma una specie di quadro, di Leonardo o di Giorgione, in cui, sullo sfondo, il paesaggio commenta e spiega l’immagine di primo piano. Con lui viene meno un punto di riferimento per chi è nato con la passione della storia, non quella che si dedica alla ricerca delle proprie ascendenze, naturalmente senza dare a vedere e per via dell' "ossessione delle origini" di Marc Bloch, ma quella che indaga sull'uomo e sulla sua vita. Una quercia, don Antonio, che cadendo ha lasciato scoperto e privo di nutrimento i viventi del sistema ecologico del suo piccolo prato.
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Spesso, quando sono a piedi nelle passeggiate in giro nel mio paese, amo peregrinare attraverso i tanti vicoli e le tante strade secondarie che si concentrano per lo più a ridosso del centro storico, evitando volentieri la bolgia dei caroselli automobilistici sempre in voga nelle strade del centro, per immergermi squisitamente nella pace che qui ancora regna sovrana, lasciandomi attraversare dal silenzio dei secoli andati, i quali riescono ancora a fare eco e parlare a memoria, cuore e radici.
La storia delle “Suore della Chiesa dei Morti” si svolge tutta in un vicolo un po' disconnesso ma certo arieggiato e pulito, adiacente ad un Largo che è poi una delle traverse della più nota via Umberto I, strada di lastroni in tipica pietra vulcanica che conduce appunto all’omonima Chiesa, altrimenti detta del SS. Sacramento.
Ed è proprio in largo Sanfelice che riposa una delle tante “piccole grandi sorprese artistiche di Rionero”, una di quelle che sbucano come un inaspettato abbraccio dietro l’angolo del quasi certo decadimento urbano di cui per chiacchiericcio sterile e anche un po' per moda insulsa e senza volontà risolutiva noi cittadini ultimamente siamo soliti parlare: il piccolo monumento religioso prende il nome ufficiale di Chiesa di San Pasquale ma la chiesetta è chiamata da tutti i rioneresi “la Cappella delle suore dei Morti”.
Nascosta nel suo erigersi discreto, di semplice ma sostenuto impatto visivo, la Cappella, nata come oratorio privato della famiglia Corona, costruita già nel 1773, giace semiaddormentata in questa apertura della strada che tanto in estate quanto in inverno, appare lautamente baciata dal sole. Il piccolo e grazioso monumento venne aperto ai fedeli come “cappella rurale” nel 1796 con la contestuale cosiddetta “rinuncia al Confugio” ovvero senza permesso di attuare il diritto di qualsivoglia asilo, così come si rileva dall’iscrizione posta in epigrafe marmorea sull’architrave della porta (“Si vieta il diritto di asilo affinché non aumenti la crudele sfrenatezza. Si autorizza a costruire affinché cresca la pietà. Anno della riconquistata salvezza 1796.”)
Ed è proprio il palazzo della famiglia Corona, sede attuale dell’Istituto, posto una manciata di passi sullo stesso slargo, separato e al tempo stesso unito alla Cappellina da un piccolo arco in muratura che apre al vicolo I Sanfelice a passare, nel 1923 nel novero delle proprietà del senatore Giustino Fortunato, il quale acquistatolo, subito lo cede in donazione, in data 10 Ottobre dello stesso anno, all’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia (Opera Don Minozzi) la quale a sua volta ne affida la gestione alle suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, congregazione fondata da Madre Clelia Merloni a Viareggio poco meno di due decenni prima (esattamente nel 1894) suore che solertemente aprono in questa sede il loro primo laboratorio in data primo novembre 1924.
L’apertura dell’asilo-accoglienza, specializzato nell’insegnamento del ricamo e di altri lavori manuali tipicamente femminili per le giovanissime che si mostrarono, fin dall’ inizio di questa bella storia, ben disposte a completare una sorta di educandato prezioso e raro all’interno di una società ancora fortemente rurale e dunque largamente analfabeta, completava il primo ed essenziale grado di istruzione dell’infanzia e della prima fanciullezza cui le suore spesso portavano cospicuo il loro contributo umano. Un gran numero di documenti fotografici dal forte impatto visivo presenti ancora oggi all’interno dell’istituto, testimoniano il grande seguito che questi laboratori ebbero fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando insieme a questi corsi che nel contempo andavano perdendo l’impatto della frequenza, vennero istituite le scuole materne, con aule sempre gremite di bambini che furono dunque formati per intere generazioni dalle suore.
Oggi, dopo la chiusura al pubblico - a partire dagli anni Sessanta - della Chiesetta di San Pasquale, monumento dal quale queste due povere chiacchiere sono partite (chiesa che, se si eccettua talvolta l’apertura mattutina, resta fondamentalmente chiusa al pubblico eccezion fatta per le grandi occasioni di festa relative all’Istituto e alla Parrocchia) un senso di malcelata malinconia sembra pervadere il vicolo e lo slargo a ridosso del Rione Morti. O chissà, forse sono solo i miei occhi e i miei pensieri a volerlo vedere. Certo, quei tempi sono andati e non torneranno più. E forse, chi lo sa, forse anche sulla scuola dell’Infanzia delle suore di vico Sanfelice, che intitolata nel frattempo alla madre di Giustino Fortunato, ancora funziona e offre puntuali ed innovati i suoi servizi, pende una sorta di invisibile e latentemente minacciosa “Spada di Damocle”.
Il decreto ministeriale del 2001 ha sì equiparato le scuole private rendendole a tutti gli effetti valide nel loro supporto paritario di valenza appunto statale, ma la scuola dove anche mia figlia è cresciuta e che ha visto tanti momenti belli e spensierati per diverse generazioni, riuscirà a rimanere ancora in piedi e a camminare con le proprie gambe nella non univocità delle proposte formative e valoriali della società del domani? Domanda complessa. Una cosa è certa: in un futuro sempre più incerto e instabile nelle sue tentacolari diversità educative, non so quanto la pur necessaria laicizzazione dell’istituto reggerà all’impatto degli inevitabili aggiustamenti sia scolastico–istituzionali, sia sociali in senso stretto. Carenze vocazionali da un lato, non proficui accorgimenti ed attenzioni verso la cura della proposta educativa privata, lasciata a mio dire dal sentire comune che regna nei paesi di provincia “non ancora fortemente stabile e performante” rispetto a quella offerta invece dalle scuole statali (quando in città il credo volge esattamente al contrario) contribuiscono sfortunatamente ad ammettere oggi nel novero degli istituti di serie B anche i nostri “Asili delle Suore”.
Non è così. Non lo è perché al di là della mia esperienza personale con questo Istituto, è la storia a parlare. Lo fa senza riserve con le tante testimonianze di chi, convinto della validità delle persone che operano nell’Istituto, per l’Istituto ed intorno all’Istituto, ascolto vivide e pregnanti ancora oggi. Lo sono i fatti che - attuali o meno attuali - ruotano attorno a quella Casa che in profonda umiltà e discrezione lavora ogni giorno lasciando un valido, silenzioso ma importante solco nella società rionerese. L’Opera Don Minozzi è stata un gran motore del dopoguerra italiano e l’Istituto di Rionero, nella particolarità della sua storia di accoglienza e di educandato, ne è stato (e ne è ancora) una valida propaggine. Oggi l’Istituto si difende come può. Cerca un giusto e giustificato appoggio nel volontariato di chi è sensibile alle difficili questioni intercorrenti nel coesistere delle diverse possibilità nell’ambito delle scelte formative. I mezzi sono quelli che sono. La provincia nei suoi difficili equilibri pure. Tocca alla sensibilità di ciascuno tenere in conto e non abbandonare il privilegio della coesistenza e della scelta. Ricordo ancora il giornalino che con buona volontà e poveri mezzi redigemmo da autodidatte con un paio di mamme in aiuto dell’Istituto. Il titolo suonava profetico: “Ci siamo anche noi”.
Spesso le novità giacciono nascoste dietro gli angoli dell’ovvio o del maggiormente noto. Proprio come la Chiesetta di San Pasquale, silenzioso e discreto richiamo dietro l’angolo di via Umberto. Le scelte sono quasi sempre mute. Ma repentine. Come il colpo di genio silente ma immediato che Giustino Fortunato ebbe donando il palazzo all’Opera Minozziana. Esse ci aspettano sempre per fare di una seconda opportunità il seme di una piccola grande storia.
Dicembre 2018
ANGELA DE NICOLA
Centro Studi Leone XIII
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Chi ha parlato per primo della coincidenza degli opposti è stato Amintore Fanfani tanto tempo fa. Diceva che non c'era alcun differenza tra Brigate rosse e Brigate nere. E la Sinistra, che aveva già messo i paletti contro i movimenti extraparlamentari, dovette affrontare, sia pur per pochi giorni, l'accusa con una profluvie di argomentazioni. La stampa visse per qualche tempo tutta concentrata su quella "paranoia" del momento. Ma il nostro Fanfani, professore universitario, non disse ad alcuno che la sua trovata non era farina del suo sacco. In effetti la "coincidenza"degli opposti è una tesi filosofica che parte da molto lontano, attraversa il medioevo ed arriva ai nostri giorni sotto altre forme, che noi ritroviamo negli attori della vita sociale e soprattutto politica. Per essere più chiaro, soprattutto per i "pochi " che non hanno avuto la fortuna di "studiare", faccio i nomi dei filosofi che hanno sostenuto tale tesi.
Il primo è stato Eraclito, che sosteneva che il divisibile e l'indivisibile sono la stessa cosa, come il generato e l'ingenerato, la morte e l'immortalità, che Dio, nello stesso tempo Padre e Figlio, è eterno; tutte antinomie in movimento tra di loro in maniera dialettica (panta rei,che significa “tutto scorre”). Poi troviamo Niccolò Cusano, “inventore” dell'espressione "coincidentia oppositorum" (coincidenza degli opposti), poi Spinoza col suo “Deus sive Natura” (Dio e il Creato sono la stessa cosa). Ma per non farla lunga, su queste cose vecchie ed obsolete secondo qualcuno, e non essere pizzicato in fallo dagli specialisti del campo, pur attento nel non cadere nell'errore denunziato da Tacito, "dum brevis esse studeo obscurus fio" (spero di non diventare poco comprensibile cercando di essere breve), dirò del caso Salvini e poi di Trump, per parlare dei più gettonati nella cronaca quotidiana non solo nazionale ma anche europea per Salvini e mondiale per Trump.
Il giorno 8 dicembre a piazza del Popolo a Roma Salvini, che, fine a qualche settima prima, aveva gridato "è finita la pacchia" per extra comunitari (leggi "quelli dei barconi"), o faceva approvare dal Parlamento il cosiddetto Decreto Sicurezza, mettendo in mezzo alla strada quarantamila extracomunitari, anche bambini e donne, all'improvviso è diventato "buonista". Infatti nel suo discorso alla folla estasiata dal suo eloquio "franco ma concreto" a Piazza del Popolo a Roma, spazia da Martin Luther King a De Gasperi a papa Giovanni Paolo II, chiede “il mandato” (a chi?) per andare a trattare con l'UE (con quale autorità?), "il mandato di 60 milioni di Italiani". La confusione è totale.
Gli opposti coincidono in maniera impressionante, ma non nella maniera eraclitea in cui gli opposti hanno strutture intellettive ed emozionali ben organizzate (i greci le chiamano, al singolare logos, che significa essenzialmente “pensiero”), ma come miele che cola nella bocca di chi lo ascolta e che ad ogni parola controlla se è in sintonia colle parole e il cuore del suo idolo. Ma attenzione, con Salvini e Trump non ci troviamo in una condizione filosofica o, se preferite, in una di salute mentale, almeno così pare, ma in una situazione in cui l'uno e l'altro nascondono la vera meta del loro breve, fino ad adesso, viaggio. Che per Salvini è la conquista del Potere e per Trump, la conquista, lui dice “per l'America”, di ancora più oro di quello con cui ha rivestito e foderato i cinquattotto piani della sua Trump Tower, a New York. Mi consolo al pensiero che queste mie opinioni siano condivise da un gran numero di persone, giovani e meno giovani. Spero tanto però, che questi signori Salvini e Trump (ma ce ne sono tanti altri nei "corpi intermedi", ma anche tra noi comuni mortali), che mentono forse anche a se stessi, si rendano conto che stanno portando le società alla rivolta dei "gilet gialli", altra "immagine" di rivoluzione, rivoluzione che nella storia abbiamo incontrata spesso e che non ha mai risolto il problema dei "miserabili" o "sanculottes", per i quali oggi si usano altri termini. Nel Regno di Napoli o delle due Sicilie o dei Borboni fino a "Franceschiello", i miserabili erano circa otto milioni, che non si accorsero delle Guerre del Risorgimento se non per la loro morte in combattimenti senza sapere perché. Lo chiameranno Quarto Stato, ma oggi se ne sono perse le tracce nel blabla quotidiano, tutto ben finanziato dal nostro sistema politico e statuale.
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Le stime del Fondo Monetario Internazionale dicono che il debito globale è di circa 145.000 miliardi di euro.
Se dividiamo questa cifra per i sette miliardi di uomini che vivono sul pianeta, si ottiene un debito di 20.714 euro a testa (In Italia molto di più, 39.180 euro per persona e…. solo con il debito pubblico !!! Siamo indebitatissimi !! A questa cifra bisogna aggiungere il debito dei privati).
Come è ovvio, pochi individui riuscirebbero a pagare tale somma. Infatti come è notorio ci sono almeno 3 miliardi e mezzo di individui che vivono con meno di 3 euro al giorno. Metà del nostro pianeta non potrebbe pagare l’enorme debito contratto dai governi e dai privati.
Senza che ce ne accorgiamo, stiamo vivendo nella maggiore “bolla del debito” della storia umana. Il debito pubblico ed anche quello privato, continuano a crescere a un ritmo superiore alla crescita del Pil mondiale. In sintesi ci indebitiamo di più di quando produciamo e di quanto possiamo.
Finora siamo andati avanti cosi, in quanto al crescere del debito è cresciuta (meno) l’economia globale, ma se dovesse esserci una inversione della crescita il sistema imploderebbe.
Bill Gross, uno dei più rispettatati esperti di finanza al mondo, afferma che “il nostro sistema finanziario altamente indebitato, è come un camion carico di nitro glicerina che percorre una strada accidentata, sperando di non incontrare una buca che potrebbe far esplodere tutto“.
Il binomio, debito e costo del denaro devono essere monitorati con grande attenzione per comprendere se i soggetti debitori sono in grado di pagare i loro debiti.
Ora, il rapporto tra i tassi crescenti del debito e Pil con crescita inferiore, potrà generare manifestazioni tipo Lehman Brothers, ovvero fallimento di banche e brokers.
Il problema si manifesta anche al contrario, infatti, se i tassi del debito sono troppo bassi con un Pil inferiore alla crescita del debito, allora il sistema finanziario imploderà in un altro modo, in quanto gli investitori, non saranno capaci di generare redditi sufficienti per offrire servizi, remunerare il capitale e pagare il circolo vizioso del crescente debito, nel quale ineluttabilmente sono coinvolti.
Come uscirsene? Come evitare che la bomba del debito esploda in Italia e nel resto del mondo?
Purtroppo esiste un unico modo: PRODURRE DI PIU’, EVITARE DI AUMENTARE IL DEBITO DEGLI STATI, ESSERE PIU’ VIRTUOSI E MENO SPRECONI, RIDURRE IL PESO E LA BUROCRAZIA DELLO STATO, LIBERARE LE RISORSE ECONOMICHE BLOCCATE DAGLI STATI.
Per fare un esempio chiaro sul problema del debito, in Italia, bisognerebbe ridurre del 50% il lavoro pubblico. Bisognerebbe creare maggiore occupazione produttiva, liberandosi dai numeri chiusi, dai troppi vincoli, dai troppi “pseudo occupati” pagati con soldi pubblici dal rendimento scarsissimo, quindi, ovviamente senza mete e naturalmente senza risultati economici. Insomma, uno stato più snello e efficiente, più economico e meno costoso. Uno stato capace di pagare il suo debito, ma soprattutto capace di ridurlo marginalmente del 10% all’anno, in quanto chiunque, può ridurre i propri costi del 10% annualmente e quindi avere le risorse per pagare i suoi sperperi accumulati negli anni.
Prof. Antonio ROMANO
www.antonioromano.org
+393357721820
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Max Weber, in "L’etica protestante e lo spirito del capitalismo", distingue nettamente la frattura che c'è tra la società latino-cattolica e quella anglosassone- protestante e ne individua la causa fondamentale nel calvinismo, appendice storicamente quasi ultima della Riforma di Martin Lutero. Lo abbiamo detto più volte. Ma quello che non abbiamo potuto mai approfondire è quello che nella vita sociale del mondo latino-cattolico ci sono livelli sociali ben evidenti, quello del Quarto Stato ante litteram, del Terzo, del Secondo e del Primo, per usare la classificazione dello Stato di Luigi XIV, che la centrifuga feudale aveva determinato. In Italia oggi, come nel mondo latino e greco-ortodosso, soprattutto, ahimè!, greco, e in tutto il vecchio mondo conseguente all'Impero bizantino, (e non pensare che sia una “caverna” troppo lontana nel tempo e nello spazio), il passaggio da uno Stato all'altro, non da una classe all'altra di Darendorf per riferirci a chi negli ultimi tempi divideva la società, di impronta marxiana, in queste categorie, è possibile, il passaggio, come era previsto nella riforma di Solone di tanto tempo fa e di prima di Cristo, quando si poteva passare dall’ultima classe, quella dei Teti, o nullatenenti o braccianti, a quella dei Pentacosiomedimmi, solo in base alla ricchezza che l’interessato fosse riuscito a procurarsi. Da allora da noi si parla ancora oggi, anche se con minore certezza per via del caos in cui siamo immersi, di ascensori sociali.
Nei secoli del feudalesimo, come nella democrazia di Solone, il meno "costoso" era la scuola, ma il più potente era ed è la ricchezza, come ci ricordano i tempi dei comuni e delle signorie da noi e in Europa i Welser ed i Fugger. Ma i "poveri", che possiamo anche oggi definire “Quarto Stato”, avevano come strumento per il passaggio di classe solo l'ingegno, che utilizzavano nello scrivere o far di musica, o arte in genere, per la nobiltà feudale e la chiesa, a metà strada quest’ultima, dopo la donazione di Sutri e il Dictatus Papae di Gregorio VII, tra il "trono e l'altare". Certo, tanti dotati d'ingegno non hanno mai scritto o fatto arte o scienza per adulare i generosi padroni di "nobil Prosapia", che utilizzavano le loro opere come balsamo per lenire il dolore delle piaghe procurate alla propria coscienza. Al riguardo, basta ricordare, da noi, Leonardo, Michelangelo, Galileo Galilei, Ludovico Antonio Muratori, Giuseppe Parini, del quale ultimo conservo, come un oggetto sacro della mia adolescenza, una copia delle Odi regalatami dal professore d'italiano al ginnasio.
Oggi, da noi, e più vai nel Sud più profondo e più è acuta, ancora c'è la convinzione che tutto deve diventare ascensore sociale, soprattutto la conoscenza delle "belle lettere" per chi non ha altro da mettere a in campo. Ma chi dispone, come diceva Michels, di "bella presenza" o, come oggi si dice di "carisma", ma soprattutto furbizia nel rispondere "avete ragione!" ai disperati, che vediamo tutti i giorni gridare in piazza da qualche parte d’Italia, sceglierà come ascensore sociale la politica, o, per essere meno grezzi e irrispettosi, l’antico cursus honorum dei Romani. Non risponde, invece, il furbacchione, che mira, dunque, a conquistarsi il miglior privilegio che c'è nella nostra democrazia, non risponde all'impiegato che ha preferito diventare un clochard dopo la separazione dalla moglie, o al datore di lavoro che si suicida perché non è riuscito a risolvere il problema di non licenziare gli operai della sua ditta, o di pagare le tasse o ricorrere al marchingegno suggeritogli dalla fraudolenza.
Il privilegio sommo, che il darsi alla politica assicura, è sotto i nostri occhi: niente orari per l’uomo politico, non risponde di alcunché anche se ha fatto costruire cattedrali nel deserto per favorire gli amici col pubblico denaro, essere sempre ai primi posti “nel Tempio e nei banchetti” e tante altre “belle cose” che ai tempi di Marco avevano poca o scarsa importanza. Anche in Basilicata, quei pochi che sono rimasti con gli “attributi” richiesti e che pensano di avere, per entrare nel' "agone" sociale continuano a sognare la carriera politica come il migliore “ascensore” che lo elevi al di sopra del popolo “zotico e vil”. Se questo non è qualcosa di molto, molto vecchio nella storia del mondo "meridionale", io non riuscirò mai a capire perché la nostra democrazia sia veramente quella del "paguro".
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Qualche settimana fa un’amica mi invitò ad una conferenza a Filiano per conoscere un uomo egregio - mi disse. Io non esitai ad accettare. L’eccezionalità di un uomo, in un mondo, quello presente, in cui la stragrande maggioranza degli uomini porta il cervello all’ammasso, mi intriga sempre. Al nostro arrivo la sala era già gremita. Per fortuna non aveva ancora preso la parola Pietro Bartòlo (con l’accento sulla o mi precisarono) che di seguito indicheremo con la P.
Chi è Pietro Bartòlo? È un medico scrittore di Lampedusa autore di “Lacrime di sale” e “Le stelle di Lampedusa”. Figlio di pescatori, a 13 anni viene mandato dal padre a studiare prima a Trapani poi a Siracusa. Laureatosi in medicina con specializzazione in ginecologia avrebbe potuto fare carriera come primario ospedaliero. Nel 1988 invece fece ritorno a casa.
"L’incontro con i migranti ha cambiato la mia vita” dice. Come direttore del poliambulatorio si affanna con problemi amministrativi e sanitari, pratiche, terapie, farmacie, ticket, gestione delle emergenze. Ispezioni cadaveriche per mettere alla fine un numero o dare al migrante un nome attraverso il DNA. Non è cosa da poco. Si avverte una nota di tristezza nell’espressione di P. quando racconta gli sbarchi degli immigrati. Nei suoi occhi sembrano tornare in vita i bambini annegati, i cadaveri sfigurati, i salvagente bucati. Qualche anno fa – racconta - il rovesciamento di una barca fece affogare 368 persone. P. ci mostra un filmato subacqueo con immagini del recupero dei corpi. Restiamo a bocca aperta, in silenzio. Sono scene sconvolgenti di cadaveri sul fondo dell’imbarcazione, giovani che prima di spirare raschiarono a sangue con le unghie le pareti della stiva. C’è il ragazzo con la gamba scuoiata, l’uomo con i buchi di proiettile sulla schiena, una donna che partorisce sulla barca. Il cordone ombelicale legato dalla madre con i capelli strappati dalle sue trecce. (È chiaro il colore della pelle al momento della nascita, ci svela). Un’altra che sembrava morta e invece si è salvata, cadaveri in decomposizione. E altre immagini ancora più raccapriccianti registrano vite distrutte. “Non vi nascondo che a volte ho pianto e persino vomitato” ci confida P. E a me torna alla memoria la Shoah: questi sono i nostri sommersi e i nostri salvati per dirla con Primo Levi.
Alla fine tutti commossi. Uno scroscio di mani e la sala è in piedi. Alcuni presenti fanno capannello intorno a P. Anch’io mi avvicino. Voglio capire da quali motivazioni un uomo sia spinto a dare tutto senza chiedere nulla in cambio e in che senso tali energie psicofisiche ci chiamano in causa. “Non si può restare uguali a prima dopo aver visto cose simili e allora perché non dovremmo prenderci cura? Crediamo forse di poterci lavare la coscienza soltanto perché sono diminuiti gli sbarchi? Non è così“, dice P. “Un giorno tutti noi saremo chiamati a rispondere : dove eravate quando accadeva il massacro?“. È lucido e intransigente quest’ uomo insonne che mi sta davanti. Ed io che cosa ho imparato da uno che ci mette il cuore quando dice “è questo ciò che possiamo fare nel nostro piccolo per contrapporci alla barbarie, all’ignoranza, all’indifferenza”. Ho imparato a guardare le cose con altri occhi. So bene che non si ha molta voglia di parlare di queste vite distrutte ma esse sono una parte di tutti noi.
Gli antichi greci facevano una distinzione tra Eros (Amore) e Afrodite (la dea del letto, degli istinti). Gli sguardi degli immigrati mettono in moto l’amore che abbiamo dentro di noi. “Quando si guarda l’altro negli occhi – diceva Platone - si guarda se stesso nell’altro e attraverso l’altro facciamo i conti con noi stessi.” E P. per l’amore che profonde nella sua opera umanitaria a me appare un po’ erotico e mi trasmette una forza travolgente che mi riempie l’anima e mi induce a non rimanere vittima della paura. Vita grama è quella che viviamo oggi: assistiamo allo spregio dei più elementari diritti umani. E “quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere” scriveva Bertolt Brecht. Capite do-ve-re. Già Brecht. Ma chi era costui?
Graziella Placido
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Nell’ambito delle conferenze a scadenza periodica organizzate dalla Scuola Paritaria dell’Infanzia “A. Fortunato Rapolla” di Rionero in Vulture, giovedì 6 Dicembre, presso la sede dell’Istituto Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, alle ore 16,30 si terrà una tavola rotonda dal titolo “Insieme per crescere: Scuola, Chiesa, Famiglia”.
L’argomento è dei più vasti ed inesauribili, ma certamente, al tempo stesso tra i più scomodi e male interpretati e questo proprio perché a farla da padrone sono gli elementi di un trinomio tanto vasto quanto forse poco conosciuto e difficilmente maneggiabile. Una variabile però emerge come indiscutibilmente comune: il ruolo centralmente educativo di queste grandi e nobili istituzioni. I punti fondamentali del basilare rapporto che mette insieme e proietta le risorse educative di Chiesa, Scuola (pubblica e privata cattolica) e Famiglia come punti di collegamento privilegiati sullo sfondo della costruzione di una società a misura di identità precise, di antiche radici e di rispetto delle nuove differenze, saranno presentati e discussi dai relatori, tra cui Flavia Libutti (psicoterapeuta), Antonio Pinto (Ispettore Miur), Ciro Guerra (cancelliere della Diocesi di Melfi- Rapolla- Venosa).
In questi ultimi anni le svariate riforme legislative che si sono susseguite (in special modo dal 2010 in poi) hanno ridefinito senza dubbio il volto e la natura stessa della Scuola - sia Pubblica che Privata - portando quest’ultima ad una effettiva parità giuridico-amministrativa rispetto alla prima. Ma, al di là di aspettative, ripensamenti, ridefinizioni e “cadute di stile” - per la cronaca attuale - più o meno evidenti, ciò che occorre puntualmente fare è senza dubbio riflettere (e farlo programmaticamente e per bene) sulla natura di sussidiarietà e di servizio che vige all’interno del “Pianeta Scuola” così come, ovviamente, nell’”Universo Famiglia”, nonché – è chiaro - nella natura stessa della Chiesa, tutte protagoniste attive sullo sfondo di una società che si spera non perda definitivamente il collagene di quel dinamismo costruttivo e costruente che oggi sembra palesarsi come fortemente a rischio.
Infatti, così come la Scuola può e deve considerarsi risorsa per le Chiese locali (e viceversa) e così come la Famiglia deve incunearsi nelle dinamiche vitali sia della stessa Scuola che del patrimonio Chiesa inteso come scrigno di fede e tradizione, allo stesso modo, ogni membro della Società che vive inevitabilmente queste dinamiche, può e deve considerarsi mattone e membro vivo della società, avendo come missione al tempo stesso la trasmissione del valore cultura, la conservazione dell’etica del rispetto e dell’integrazione e la cognizione del dinamismo “in fieri” delle comunità che formano appunto il tessuto sociale.
Il vero “trait d’union” tra Scuola, Chiesa e Società resta dunque la Famiglia: in essa tutto viene catalizzato, digerito, ripensato e nuovamente ri-proposto. Se condivisa e partecipata e, meglio, addirittura se ingerita ed inglobata dall’ “Universo Famiglia”, la cellula scolastica, così come la dimensione Chiesa, potranno pertanto certamente essere ancora quei necessari ed irrinunciabili vettori, quei punti di riferimento e quel lievito per le nuove potenzialità e per le risorse umane all’interno dell’enorme e spesso difficilmente decifrabile “Contenitore Società”. Che è poi l’elemento costitutivo della nostra storia.
Appuntamento dunque a giovedì 6 Dicembre 2018 ore 16,30 presso il Salone dell’Istituto Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, Scuola Paritaria dell’Infanzia “A. Fortunato Rapolla”, vico Sanfelice, Rionero in Vulture.
Angela De Nicola
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Lettera aperta
Caro presidente, in questo seppur breve periodo di gestione del Parco del Vulture sicuramente lei si è già reso conto delle condizioni generali della S.S. 167 Rionero-Monticchio (Laghi, Bagni, Sgarroni). Già in passato ho segnalato che piante di alto fusto incombono pericolose lungo le strade. Ma anche cunette e cunettoni, realizzati per accompagnare le acque della sede stradale verso pozzi capaci poi di allontanarle, non sono tenuti in buono stato. A volte in piena curva l’automobilista si imbatte in pericolose ghiaiette accumulate che, come lei sicuramente sa, portano l’auto fuori pista. Anche la strada Atella Sant’Andrea è tenuta malissimo, anzi è divenuta a tratti impraticabile. E su queste nostre strade ci passano quotidianamente migliaia di persone. Ecco, il Parco del Vulture è fatto anche di queste strade. Un parco che deve essere attrattivo diventa invece repulsivo, sembra che voglia allontanare le persone, residenti e villeggianti, anziché mantenerli in loco ed attrarli per fare accoglienza e turismo di qualità. Bisogna mettere mano subito, caro presidente, coinvolgendo i sindaci immediatamente a ridosso del Vulture (Atella Barile Melfi Rapolla Rionero), Carabinieri Forestali, Polizia Municipale, un attivo insomma capace di intervenire subito individuando le criticità del territorio. Caro presidente, penso che con alcuni amici e strutture associative a breve mi farò promotore di un convegno ad Atella dove porteremo, con foto e diapositive che abbiamo raccolto, alla vostra attenzione e a quella dei cittadini le criticità del territorio e le proposte per dare risposte adeguate. Abbiamo deciso di rimanere su questo territorio, ma ci vogliamo abitare in condizioni di dignità. Vi sono situazioni che sono indegne ed assolutamente inconciliabili con l’idea di parco.
Cordialmente
Vito Amato, consigliere comunale di Atella
Sant’Andrea di Atella, 13 novembre 2018
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Da Lodi a Riace, per il momento. Ma se va di questo passo, vedremo il suo “imperio” presto anche dal Manzanarre al Reno e oltre, visto il panorama geografico dell’Ue. Nel sogno di Napoleone c'era anche la Russia. Tu mi dirai:"Amico, vedi che ha fatto il liceo classico, è "preparato" in politica, anche perché la fa da oltre vent'anni". Io non mi avventuro in un discorso intorno alla preparazione che si deve avere per fare "politica". Piuttosto vorrei far notare al mio amico, che il cuore del liceo classico è Socrate, che accetta la condanna a morte dei giudici, pur non avendo alcuna colpa, né nei riguardi degli dei né nei riguardi della polis né nei riguardi dei giovani che avrebbe corrotti. Ma per adesso Salvini può tagliare con la spada di ministro quello che non gli piace. Può benissimo disperdere ai quattro venti d' Italia i nuovi "cittadini" di Riace, etiopi, nigeriani, ganesi, ecc., alla faccia del "buonista" Mimmo Lucano, dal 16 u.s. condannato al divieto di dimora nel suo paese, appunto Riace.
Salvini, ma anche tanti altri politici, hanno assunto e assumono il comportamento del paguro (vedi “Contro l’industria dei partiti di Ernesto Rossi”, saggio introduttivo di Paolo Flores d’Arcais, La Repubblica del 21 settembre 2012), un mollusco marino che si riveste di una conchiglia, mangiandone l’eventuale abitante, della propria misura in quel momento. E se fosse anche la nostra democrazia una conchiglia in cui i politici in particolare vi vivono portandosela addosso, fatta non di calcio ma di norme che servono a legittimare i loro comportamenti, che non sono “sempre” in linea con quanto previsto non solo dalla Costituzione, ma anche dalle leggi non scritte dell'umanità? Ma, questo fenomeno, è solo in Italia o lo è anche altrove, o come pensava Weber, nei paesi latino-americani ed io aggiungerei in tutti e due i Sud del mondo, sia quello dell'emisfero boreale che di quello australe? In questi paesi, dove ci fosse la dittatura, il potere viene conquistato con la forza ed il cervello (Qui intellectu praeeminent, naturaliter dominantur – comanda chi è più intelligente, più o meno).
Nei paesi "democratici" come il nostro, viene conquistato con il sistema del paguro, vestendosi cioè di democrazia per arrivare là "dove si puote " e poi, una volta arrivato, ai nemici "lo metto in quel posto", o, meno volgarmente, "scaccio loro e mi metto io". Cosa che avviene ormai da duecento anni al seguito della Rivoluzione francese e come ha dimostrato il saggio Giuseppe Tomasi di Lampedusa col suo "Il Gattopardo". No, io non sono così stupido da fare la propaganda a Salvini e compagni, come diceva Renzi di D'Alema e come si accusava di farla per Berlusconi parlandone male in ogni situazione. Chi dicesse questo, come spesso leggo da qualche parte, nasconde il suo vero obiettivo. Noi viviamo in tempi nuovi per l'Italia, quelli in cui il livello culturale della gente è tanto diverso da quello del mondo contadino e operaio di qualche decennio fa, che per chi "studia" da “capo” sarà duro nascondersi nel guscio del paguro, che noi chiamiamo appunto "democrazia". Certo basterebbe proprio poco per annullare le loro ambizioni nascoste, se non si eliminano da soli, come sta succedendo, ed è il suggerimento di Tocqueville, di cui abbiamo scritto qualche tempo fa altrove, portare la durata della carica ad un massimo di quattro anni come negli USA. Ma la soluzione giusta, per una democrazia "vera" e funzionale alla società, è quella prefigurata appunto da Platone, soprattutto nel libro quarto di "La Repubblica", dove si dice che i governanti devono essere educati, se ne hanno la natura giusta, fin da piccoli ai compiti a cui dovranno far fronte per fornire allo Stato benessere e felicità. Salvini, col suo liceo classico, ci dovrebbe fare un pensierino, anche se, lo devo ammettere, l'idea di Platone è un'idea che suscita il ridicolo dei “benpensanti” non solo nei tempi che corrono, ma da sempre nella storia. Ed è sorella all'altra, quella cristiana, che dopo duemila anni non è arrivata ancora al ragazzo che spruzza di vernice bianca la ragazzina "così diventi bianca".